Una corona che parla italiano

Mentre si tengono a Firenze, presso Palazzo Vecchio, gli Stati Generali della Lingua Italiana nel Mondo, iniziativa promossa dal Ministero degli Esteri e dall'Accademia della Crusca in collaborazione col MIUR e il MIBACT per approfondire le strategie per la diffusione della lingua italiana e fare il punto sullo stato del nostro idioma all'estero, ci troviamo proprio oggi a ricordare l'anniversario di un evento determinante per la conquista di piena dignità da parte della nostra lingua.
Il 22 ottobre 1441, infatti, si svolse a Firenze il Certame Coronario, una gara di poesia in lingua volgare sul tema dell'amicizia promossa da Leon Battista Alberti con il patrocinio della signoria dei Medici. La competizione, che si svolse nella chiesa di Santa Maria del Fiore, prendeva il nome dalla corona d'alloro in argento scelta come premio per il vincitore: essa non fu assegnata, prova che il volgare doveva ancora vincere strenue opposizioni, ma è significativo che, in un'epoca dominata dal latino e dalla ripresa della classicità, si sia affermata una manifestazione così importante di apertura alla lingua del popolo, nel tentativo di offrirle quella dignità letteraria che Dante ricercava fin dall'inizio del Trecento.

Leon Battista Alberti (1404-1472)

Il Certame Coronario fu una tappa fondamentale nella cosiddetta Questione della lingua e nell'evoluzione della storia dell'italiano. Dante stesso, scrivendo il De vulgari eloquentia, trattato incompiuto in cui, analizzate le varianti regionali della Lingua del sì, si proponeva di trovare un volgare illustre degno di essere il suo fiore all'occhiello, il suo grande pregio. Leon Battsta Alberti rilanciò, dunque, un dibattito che era per lungo tempo caduto nel dimenticatoio, accendendo uno scambio di opinioni che vide i più grandi intellettuali dell'era moderna contrapporsi nella definizione della più elegante forma di lingua italiana.
Nel 1525 Pietro Bembo avrebbe individuato nella prosa di Boccaccio e nel linguaggio poetico di Petrarca i modelli espressivi per i letterati, che da quel momento sarebbero diventati canonici (soprattutto nel caso dell'autore del Canzoniere, che orientò le scelte stilistiche e lessicali di molti suoi successori). Nello stesso anno o poco prima Niccolò Machiavelli, in opposizione a chi, come Baldassar Castiglione, riteneva che la lingua nazionale dovesse essere quella parlata nelle corti, sostenne la necessità di guardare al fiorentino contemporaneo nel Discorso sopra la nostra lingua, trattato pubblicato due secoli dopo la morte dell'autore (1730) e di cui parte della critica mette in dubbio l'attribuzione.
Il primo vocabolario della Crusca
Il XVII secolo assistette allo scontro fra l'Accademia della Crusca, che nel 1612 pubblicò il primo vocabolario, sostenendo un uso linguistico che mediava fra la lingua delle Tre Corone (Dante, Petrarca e Boccaccio) e la consuetudine toscana moderna e gli l'Anticrusca di Paolo Beni, che esaltava invece la forma espressiva consolidatasi nel Cinquecento e poteva contare sull'approvazione di personaggi come Alessandro Tassoni, contrario al primato fiorentino, e di Daniello Bartoli, ostile ad ogni forma di rigorismo grammaticale col suo Il torto e il diritto del non si può (1655).
Fu la scienza a compiere il passo che i letterati non si decidevano a fare: il Dialogo sopra i due massimi sistemi e il Saggiatore di Galileo avrebbero decretato l'assoluta importanza del volgare nel costruire una scienza che potesse davvero, attraverso una comprensione diffusa, farsi veicolo di una nuova immagine del mondo e di una conoscenza libera e democratica.
Sarebbero stati infine i Romantici a riscoprire il genio della lingua legato al genio dei popoli, stabilendo che nessuna regolamentazione o teorizzazione calata dall'alto avrebbero potuto ingabbiare l'espressione viva e mutevole (così, ad esempio, Melchiorre Cesarotti). Nonostante la continua opposizione dei classicisti e soprattutto dei puristi più accaniti, fra cui Antonio Cesari, che trattavano la lingua quasi come un'entità mistica, le congiunture storiche bastarono a riportare all'attenzione del mondo intellettuale l'importanza di una lingua che unificasse, anziché dividere, che parlasse al popolo e non solo agli eruditi: l'unità d'Italia e la preminenza di una figura come quella di Alessandro Manzoni bastarono a restituire piena dignità ad un dibattito che per troppo tempo era stato un vezzo fine a se stesso. 

Alessandro Manzoni (1785-1873)
Manzoni, infatti, non contribuì all'affermazione della lingua italiana a base fiorentina solo con la stesura Quarantana de I promessi sposi, ma anche con i suoi scritti sulla lingua, fra cui spicca la relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi per diffonderla (1868), destinata al ministro Broglio allo scopo di documentare l'importanza dell'uso vivo della lingua e la necessità di una capillare politica di diffusione linguistica fortemente connessa all'intervento sociale: prima di fare l'Italia era da fare l'italiano, la lingua comune che avrebbe costituito il collante di un nuovo popolo unito.
In qualche modo, nonostante il lungo protrarsi di questo processo e il fallimento della competizione voluta da Leon Battista Alberti, dobbiamo pensare bene a quel Certame Coronario e ricordare che, senza di esso, forse non sarebbero avvenute le trasformazioni che hanno portato all'affermazione della nostra bellissima lingua.

C.M.

Commenti

  1. La questione della lingua, mamma mia quante volte ho dovuto fronteggiarla e il bello che quando letto 'I promessi sposi' non ne ho sentito un attimo la pesantezza.
    Sono d'accordo sul fatto che Bembo abbia dato un ottimo spunto per la formazione della nostra lingua e che fosse assolutamente necessario, ciò che mi fa sorridere è come tutto questo fosse accaduto in un momento in cui l'Italia era frazionata, quale è il principio della nostra identità? perché siamo ancora così ostili gli uni agli altri quando invece dal medioevo c'è qualcosa che ci lega?? Dove siamo finiti?

    Io non sono nazionalista anzi ho sempre sostenuto il contrario pensando all'Italia come un artificiale prodotto del Risorgimento... ma oggi mi ritrovo a pensare su come il popolo senta diversamente dagli intellettuali, in questo caso.

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    1. In realtà trovo perfettamente logica quella che può sembrare una contraddizione: il popolo italiano si è sempre manifestato più unito (sia per cultura che per spirito nazionale) nei momenti di tensione e frammentazione che in quelli di serenità e pace. Si tratta di un fenomeno abbastanza comune nella storia italiana e di molte altre nazioni, per cui le divergenze e i disordini interni, le ostilità e le sommosse sono state maggiormente acute quando non esistevano collanti abbastanza forti da superarlo, come un invasore straniero o la minaccia della potenza nazionale di turno.
      La politica, d'altronde, ha perso fin dall'unificazione della penisola la straordinaria opportunità di farsi promotrice di un sentire comune, lavorando con impegno e dedizione su tutto il territorio; ignorati sono stati, in fondo, anche gli appelli di Manzoni, come di tanti altri intellettuali che, all'indomani dell'impresa Garibaldina, invitavano a riflettere su come unificare, da tutti i punti di vista, una nazione divisa per secoli.

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  2. La storia della nostra bella lingua è davvero interessante; Storia della lingua italiana è stata una delle materie universitarie che più ho amato studiare, e questo tuo post mi ha ricordato le lezioni che ho seguito un paio d'anni fa :)

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    1. Infatti alla base delle mie considerazioni c'erano proprio le rimembranze di quel corso: per scrivere il post mi sono risfogliata, con gran nostalgia, tutti gli appunti e il libretto Breve storia della lingua italiana di Claudio Marazzini (ed. Il Mulino), un testo agile e adatto anche al di fuori dello studio, per capire meglio la nostra lingua. :)

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  3. Davvero un'ottima sintesi della Questione della lingua, da consigliare a chi necessiti di un ripasso pre-esame e si voglia chiarire le idee :-). L'Alberti mi è sempre stato simpatico a pelle, forse perché lo vedo come un uomo pratico ed allo stesso tempo colto, qualità che gli permisero di proiettarsi in avanti anticipando i tempi.
    p.s. I promessi sposi li stra-consiglierei per tanti motivi: permettono di ampliare il vocabolario, sono un magistrale esempio di come bisogna caratterizzare i personaggi, sviluppano una trama in modo preciso e coerente. Magari durante la scuola risultano pesanti (dipende anche dal docente), ma riletti più avanti sono una piacevole scoperta.

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    1. Grazie per l'apprezzamento!
      Quanto ai Promessi Sposi, è vero, trattati a scuola sembrano una pena infernale, ma, come tutte le opere di pregio, poi si lasciano apprezzare. Pur non amando diversi personaggi (Renzo e Lucia mi vanno proprio indigesti) e il moralismo Manzoniano, riconosco la qualità dell'incastro e il valore della documentazione storica e spero sempre che gli studenti possano un giorno liberarsi del peso dell'obbligo di conoscere il testo e dare al buon Alessandro una seconda possibilità. :)

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