Io non mi chiamo Miriam - Majgull Axelsson

«Nessun racconto dell'Olocausto e dei campi di sterminio può dare al lettore le stesse sensazioni provate dai prigionieri fargli sentire la stessa fame, il dolore delle violenze subite, il terrore delle selezioni.». Björn Larsson è chiaro nel definire la specificità di Io non mi chiamo Miriam, romanzo della scrittrice svedese Majgul Axelsson pubblicato da Iperborea. Si tratta, infatti, di un raro esempio di narrativa della Shoah, nettamente distinto da quei racconti che, essendo stati scritti da chi ha provato le durezze dei campi di concentramento, sono, come affermava con forza Primo Levi, delle testimonianze

Majgull Axelsson non scrive di un'esperienza personale, ma costruisce una storia drammatica o, per meglio dire, tante storie drammatiche focalizzate attraverso l'esperienza di una ragazza che ne diventa la voce attraverso la documentazione. Majgull Axelsson, per diventare narratrice della storia e poter scrivere un romanzo estremamente realistico, si è fatta archeologa e filologa. Del resto la vicenda narrata, è, se non reale, purtroppo estremamente verosimile.
Nel coraggio narrativo della Axelsson sta una delle grandi virtù di Io non mi chiamo Miriam; come evidenzia Larsson, esso permette al lettore di costruire una sintonia empatica che alcune testimonianze scientifiche e tendenti all'oggettività come quella di Levi non si propongono di offrire, ma che è essenziale per accedere all'interiorità dei personaggi. Ma c'è un altro importante merito che va riconosciuto all'autrice, cioè quello di aver affrontato la narrazione della Shoah attraverso un punto di vista inedito o comunque molto marginale, scegliendo come protagonista una ragazza appartenente alle tante minoranze spesso ignorate o dimenticate quando si commemora il genocidio nazista.
È una traditrice. Purtroppo. Lo è stata allora e lo è ancora. Di qui la sua vergogna. Ha tradito i morti. Ha tradito il suo popolo e la sua lingua, suo nonno e suo padre, le sue zie e i suoi zii e i suoi cugini, quelli di cui non ricorda più i nomi e i volti. Da un lato ci sono loro. Dall’altro però restano quelli che non ha mai tradito. Anuscha. E Didi.
Miriam, infatti, non è un'ebrea come ha sempre fatto credere a tutti, dentro e fuori dal campo. Lo dichiara sommessamente il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, mentre la sua famiglia svedese le si stringe attorno per gli auguri, regalandole un bracciale di artigianato gitano. Miriam, arrivata in Svezia dopo la liberazione e accolta nella famiglia di Hanna e Olof Adolfsson, non ha mai rivelato che, in realtà, non è stata imprigionata nei lager in quanto ebrea ma in quanto Rom e il dono scelto dalla nipote Camilla la obbliga a confrontarsi di nuovo con un passato che ha tentato di soffocare, un passato troppo doloroso da ricordare e gravido di sensi di colpa. Un passato che ella sente di aver tradito. Miriam è in realtà un'adolescente ebrea morta nel viaggio in treno da Auschwitz a Ravensbrück, alla quale Malika (questo il vero nome della protagonista) ha preso i vestiti dopo essere rimasta con solo un misero straccio addosso. Malika ha fatto questa prima scelta per bisogno di sopravvivere e si accorge immediatamente che, con l'identità di una coetanea ebrea, ha molte più possibilità di resistere nel campo di concentramento, non perché le SS riservino agli Ebrei un trattamento migliore, ma perché, fra i prigionieri, i Rom sono coloro che ricevono le più dure vessazioni dagli altri internati. Malika, infatti, si rende conto che nessuno presterebbe soccorso ad una zingara, nessuno le offrirebbe una briciola del suo pane imbottito di segatura, nessuno le rivolgerebbe una parola gentile, nemmeno la materna Else, prigioniera norvegese di Ravensbrück, che, credendola ebrea, assistendo ad una rissa fra donne rom, commenta «Zingari. Si sa come sono fatti, quelli.».
Else l’aveva salvata. Le aveva dato da mangiare. Le aveva procurato un buon lavoro. L’aveva fatta parlare. Inoltre aveva usato quella parola che Miriam non aveva mai osato pronunciare ma che si teneva dentro, in silenzio. Libera. Libertà. Però Else era anche quella che aveva detto quella frase sugli zingari. E le aveva fatto paura. Molta più paura del solito. Sentiva che la terra le si poteva spalancare sotto i piedi da un momento all’altro, che rischiava di inciampare e cadere o essere ingoiata da un buco nero e muto. Che nessuno, non un solo essere umano al mondo, avrebbe voluto aiutarla, salvarla, darle il minimo soccorso. Perché questo era quello che era: una rom. Una zingara.

Malika, dunque, si scopre indesiderata fra gli indesiderati e Miriam diventa la sua ancora di salvezza, ma anche l'occasione per ricominciare una vita dopo i campi, perché anche nella modernissima Svezia, anche laddove i profughi ebrei vengono accolti, istruiti e invitati a mangiare torte prelibate, per gli zingari non c'è posto: i Rom, definiti spregiativamente Tattare, sono vittime di violenze e agguati non diversi da quelli subiti da parte delle SS. Malika è ormai avvinghiata alla sua maschera, che le ha permesso di sopravvivere ai tormenti indescrivibili del campo di concentramento e che si rivela il suo unico documento di via per ricominciare, per avere quel futuro che le labbra di Else evocavano continuamente come un sogno lontano per il quale resistere.
Lentamente, il mondo si acquietò.
Il chiacchiericcio si placò quasi subito dopo che le ragazze si furono infilate sotto le coperte, anche se solo poche sembravano essersi già addormentate. Le altre avevano l’aria di essere sveglie, con lo sguardo perso nella penombra. Forse stavano cercando di abituarsi all’idea della pace e di quello che le aspettava. Come si potevano ritrovare i propri figli in un’Europa devastata dalle bombe? Come si potevano rintracciare i propri genitori? Come si poteva sapere quali fratelli e sorelle e amici fossero sopravvissuti? Fred. Pace, pensò Miriam. Fremtid. Futuro. Due parole. Non aveva altro. Niente marito e niente figli, niente genitori e niente fratelli. Nemmeno un’amica. Ma cosa significavano in realtà quelle parole? In concreto? Cosa comportava vivere in pace? E avere un futuro?
L'anziana signora che incontriamo fra le prime pagine del romanzo racconta di Malika solamente a Camilla, una giovane madre in continuo attrito con i genitori. Una ragazza che vuole capire perché la donna abbia detto di non chiamarsi Miriam e che capisce subito che non si è trattato di un segno di demenza senile. Ma nemmeno Camilla è pronta ad ascoltare il racconto terribile delle sofferenze patite dalla nonna, ad affrontare la crisi che la coglie nei momenti in cui ricorda i suoi affetti più cari, la cugina Anuscha e il piccolo Didi, il fratellino abbattuto dagli esperimenti di Mengele. Eppure Camilla rappresenta le nuove generazioni che si sono rivelate più pronte ad accogliere le testimonianze dei sopravvissuti che nessuno voleva sentire nell'immediato dopoguerra. Miriam e il suo mancato ritorno a Malika, che lei avverte come un tradimento ma che è allo stesso tempo l'unica forma di futuro accessibile, sono il risultato di un incontro fra masse di reduci rimasti senza identità, senza nome, senza famiglia e senza memoria e coloro che non si sono opposti al pregiudizio, alla violenza, al genocidio e non accettano di trovarsi di fronte le conseguenze della loro debolezza o della loro ignoranza e che, quindi, invitano a dimenticare il passato, a guardare avanti. Una forma di difesa o di ignavia che sarebbe crollata solo dopo il processo ad Eichmann a Gerusalemme, il vero momento in cui il mondo ha avuto la consapevolezza che le brutalità del nazismo non potevano più essere ignorate.
«Guarda, lo so che tu e la tua generazione ritenete molto utile che si parli di tutto, ma per noi non era così. Abbiamo imparato a dimenticare. Lo dicevano tutti, allora: dimentica e guarda avanti! Non stare a rimuginare sul passato […] E poi non c’era nessuno che fosse così interessato ad ascoltare quello che avevamo da raccontare. La gente non voleva sentire e basta.»
Una vecchia con dei bambini ad Auschwitz
Io non mi chiamo Miriam, però, ha una doppia forza, come si diceva. Non è solo un racconto scritto, come dice l'autrice, affinché non si cessi di scrivere della Shoah dopo la scomparsa degli ultimi testimoni. Io non mi chiamo Miriam è anche un appello alla nostra coscienza, un monito a non distinguere fra le persone che soffrono e muoiono insieme a non sentirci in diritto di discriminare, perché ogni dito puntato può trasformarsi in un mitra. Il romanzo di Majgull Axelsson è quanto mai attuale in un periodo in cui si tiene a commemorare i grandi drammi vissuti dall'umanità dal Novecento in avanti ma nel quale, al contempo, si dimentica sempre qualcuno. Troppo spesso il ricordo della Shoah si limita alla persecuzione degli Ebrei e tralascia tutte le altre vittime: omosessuali, oppositori politici, immigrati, disabili, zingari. Non si può leggere della Notte degli zingari, in cui l'intera comunità presente ad Auschwitz fu annientata, o degli agguati contro i Tattare nella città svedese di Nässjö senza pensare a tutte le minoranze che, solo per il fatto di essere tali, di rappresentare il diverso, ancora oggi vengono minacciate allo stesso modo.
Io non mi chiamo Miriam, dunque, non è solo un romanzo sull'Olocausto, come scrive Larsson nella sua postfazione. È anche un romanzo sulla paura, sul bisogno di sopravvivere, sull'intolleranza, sull'importanza dell'identità e sul rapporto di ciascun individuo con il sé passato, presente e futuro. Per me, inoltre, è stato una rivelazione, un libro carico di sofferenza ma anche di poesia, scritto dalla Axelsson e tradotto da Laura Cangemi con grande raffinatezza e delicatezza, come se l'ordine, la pulizia e la bellezza della prosa avessero il compito rendere più sopportabile la durezza del contenuto.
Ma quel giorno Miriam non aveva intenzione di sorridere. Lo sapeva senza bisogno di parole. Quella vigilia di mezza estate sarebbe solo stata se stessa. Era il giorno in cui si sarebbe finalmente concessa di ammettere quanto era faticoso essere tutto il tempo un’estranea, un’esclusa, una che in realtà non c’entrava. Ed era anche il giorno in cui avrebbe passato in rassegna i ricordi. Almeno una parte. Quelli che erano quasi sopportabili.
C.M.

Commenti

  1. Mi perdonerai se non ho letto per intero la tua recensione: tornerò a soffermarmici meglio una volta letto il romanzo, che desideravo moltissimo e per fortuna mi è stato regalato per Natale. Le righe che ho letto, comunque, mi invogliano ulteriormente ad affrontare questa lettura.
    Colgo l'occasione per complimentarmi per il nuovo aspetto estetico del blog. Appena aperta la pagina son rimasta piacevolmente sorpresa. E' essenziale, elegante e al contempo pieno di personalità. Mi piace moltissimo :)

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    1. Naturalmente sono curiosa di conoscere le tue impressioni, ma non ho dubbi sul fatto che resterai profondamente colpita da questo libro. Buona lettura!

      Quanto alla grafica, sono contenta che ti piaccia, cercavo proprio questa impressione di essenzialità e volevo che l'intestazione fosse più personale rispetto a quella precedente (comunque a me molto cara). Grazie! :)

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  2. Bellissima recensione :-) Un libro che ho in lista da tantissimo tempo, mi piace molto leggere di testimonianze, vere o ricostruite, che riguardano le persecuzioni e la Guerra in generale. Non conoscevo questa scrittrice prima di questo titolo e dopo aver letto la tua recensione sono ancora più convinta di volerlo leggere. Spero di farlo al più presto :-)

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    1. Voglio incoraggiarti a farlo schizzare in cima alla lista: è sicuramente la migliore lettura che abbia affrontato negli ultimi mesi! Buona lettura e grazie! :)

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  3. Desidero da moltissimo questo libro è necessario non vedo l'ora di inserirlo nella mia spesa libresca natalizia (un po' in ritardo). Ne ho sentito parlare benissimo ovunque e la tua recensione mi ha convinta ancora di più a leggerlo :)

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    1. Sono contenta, spero ti piaccia quanto è piaciuto a me: buona lettura! :)

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  4. Di questo libro già ne avevo apprezzato la recensione di Claudia e le tue belle parole confermano ancora di più la grande umanità che c'è. Sicuramente è il libro più bello di tutto il catalogo, e vorrei iniziare, appunto, da questo.

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    1. Sicuramente sarebbe un ottimo modo di avvicinarsi al catalogo Iperborea, ricco di titoli interessanti. Finora ammetto che Io non mi chiamo Miriam mi è sembrato il migliore.

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  5. Questo libro mi ispira dalla pubblicazione e questa recensione mi invoglia ancora di più a leggerlo. Dopo La vera storia del pirata Long John Silver credo che sarebbe un ottimo modo per proseguire la mia conoscenza di questa CE.

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    1. Ormai quando vado in libreria la mia attenzione è calamitata da Iperborea: oltre alla promessa di belle letture, c'è anche la raffinatezza delle edizioni, che, sullo scaffale del negozio o di casa sono proprio una meraviglia!

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