«Di retro a loro era la selva piena di nere cagne»: scene di caccia infernale

Fra le novelle più celebri del Decameron di Giovanni Boccaccio c'è quella di Nastagio degli Onesti (giornata V, novella 8), nella quale assume un'importanza notevole un elemento fantastico di ascendenza dantesca: la caccia infernale. Si tratta di un topos tipicamente medievale, che vanta, oltre all'Inferno dantesco, altre sedi di sviluppo e che, in qualche modo, raccoglie un'eredità antica.

Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti, episodio I (1483)

Nastagio degli Onesti è un giovane consumato dall'amore per la bella figlia di Paolo Traversari che, per trovare un po'di sollievo, decide, su consiglio di alcuni amici, di lasciare la città di Ravenna e di ritirarsi a Chiassi. Un venerdì di maggio, passeggiando per il bosco, Nastagio assiste ad una scena a dir poco sconcertante: una giovane donna completamente nuda corre fra gli alberi, inseguita da una muta di cani e da un cavaliere armato di spada. Nastagio cerca di soccorrerla, ma il cavaliere, di nome Guido degli Anastagi, glielo impedisce: lui e la donna stanno scontando un terribile contrappasso infernale, dal momento che Guido si è dato la morte con quella stessa spada perché incapace di sopportare la durezza della sua vittima e quest'ultima ha manifestato tale crudeltà fino alla morte. La condanna delle due anime è destinata a ripetersi eternamente ogni venerdì e a concludersi con Nastagio che apre la schiena della donna per estrarne il cuore e gettarlo in pasto ai cani, prima che ella si ricomponga e riprenda la sua fuga. Inizialmente sconvolto, Nastagio si avvede però che questo originale dramma potrebbe volgere a suo favore e decide di allestire nel bosco un sontuoso banchetto con i Traversari come ospiti e di mettere di fronte alla gelida amata un monito contro la crudeltà nei confronti dell'amante. Il piano di Nastagio va a buon fine: la giovane Traversari è talmente sconvolta dalla visione delle pene cui potrebbe andare incontro che il suo disprezzo per Nastagio si volge in amore, sicché il racconto si conclude con lo sposalizio dei due.

Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti, episodio II (1483)

Nel secolo successivo, la novella ispira una nota serie di tavole realizzate nel 1483 da Sandro Botticelli (con la collaborazione di Bartolomeo di Giovanni e Jacopo del Sellaio) su richiesta di Antonio Pucci per il matrimonio del figlio Giannozzo con Lucrezia Bini e oggi conservate al Museo del Prado. Botticelli realizza quattro tavole che misurano 82 x 142 cm, illustrando le quattro sequenze principali del racconto: l'apparizione di Guido degli Anastagi e della sua vittima, l'estrazione del cuore della donna, l'esibizione della caccia infernale al banchetto e il pranzo nuziale.
Il motivo della caccia è protagonista dei primi tre episodi, al punto che nelle rispettive tavole sono proprio la donna e il cavaliere (a cavallo nel primo e nel terzo pannello, chino su di lei nel secondo). Il primo episodio rappresenta l'arrivo nel bosco di Nastagio (con a fianco l'amico che lo sprona a cercare questo ritiro) e il tentativo del giovane di soccorrere la donna, impugnando un bastone contro i cani che le azzannano i fianchi. Si tratta di una scena carica di pathos, che raggiunge il suo culmine nel grido della donna, il cui volto straziato occupa il centro del dipinto. La scena riproduce fedelmente il racconto di Boccaccio, fatta eccezione per il cavallo di Guido, che non è nero come nella novella, e per lo stesso cavaliere, secondo Botticelli biondo e non bruno.
Davanti guardandosi vide venire per un boschetto assai folto d'albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e dà pruni, piagnendo e gridando forte mercè; e oltre a questo le vide a'fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsiere nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa ad una ora maraviglia e spavento gli mise nell'animo, e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma, senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d'albero in luogo di bastone, e cominciò a farsi incontro a'cani e contro al cavaliere.
Sandro Botticelli, Nastagio degli Onesti, episodio III

Anche la seconda scena è ricalcata sul racconto del Decameron. In essa sono in realtà concentrati due momenti successivi, che lo stesso Boccaccio condensa in pochissime righe: in primo piano si vede Guido che apre la schiena della sua vittima e, sul lato destro, i due cani che dilaniano il suo cuore, mentre sullo sfondo, in tutte e tre le tavole chiuso da un ambiente idilliaco occupato da uno specchio d'acqua circondato dalle montagne e solcato da alcune imbarcazioni, si scorge la ripresa della caccia, che suggerisce l'andamento circolare del contrappasso. Di lato si trova Nastagio, preda dell'orrore, ma già in procinto di fare di quella paura un gioco d'ingegno.
Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi addietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il cavaliere. Il quale, finito il suo ragionare, a guisa d'un cane rabbioso, con lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e da' due mastini tenuta forte gli gridava mercè; e a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla dall'altra parte. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, così cadde boccone, sempre piagnendo e gridando; e il cavaliere, messo mano ad un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa d'attorno, a' due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il terzo episodio rappresenta il banchetto della persuasione, bruscamente interrotto dall'irrompere dei due dannati che fa dilagare il terrore fra i commensali, in particolare fra la giovane Traversari e le altre donne, tutte convinte dall'esibizione spaventosa a mutare il loro cuore a più miti pensieri verso i loro amanti. Del resto, come dimostra la posa di Nastagio, sono loro le vere destinatarie del truculento messaggio.

Davide Ghirlandaio, Nastagio degli Onesti (1483-1525)

Oltre a Botticelli, anche Davide Ghirlandaio, fratello del più noto Domenico, realizza un dipinto che rappresenta la novella di Boccaccio, oggi esposto al Brooklyn Museum. Ancora una volta il risultato è una tavola dipinta a tempera, di certo posteriore a quelle di Botticelli e chiaramente influenzata da esse: ritorna la contrapposizione fra i due piani, ritornano alcuni elementi sullo sfondo (come le tende rosse, il fiume e le montagne e l'adozione della prospettiva aerea) e le pose dei personaggi, ma qui vengono fusi gli episodi primo e secondo di Botticelli e Guido degli Anastagi, che stavolta indossa un'armatura scura, ha i capelli bruni.

Giovanni Stradano, La selva dei suicidi (1587)
Quella di Boccaccio e Botticelli è senza dubbio la caccia infernale più celebre, ma non è di certo la prima. Altrettanto importante ma fagocitata dal più fulgente episodio di Pier delle Vigne, è la caccia di cui sono vittime gli scialacquatori nell'Inferno di Dante. Nel canto XIII, dove troneggia la figura di Pier delle Vigne, suicida la cui anima è intrappolata in un albero rinsecchito straziato dalle Arpie, sui rami del quale, dopo il Giudizio universale, sarà appeso, come un abito smesso, il corpo di cui si è disfatto volontariamente in vita, compaiono altri due personaggi: Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea, che fuggono fra le sterpaglie della selva da una muta di cagne nere che proprio in mezzo agli arbusti fanno terminare la loro corsa, lasciandone i brani fra i rovi. La caccia, il cui racconto occupa i versi 115-129, oltre ad essere una punizione per coloro che hanno dilapidato le proprie sostanze, è anche un ulteriore motivo di strazio per i suicidi, devastati dalla fuga precipitosa.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Priamo della Quercia, La selva dei suidici (1441-1452)

La caccia dantesca è artisticamente fortunata quanto quella di Boccaccio. C'è innanzitutto l'immagine miniata di Priamo della Quercia (XV secolo) che, come nella seconda tavola botticelliana, concentra in una sola immagine i due momenti principali del canto XIII, ponendo l'episodio di Pier delle Vigne sulla sinistra, con Dante che, su indicazione di Virgilio, si china a strappare un ramoscello dell'arbusto, facendone stillare sangue, e affidando alla parte maggioritaria della tavola la descrizione dell'incontro con Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea, ritratti nudi, ma inseguiti non da cagne nere, bensì da due demoni infernali che alzano su di loro delle fruste; nella parte superiore del dipinto, le Arpie costruiscono come una cornice che conferisce continuità all'insieme.
Gli scialacquatori sono invece posti a contorno dell'illustrazione di Giovanni Stradano, che assegna il ruolo centrale all'incontro col suicida. Mentre uno dei due dannati scappa verso il fondo dell'immagine inseguito da tre cani, l'altro è smembrato in più punti: un cane ne divora la testa proprio al di sopra della schiena piegata di Dante, mentre gli arti sono posti fra le zanne di altri due animali nella parte sinistra, come se stessero per uscire dal bordo inferiore.

Gustave Doré, Gli scialacquatori (1861)

E poi, naturalmente, c'è Gustave Doré, che in una delle incisioni realizzate per illustrare il canto XIII ritrae i due dannati che quasi si confondono fra gli alberi antropomorfi, rimanendo impigliati nei loro rami mentre, sullo sfondo, una muta di cani infernali con gli occhi fiammeggianti si getta all'inseguimento e una delle belve è già piombata nel cuore della selva. Fra i tre esempi, la versione di Doré è quella più concitata e terrificante, sebbene Stradano proponga un'immagine più cruda: come il grido della donna nella prima tavola di Botticelli sovrasta in pathos le altre due, anche qui sono le espressioni dei dannati a conferire forza emotiva all'incisione, non attraverso il dolore dei volti, ma con i corpi che si contorcono alla ricerca di un'inaccessibile salvezza.
Accanto all'importante modello dantesco, però, Boccaccio dispone di altri due testi che affrontano il topos della caccia infernale. Il primo è lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais (XII-XIII secolo), che racconta del mito nordico della caccia selvaggia, diffuso in Scandinavia, in Britannia e nelle zone alpine. Di questi assalti, particolarmente cari all'arte romantica e, più in generale, ottocentesca, aperta alle rivisitazioni dell'immaginario medievale, è protagonista generalmente Odino, che guida torme di guerrieri e creature evocate dall'aldilà in rumorose scorrerie nel cuore dell'inverno. In alcune versioni di questo mito altri sono i capi di queste spedizioni, che non di rado accolgono esseri infernali, e non mancano casi in cui l'incursione ha come obiettivo la cattura di una creatura femminile.

Peter Nicolai Arbo, Åsgårdsreien (1872)

Il secondo è un racconto ispirato proprio allo Speculum historiale, opera di un domenicano fiorentino contemporaneo di Boccaccio, Iacopo Passavanti, che inserisce un episodio simile a quello descritto nel Decameron nello Specchio di vera penitenza, una raccolta di quarantotto exempla morali tratti dalle sue prediche, in una novella dal titolo Il carbonaio di Niversa. Essa, a differenza del racconto di Nastagio, si svolge in Francia e rappresenta una caccia che avviene intorno alla mezzanotte nei pressi della fossa dei carboni di un uomo molto povero. Agli occhi di questo sventurato spettatore appare una donna nuda e scarmigliata (come la vittima di Guido degli Anastagi), inseguita da un cavaliere su un cavallo nero; cavallo e cavaliere emanano fiamme dagli occhi, dalla bocca e dal naso e la donna, non appena giunge nei pressi della fossa, viene pugnalata al petto e gettata fra i carboni ardenti, per poi esserne tirata fuori dal suo stesso carnefice, pronto a riprendere la caccia ogni notte. Dopo tre repliche dell'ignobile spettacolo, il carbonaio manda a chiamare il Conte di Niversa, al quale il cavaliere demoniaco rivela il proprio mistero: egli è Giuffredi, cavaliere della contea e amante della donna che lo fugge, Beatrice; i due hanno peccato di un amore adultero e hanno ucciso il marito di lei, ma, essendosi pentiti in punto di morte, hanno ottenuto un contrappasso temporaneo nel purgatorio, trovandosi a ripetere ogni notte quella caccia selvaggia. Prima di congedarsi, Giuffredi chiede l'intercessione dei vivi, affinché le loro preghiere possano accorciare quel tormento. A differenza di Guido e della sua anonima amata, Giuffredi e Beatrice sono dunque anime del purgatorio punite non per eccesso di passione e crudeltà rispettivamente, ma per lussuria, tradimento e assassinio; inoltre la visione di Passavanti insiste molto sui particolari crudi e manifesta una forte ossessione per il male e il peccato, dal momento che il suo scopo è quello di fornire moniti morali.

Franz Von Stuck, Caccia selvaggia (1889)
Uscì fuori per vedere che fusse, e vide venire in verso la fossa correndo e stridendo una femmina iscapigliata e ignuda, e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero, correndo, con uno coltello ignudo in mano: e dalla bocca e dagli occhi, e dal naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva di gittarsi, ma, correndo intorno alla fossa, fu sopraggiunta dal cavaliere che dietro le correa: la quale, traendo guai, presa per li svolazzanti capelli,crudelmente la ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E cadendo in terra con molto spargimento di sangue, sì la riprese per l'insanguinati capelli e gittolla nella fossa de' carboni ardenti: dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la ritolse, e ponèndolasi davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò per la via onde era venuto.
Cratere di Dolone, con Morte di Atteone (IV sec. a.C.)
Come si è detto, tuttavia, il motivo della caccia non è solo medievale. Del resto la scelta di questa particolare attività rispecchia le abitudini dei nobili di ogni epoca e luogo e di cacce famose è piena la letteratura, basti pensare alla battuta al cinghiale in cui Odisseo si procura, ancora ragazzo, la cicatrice che lo renderà riconoscibile alla fedele Euriclea. Ma la caccia è anche l'arte della dea Artemide-Diana, protagonista di un mito che si conclude proprio con l'uccisione di un uomo, Atteone; costui, reo di aver ammirato le nudità della dea durante un bagno o, secondo altre versioni, di essersi vantato di esserle superiore nella caccia, viene trasformato in cervo da Artemide e, inseguito dai suoi cinquanta cani, viene da essi dilaniato. Un'ulteriore variante narra che Atteone, avvicinatosi alla dea camuffato con una pelle di cervo, l'animale prediletto da Artemide, per violentarla, sia assalito dai cani aizzati dalla divinità; questa versione sembra confermata dalla ceramografia, che rappresenta Atteone in sembianze umane, mentre tenta di difendersi dall'assalto dei cani, e ha forse ispirato Tiziano, che nel XVI secolo rappresenta Atteone con un corpo di uomo, ma con una testa di cervo, come se indossasse un copricapo, mentre Artemide sembra scatenare gli animali con una freccia incantata.

Tiziano, La morte di Atteone (1562)

Dalla rassegna di cacce selvagge o infernali qui proposte appare chiara la presenza di un archetipo che trasforma un passatempo nobiliare in un motivo di terrore: un peccato estremamente grave o un enorme affronto ad una divinità possono scatenare una punizione nella quale l'uomo diventa un essere spaventato e braccato da dominatore e cacciatore che è nella vita normale. La caccia è il terreno in cui l'uomo prevale con la forza sull'animale, che diviene interamente suo succube, ma l'uomo teme di subire a sua volta l'azione di un braccio e di una lama più veloci e letali della sua, che non possono che piombare dall'alto, per volontà di un essere superiore.

C.M.

Commenti

  1. Ciao! :) Da letterata disperata ho ritrovato questo topos al primo anno, quando durante il corso di Letteratura italiana l'ho incontrato contemporaneamente in Dante e Boccaccio. Mi ha sempre fatto un certo effetto. Mi spiego meglio: non so se hai presente "Lezioni americane" di Calvino, ma all'inizio dice che ci sono alcuni episodi della letteratura che magari di per sè non hanno una grande rilevanza, però riescono a impressionarci particolarmente e ad accompagnarci per molto tempo. Lui propone come esempio Guido Cavalcanti che salta le arche, ma su di me lo stesso effetto ha questo topos. Spero di essere riuscita a spiegarmi! :)

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    1. Ah, sì che ti capisco, del resto le Lezioni americane di Calvino sono uno dei miei testi preferiti e l'esperienza che descrivi si è ripetuta più volte anche per me (e ancora si ripete) nel corso dei miei studi! :)

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  2. Ciao Cristina, molto bello questo post! Mi piace molto come hai reso giustizia alla profondità temporale di un mito così importante. Ho re-incontrato la caccia infernale/selvatica/selvaggia/morta in tempi relativamente recenti, ma non ricordavo di aver letto a scuola questa novella di Boccaccio e nemmeno della rappresentazione di Botticelli.

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    1. Ciao, Marco! Grazie, devo dire che il fascino per questo tema si è riacceso proprio grazie alla scuola (nelle settimane scorse abbiamo letto proprio Nastagio degli Onesti, confrontandolo con le tavole di Botticelli, e il canto XIII dell'Inferno), così ho colto l'occasione per approfondire, scoprendo tante informazioni che non possedevo e che hanno mutato anche il mio modo di guardare a questa particolare scelta narrativa. Dove hai incontrato di recente la caccia infernale? Se hai dei riferimenti che non ho citato, sono curiosa di conoscerli!

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    2. Ciao Cristina, te li segnalo con piacere:
      - "La corsa selvatica", romanzo di Riccardo Coltri, fanta-horror storico ambientato negli anni dell'Unità d'Italia, che ha in coda l'interessante trascrizione di una testimonianza orale del '900 (della bergamasca, mi sembra)... però l'editore ha chiuso :(
      - "La caccia morta", canzone dei Furor Gallico, gruppo folk metal bergamasco, ed è così che penso si chiami in alcune delle valli orobiche.
      Questi due esempi sono interessanti perché appartenenti grossomodo alla stessa area geografica e penso siano più vicini alla tradizione germanica. In alcuni casi alla guida della caccia viene citato addirittura il re degli Ostrogoti, mi pare, e altrove, se non mi sbaglio, una non meglio precisata signora delle tenebre. Forse all'origine era una divinità pagana, poi "convertita" o dimenticata in epoche successive. Non ho mai approfondito molto la questione.
      Ci sono poi altri autori fantasy in cui la caccia fa capolino. Mi limito a ricordare che ne "La spada spezzata" di Poul Anderson è lo stesso Odino a guidarla, mentre nell'urban fantasy "Godbreaker" di Luca Tarenzi la caccia... è in motocicletta! E può non sembrare, ma ha un suo senso. ^^

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    3. Non mi ricordavo di Anderson, forse perché non ero del tutto consapevole dell'ascendenza nordica del mito della caccia e, quindi, non potevo associare! Grazie delle informazioni! :)

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