"Classico" vuol dire "Futuro"

Quanto può essere attuale il 'classico' nell'era moderna, dominata dalle nuove tecnologie, dalla comunicazione digitale e da un interesse smisurato per le discipline scientifiche a scapito di quelle umanistiche? A cosa serve il 'classico' oggi? Come facciamo a dare ad esso un senso che serva per il futuro?
Da queste domande ha inizio la riflessione che Salvatore Settis, storico dell'arte, ha affidato prima ad un agile libello, Futuro del 'classico', edito da Einaudi nel 2004, poi al programma web di RaiArte L'arte classica tra passato e futuro, in sei puntate girate presso la Centrale Montemartini di Roma, eccezionale esempio di connubio fra mondo classico e società industrializzata.
Le tesi di Settis prendono le mosse dal settore artistico, ma non possono non coinvolgere l'intero sistema culturale del mondo antico, poiché le stesse considerazioni riguardanti il recupero delle forme architettoniche o scultoree possono essere proposte in riferimento alla letteratura e al pensiero di Greci e Romani.
Come primo passo, bisogna smettere di considerare la classicità come qualcosa di morto e inutile: è paradossale che, in un tempo in cui la cultura e l'istruzione classiche sono fortemente sottovalutate, proliferino citazioni tratte dai capisaldi del pensiero antico. Questa moda ha per Salvatore Settis due effetti: uno - tutto sommato innocuo - è il mascheramento, dietro una selva di citazioni, della scelta di ignorare le civiltà classiche, l'altro, molto più grave, la trasformazione delle espressioni di tali culture in qualcosa di irraggiungibile, il porle su un piedistallo, alimentando quindi un atteggiamento di distacco irreversibile.
Eppure anche culture non direttamente connesse al mondo greco abbondano di riferimenti alla classicità: non a caso Hayao Miyazaki ha dato alla protagonista di un suo manga il nome omerico di Nausicaa. Ma non si tratta solo di un processo di citazioni letterarie: nel cuore della ipertecnologica Tokyo è sorto un locale, il Caffè Bongo, che, pur avendo una struttura modernissima, è caratterizzato dal recupero delle sculture antiche negli interni.
L'architettura e il design sono molto ricettivi nei confronti della classicità, ma il problema del futuro del classico non è tanto formale, quanto sostanziale: la difficoltà dei cultori del mondo antico non risiede nella capacità di far apprezzare la storia e l'arte greco-romana, ma, piuttosto, nella possibilità di rendere attuale e indispensabile il sistema culturale che sta alla base di esse, trovare, insomma, una funzione contemporanea a materiale che, apparentemente, ha esaurito le proprie risorse pratiche.
 
 
Delineando la storia del 'classico' attraverso oblio, riscoperte, travisamenti e strumentalizzazioni (non sempre negative) di questo concetto e del mondo cui si riferisce, Salvatore Settis descrive con estrema chiarezza - nel libro come nel programma ad esso ispirato - il sistema estetico, ideologico e morale che ha in passato determinato la fortuna dell'epoca antica, ma, allo stesso tempo, individua chiaramente le soluzioni intrinseche alle espressioni classiche per un progresso politico, sociale e culturale futuro.
Il 'classico', come riscoperta, è stato spesso associato ad un sistema etico: la perfezione formale dei Greci, che per Winkelmann si sintetizzava nella formula «nobile semplicità e quieta grandezza» e trovava il suo simbolo più compiuto nell'Apollo del Belvedere, era considerata nei secoli XVIII e XIX lo specchio di un sistema morale superiore, da prendere come esempio di vita e sulla base del quale educare i rampolli dell'alta borghesia. Divenuti il vessillo della Rivoluzione Francese in quanto espressioni dell'uomo libero in una società democratica (quella ateniese), l'arte e il pensiero classici si sono presto trasformati negli strumenti più efficaci dell'eurocentrismo e, di conseguenza, dell'imperialismo.
Il 'classico', dunque, ha avuto prevalentemente un valore identitario, di parametro di riferimento culturale e morale per l'intero mondo occidentale, che, abbagliato dai luminosi e armonici marmi romani, ha creduto di poter vedere in quella perfezione un segno della propria superiorità estetica e, quindi, morale. Ma il mondo e il pensiero, oggi, sono profondamente cambiati, e una simile declinazione del 'classico' è non solo anacronistica, ma lesiva della sostanza stessa del concetto:

«Quale può essere il posto degli Antichi in un mondo caratterizzato sempre più dalla mescolanza dei popoli e delle culture, dalla condanna dell'imperialismo e dalla fine delle ideologie, dalla fiera rivendicazione delle identità etniche e nazionali e delle tradizioni locali contro ogni egemonia culturale? Che senso ha cercare radici 'comuni', quando tutti sembrano piuttosto impegnati a distinguere le proprie da quelle del vicino?»

La risposta alle esigenze della società contemporanea si possono trovare nelle prospettive storico-artistiche apertesi con gli scavi di Olimpia e Delfi o con la scoperta della Colmata persiana, che hanno portato alla luce, nell'Ottocento, testimonianze di arte arcaica che hanno costretto gli storici a scardinare molte delle idee imperanti nel settore antichista: l'arte greca non era solo compostezza, candore e levigatezza, ma anche ieraticità, colore, frastuono, violenza. I marmi lucidi tanto cari a Winkelmann erano soppiantati da pietra porosa e nascosta da colori sgargianti, i corpi torniti e resi con tanta naturalezza avevano ora forme primitive, accostabili a manifestazioni dell'arte tribale che proveniva, negli stessi anni, dalle popolazioni africane o australiane.
Un disagio non dissimile si diffuse fra gli storici dell'arte quando, nel Novecento, Ranuccio Bianchi Bandinelli dichiarò che l'arte medievale, considerata per retaggio rinascimentale degenerazione delle forme perfette iniziata con l'imbarbarimento tardoantico, era in realtà il naturale sviluppo dell'arte popolare italica a lungo convissuta con le forme terse ed eleganti importate dalla Grecia.
La seconda metà dell'Ottocento e il Novecento, insomma, hanno rivelato aspetti della classicità prima sconosciuti e destinati ad intaccare un intero sistema ideologico. Negli stessi anni, d'altronde, Nietzsche faceva nuova luce sul valore fortemente tribale del teatro greco, dominato da forme chiassose, da costumi e maschere vistosi, da paure primordiali; il drammaturgo e regista Antonin Artaud, nel suo saggio Il teatro e il suo doppio (1938) avrebbe poi dimostrato come la capacità delle musiche e delle forti passioni suscitate dalla rappresentazione teatrale tribale (il suo ideale di dramma) avessero, come per la tragedia greca, lo scopo di riportare l'uomo alla parte più naturale, istintiva e repressa di sé, a contatto con le pulsioni e con l'espressione più autentica e genuina.
 
Appare allora chiaro che nel mondo classico erano presenti non solo aspetti di identità rispetto alla cultura europea moderna, ma anche e soprattutto manifestazioni ritenute a lungo prerogative di civiltà altre, generalmente con un grado di sviluppo tecnologico minore. I Greci, base dell'Europa moderna, si rivelano, dunque, un popolo fortemente influenzato da aspetti giudicati nella percezione comune come estranei, addirittura opposti all'ideologia occidentale.
Per questo occorre rifondare il concetto di 'classico' su base inclusiva: sottrarlo alla percezione di un retaggio esclusivo di identità e reinterpretarlo come «chiave d'accesso a un ancor più vasto confronto con le culture 'altre' in senso autenticamente 'globale'» (p 119). Il mondo classico, con quanto manifesta di diverso rispetto alla nostra società moderna, deve stimolare l'incontro col diverso, diventando così un valido sistema di riferimento in un mondo globalizzato.

«Quanto più sapremo guardare al 'classico' non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno, come un potente stimolo ad intendere il 'diverso', tanto più da dirci esso avrà nel futuro».

C.M.

Commenti

  1. Ciao cara, ti ho lasciato un premio sul mio blog :)
    http://vagrancyontheworld.blogspot.it/
    Buona giornata!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, Prisch! Lo ritirerò al più presto! Buona giornata anche a te! ;)

      Elimina
  2. Post molto interessante!:-)
    sono d'accordo, lo studio delle civiltà classiche è molto importante sia perché offrono spunti di riflessione su temi ancora molto attuali, sia per capire meglio le fondamenta della nostra civiltà e quindi aprirsi alla comprensione e allo scambio con culture diverse.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Purtroppo è una prospettiva che stenta a prendere piede, perché sempre più spesso, soprattutto nell'Università e, di riflesso inevitabile nella scuola, si tende a perpetuare l'idea dello studio dei classici come qualcosa di sempre uguale a se stesso; pensiamo alla scarsissima propensione a rinnovare i testi da proporre agli studenti: sono sempre gli stessi in tutti i libri, nei programmi di ogni anni(ormai troppo datati per rispondere alle esigenze della scuola contempranea). Occorre, insomma, più dinamismo, anche nell'interazione fra discipline diverse (la storia, la filosofia, la storia del'arte, la letteratura), un dato che, infatti, viene suggerito anche da Settis nel suo libro. Se la discussione ti ha appassionata, ti invito alla lettura di Futuro del 'classico' e alla visione dei filmati (soprattutto il primo e l'ultimo), perché il mio intervento è solo uno stralcio che non può rendere giustizia ad un'opera tanto densa!

      Elimina
  3. Interessanti il tema e la tua trattazione.

    Alcune veloci considerazioni.

    Personalmente non mi piace vedere le discipline scientifiche e tecnologiche in contrapposizione a quelle umanistiche: trovo che discendano chiaramente da una matrice comune (la forma mentis tipica dell'essere umano, declinata in maniera leggermente diversa a seconda dell'ambito) e che nessuna persona di cultura possa dirsi davvero completa se non ha una conoscenza, sia pure soltanto di base, di entrambe. Del resto, al mondo classico (e per molto tempo anche a quello moderno) era sconosciuta questa (perniciosa) contrapposizione; dov'è che stava scritto "Non entri chi non è geometra"? E perché in una moderna facoltà di filosofia si dovrebbe vedere la matematica come in antitesi alla propria disciplina? ;-)

    Per me 'classico' vuol dire 'eterno', dunque passato, presente e anche futuro: la natura umana nella sua essenza più profonda non cambierà mai e molti autori antichi sono stati capaci di coglierla, cosicché i posteri non possono che riscoprire ciò che essi hanno già scoperto. Possono riscoprirlo ex novo, ignorando gli antichi, oppure riscoprirlo in modo consapevole, elaborando un pensiero che ingloba quello dei classici e accoglie in aggiunta le istanze e le peculiarità nuove di una società che nel tempo continua a cambiare.
    Secondo me è vero che si tratta di un'eredità da riconquistare, ma va riscoperta conservandola per quel che è, senza alterazioni, senza modernizzazioni indebite. A me piace il "sapore d'antico" e forse sono di parte; non nego la modernità di tanti classici e mi piace additarla, mi piace ricordare l'insegnamento spesso attualissimo, valido dopo millenni anche per noi... ma bisogna stare molto attenti a non alterare i classici, rendendoli "a nostra immagine e somiglianza" e così banalizzandoli, svuotandoli della loro identità, delle loro specificità. Che ne so, Eracle potrà avere delle affinità con Superman, ma basarsi su questo paragone molto tirato per farlo piacere ai giovani liceali storditi dai videogiochi sarebbe una operazione indegna.

    Che nel mondo greco convivessero l'apollineo e il dionisiaco è cosa nota e credo che tutte le culture si fondino su contrasti che, con la loro dialettica interna, portano ricchezza.
    Secondo me essere aperti alla differenza e al confronto anche con culture diverse è importantissimo e arricchente, ma a una condizione fondamentale: conservare rigorosamente la propria identità. Ovvero, sommare sempre, non sottrarre. Affiancare, non soppiantare. Arricchente è aggiungere l'altrui al nostro, non gettare il nostro per sostituirlo con l'altrui. La bellezza dell'incontro è che non deve sparire nulla di ciò che c'era prima: dunque la difesa di un'identità minacciata da una globalizzazione che tutto livella - difesa che non significa chiusura, ma solo memoria, conservazione, tutela! - mi pare importante.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Penso che troveresti molto interessante il libro di Settis, a questo proposito: sicuramente il tutto è espresso nelle sue pagine meglio di quanto possa fare io. L'equilibro che proponi è senza dubbio il comportamento più adatto nei confronti del passato e del futuro: prendere atto delle diversità e, insieme, dei fattori di identità presenti nella propria cultura. D'altronde, anche l'idea di non leggere i classici "a nostra immagine e somiglianza", è, come hai giustamente rilevato, uno dei punti focali delle tesi espresse nel libro e nel programma, un atteggiamento essenziale per non perdere di vista la vera essenza di tanti contenuti.
      Mi augravo proprio che passassi di qua, i tuoi contributi in materia umanistica, sebbene tu sia allo stesso tempo una studiosa di scienze matematiche (e forse proprio per questo) sono sempre circostanziati e preziosi! :)

      Elimina
  4. Grazie mille! :) Lo ritirerò al più presto scrivendo un post per l'occasione!

    RispondiElimina

Posta un commento

La tua opinione è importante: condividila!