Lelio o dell'amicizia - Cicerone

Nel 44 a.C. Marco Tullio Cicerone dedica due dialoghi filosofici ad Attico, il suo più grande amico: Catone maggiore o della vecchiaia e Lelio o dell'amicizia, motivando in quest'ultimo il motivo della sua scelta:

Come un tempo ho scritto sulla vecchiaia per un vecchio, ugualmente ho scritto con questo libro sull’amicizia ad un amico carissimo.

Entrambi devono il loro titolo al personaggio principale del dialogo, colui che si fa portavoce delle idee dell'autore e, se Catone viene scelto nel primo in quanto ritenuto il più saggio fra gli anziani ai suoi tempi (era morto nel 150), per affrontare una dissertazione sull'amicizia, il più grande legame che esista fra gli uomini, la parte principale viene affidata a Gaio Lelio, che era legato a Scipione Emiliano da una forte affinità, da una vita passata insieme, da una stima senza fine e dalla condivisione del valore più alto dato dagli dei agli uomini: la virtù.
 
Il dialogo, che si svolge fra Lelio e i due generi Quinto Mucio Scevola e Gaio Fannio, è riportato da Cicerone come un discorso da lui udito dalla bocca dello stesso Quinto Mucio, che era stato per un periodo suo maestro; ambientato nel 129 a.C., esso prende le mosse dalla recente scomparsa di Scipione, evento che dà a Lelio l'occasione di riferire a Scevola e Fannio l'idea che il conquistatore di Cartagine aveva dell'amicizia.
Nel corso del dialogo vengono date definizioni dell'amicizia, smascherate le contraddizioni di molte opinioni riguardo a questo legame e dati suggerimenti su come coltivare i rapporti con gli amici. Alla base della riflessione ciceroniana c'è un'affermazione che viene reiterata più volte: il principio fondante i rapporti umani e garante dell'armonia e, di conseguenza, della stabilità, nella sfera personale come in quella pubblica, è la virtù: coloro che la usano come un faro e una guida possono costituire quella concordia senza la quale non possono durare né la familiarità né uno Stato. L'opera filosofica di Cicerone, infatti, è nel complesso un prontuario di dettami etici che, applicati dai boni homines (un concetto ponderoso che tradurre con «uomini buoni» o «uomini onesti» è corretto, ma riduttivo) nella vita e negli affari di tutti i giorni , possono apportare grandi benefici alla comunità e alla sicurezza della Repubblica.
La compostezza con cui Lelio sostiene il recente lutto diventa il pretesto per illustrare la teoria dell'aldilà di Cicerone, che già era stata espressa nel De Repubblica (esplicitamente richiamato nel De amicitia): non è bene rattristarsi della morte di un amico che ha dimostrato la propria virtus come Scipione, perché tanto più un uomo è stato onesto in vita tanto più velocemente si sottrae alla prigione del corpo per raggiungere gli dei nei cieli. E se anche l'anima morisse col corpo, la morte non potrebbe essere né un bene né un male: è la tesi che Seneca riprenderà nelle sue Consolationes, sostenendo che colui che lascia la vita è «beato o inesistente» («aut beatus aut nullus»). Scipione, in vita, ha dato tanti buoni esempi di correttezza, che essi lo mantengono vivo nella memoria e nell'affetto di coloro che, come Lelio, lo hanno amato.
Per Cicerone, quindi, l'amicizia è il più nobile dei sentimenti:

Non può esistere l’amicizia se non fra i buoni. [...] L’amicizia non è altro che l’accordo di tutte le cose umane e divine con la benevolenza e l’affetto e non so cosa, al di fuori della sapienza, sia stato concesso di migliore dagli dei agli uomini. [...] Quelli che pongono il sommo bene nella virtù, di certo fanno bene, ma questa stessa virtù genera e racchiude l’amicizia e senza virtù non può esistere alcuna amicizia. (capp. 18-20 passim)

Se alcuni ritengono che l'amicizia nasca dal bisogno, Lelio lo nega fermamente: l'amicizia, è vero, offre diversi vantaggi, ma in un rapporto autentico e sincero (il solo che si possa davvero definire amicizia) è la virtù a predisporre l'uomo all'amicizia, mentre i vantaggi sono semplicemente la diretta conseguenza di un affetto saldo e disinteressato. Tali vantaggi, poi, si possono riassumere nella semplice condivisione:

Tale amicizia fra gli uomini ha tanti vantaggi che a stento li posso elencare. Innanzitutto quale può essere una «vita vitale», come dice Ennio, una che non è adagiata nell’affetto reciproco di un amico? Cosa c’è di più dolce che avere qualcuno con cui possa dire ogni cosa come con te stesso? Che frutto ci sarebbe nelle situazioni felici, se non avessi chi ne godesse oltre a te stesso? Sarebbe inoltre difficile sopportare la cattiva sorte senza chi la sostenesse più tenacemente di come la sostenga tu. (cap. 22)

La condivisione è ciò cui naturalmente tende la natura umana:

Chi sarebbe tanto ferreo, chi potrebbe sopportare una vita isolata, a chi la solitudine non sottrarrebbe il frutto di ogni gioia? È dunque vero quello che era solitamente diceva Archita di Taranto [...]: «Se qualcuno ascendesse al cielo e osservasse la natura del mondo e la bellezza delle stelle, gli sarebbe amaro quello spettacolo che sarebbe stato piacevolissimo se avesse avuto qualcuno cui raccontarlo». Così la natura umana non ama alcunché di solitario e sempre si appoggia a qualcosa come ad un palo, e fare questo con un carissimo amico è la cosa più dolce. (capp. 87-88)

Nasce naturalmente l'affetto tra coloro che coltivano la virtù e manifestano passioni (e idee politiche) comuni; è spontanea la volontà di battersi per un amico più di quanto non si farebbe per se stessi, così come il desiderio di essere d'aiuto all'amico prima che questi lo chieda e senza aspettarsi alcuna ricompensa. Ma, se l'amicizia è inscindibilmente legata alla virtù, non è classificabile come amicizia un rapporto in cui uno costringa l'altro a compiere qualche atto disonesto, adducendo la devozione come pretesto. Ugualmente, non c'è affetto in un rapporto in cui regni il rifiuto della verità: l'amico è una persona sincera, che deve essere in grado di rimproverare un errore senza offendere e, a sua volta, di accettare una critica priva di insulti: solo così si eviteranno l'ostilità o l'adulazione e si orienterà il rapporto d'amicizia al rispetto reciproco e «elimina il più grande ornamento dell’amicizia colui che da essa tolga il rispetto» (cap. 82).
Il lettore e il traduttore potrebbero forse trovare scontate e ripetitive certe affermazioni elementari: il dialogo, ad un'analisi puramente sequenziale, è un continuo ritorno sugli stessi argomenti, talvolta riportati con le medesime parole. Ma, per far luce su questo aspetto, che è spesso considerato dagli studenti una zavorra, bisogna considerare sia la formazione di Cicerone sia il contesto in cui vive. 
Cicerone è un oratore dedicatosi alla filosofia a partire dalla metà del I sec. a.C., dopo l'esilio e nella piena attività di Cesare e dei suoi sostenitori (sarà Antonio il mandante del suo omicidio nel 43); come oratore, è abituato a servirsi di tutti gli artifici necessari per accattivarsi l'attenzione e il favore del pubblico, fra cui la sottolineatura dei punti-cardine del discorso, ed essi influenzano anche la sua prosa.
In secondo luogo, Cicerone vive in un momento in cui lo Stato attraversa una profonda crisi politica le cui cause sono da lui rintracciate nella crisi morale. Il suo tempo non è il II secolo degli Scipioni o di Catone, in cui brillavano alti ideali capaci di far grande lo Stato, ma un'epoca di guerre civili, prevaricazioni, tumulti sociali e demagogia a non finire. Per Cicerone, sostenitore della solennità del mos maiorum, proporre costantemente l'importanza dei valori di concordia, armonia, serietà e responsabilità non è ridondante, ma necessario.

La virtù concilia e conserva le amicizie. In essa, infatti, c’è la condivisione, in essa la stabilità, in essa la costanza; quando essa leva e mostra la sua luce e vede e riconosce la stessa in un altro, si volge ad esso e a sua volta riceve quella che c’è nell’altro: da ciò scaturiscono sia l’amore che l’amicizia. [...] E poiché le cose umane sono fragili e fuggevoli, bisogna cercare sempre alcuni da amare e dai quali siamo amati. Sottratti l’affetto e la benevolenza, è sottratta alla vita tutta la gioia.

C.M.

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