Lettere - Epicuro

Spesso marginalizzato attraverso luoghi comuni che lui stesso si impegnò a decostruire e con l'inclusione del suo pensiero sotto la generica etichetta di 'filosofia ellenistica', Epicuro è conosciuto soprattutto grazie alla divulgazione di cui si fece carico il poeta latino Lucrezio con il poema didascalico De rerum natura (I sec. a.C.), dal momento che quasi tutte le sue opere sono andate perdute o rimangono solo per frammenti e citazioni indirette. Sono giunti tuttavia fino a noi i testi integrali di tre lettere che bastano a riassumere, come era nelle intenzioni del filosofo, le linee generale del pensiero epicureo: le lettere a Erodoto, Pitocle e Meneceo, rispettivamente incentrate su questioni di fisica, su fenomeni astronomici e sulla definizione della felicità e dei metodi attraverso i quali procurarsela, costituiscono una lettura veloce eppure completa perfetta per avvicinarsi ad un pensatore che ha fatto sentire la propria voce nei secoli successivi grazie alla straordinaria modernità del suo ragionamento.

Nativo di Samo, Epicuro (IV-III sec. a.C.) studiò sia la filosofia platonica che quella di Democrito, che si sarebbe rivelata fondamentale per la definizione di quella dottrina fortemente materialista tanto invisa alla cultura medievale. Aprì una sua scuola dapprima a Mitilene, poi ad Atene, scegliendo come sede un giardino in cui riuniva i propri discepoli, stabilendo all'interno del gruppo un legame basato sulla solidarietà. Epicuro scrisse un gran numero di opere e la summa del suo pensiero fu il trattato Sulla Natura, del quale sono emersi alcuni frammenti grazie agli scavi della Villa dei papiri a Ercolano, sede della scuola epicurea di Filodemo di Gadara. La riscoperta del pensiero di Epicuro e la consacrazione alla fortuna di epoca moderna si deve agli umanisti del XV secolo, fra i quali va ricordato Poggio Bracciolini, autore della scoperta del poema lucreziano.
I mondi sono infiniti, sia quelli uguali al nostro, sia quelli diversi da esso. Gli atomi, che, come si è dimostrato in precedenza, sono infiniti, percorrono infatti anche gli spazi più remoti; perché gli atomi da cui un mondo può avere origine o essere formato non si esauriscono nella costituzione di un solo mondo, e neppure di un numero infinito di mondi, siano somiglianti al nostro oppure diversi. Ne consegue che nulla si oppone all’esistenza di un numero infinito di mondi.
Fin dalla lettera a Erodoto appare chiara la base materialistica di questa filosofia: riprendendo la teoria di Democrito sugli atomi e sul loro moto (clinamen), Epicuro attribuisce al loro infinito modo di combinarsi la molteplicità del reale, deducendo che da infiniti incontri e legami possono aver ragionevolmente origine infiniti mondi. L'intero mondo sensibile è composto di atomi, unità indivisibili con forme e caratteristiche strutturali diverse, atte a innumerevoli costruzioni in virtù di tale varietà. Essi sono anche in grado di mobilitare la percezione, staccandosi dall'oggetto che costituiscono per colpire gli organi sensoriali e permettere quindi la conoscenza, che risulta, pertanto, subordinata alla presenza continua di un flusso di informazioni e immagini veicolate dagli atomi stessi, che prendono in questo caso il nome di simulacri (εἴδωλα). Anche l'anima è materiale, in quanto risultante dall'aggregazione di atomi: essa è in simbiosi col corpo e muore con esso, dissolvendosi dopo la morte affinché i suoi atomi possano costituire nuova materia, giacché nulla si distrugge (ne deriverebbe altrimenti l'annullamento del tutto).
L’anima è un corpo sottile, diffuso per tutto l’organismo, molto simile al respiro e dotata di una certa miscela di calore e somigliante sotto qualche aspetto all’uno e sotto qualche aspetto all’altro. C’è poi una parte che è per sottigliezza assai differente da entrambi gli elementi e per questo motivo può partecipare con particolare sintonia a ciò che il resto dell’organismo sente. Di tutto ciò sono prova le facoltà dell’anima, i sentimenti, i moti, i pensieri e tutto ciò la cui privazione determina per noi la morte. […] Finché rimane nel corpo, l’anima non perde affatto la capacità di sentire, anche se si distacca qualche altra parte dell’organismo: e qualunque parte dell’anima perisca con il corpo perché ciò che la contiene si distrugge tutto o in parte, finché essa permane, conserva la facoltà di sentire. Il resto dell’organismo, invece, sussista tutto o in parte, non possiede più la sensazione, una volta perduto quel certo numero di atomi che serve a costituire la natura dell’anima. Inoltre, se tutto il resto dell’organismo si dissolve, l’anima si disperde e non conserva più le proprie facoltà né i moti, cosicché perde anche la capacità di sentire. […] Vaneggia chi asserisce che l’anima sia incorporea: perché l’anima non potrebbe agire né subire, se fosse tale, mentre noi cogliamo chiaramente che l’anima possiede entrambe queste facoltà.
La lettera a Pitocle, invece, pur mantenendosi su questioni scientifiche e astronomiche nello specifico, è in realtà una dissertazione sull'importanza di un approccio di studio basato sull'esperienza e sulla considerazione di diverse ipotesi in merito ad uno stesso fenomeno in assenza di un assunto pienamente soddisfacente e comprovato dall'evidenza sperimentale. Questa seconda lettera, dunque, si risolve nell'applicazione della dialettica alla scienza, in una continua esortazione a rifiutare qualsiasi preconcetto o dogma in favore di un esercizio sull'ammissibilità di considerazioni e spiegazioni diverse sull'origine e il moto degli astri, sulle fasi lunari, sull'alternanza del giorno e della notte, sui movimenti delle correnti d'aria e su altre questioni legate al cielo. Leggendo l'invito rivolto a Pitocle, sembra che Epicuro anticipi quella lotta contro l'ipse dixit e per l'affermazione del metodo sperimentale che Galileo Galilei affronterà nel XVII secolo, in particolare con il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
È compito della scienza della natura indagare le cause degli eventi più importanti e che la felicità, rispetto alla conoscenza dei fenomeni celesti, risiede proprio in questo e nel conoscere quali siano le nature che si scorgono nel cielo e quanto è affine a tutto ciò, per conseguire una piena conoscenza in merito. [...]
Non bisogna ragionare sulla natura per enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazioni di principi teorici, ma in base a ciò che l’esperienza sensibile richiede.
La terza lettera è senza dubbio la più celebre, al punto che il nome del destinatario, Meneceo, evoca immediatamente il fulcro della dottrina etica epicurea, incentrata sul tetrafarmaco, cioè sulle quattro indicazioni fondamentali che fanno della vita dell'uomo un'esperienza di gioia, serenità e saggezza: l'uomo virtuoso e felice è colui che sa riconoscere l'autentico piacere e non annega in desideri impossibili da soddisfare, che non teme gli dei né la morte e che si rende conto della possibilità di sopportare il dolore. 
Abituati a pensare che la morte non è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo: ma la morte è perdita di sensazione. Per cui, la retta conoscenza che la morte per noi è nulla rende piacevole che la vita sia mortale, non perché la prolunga per un tempo infinito, ma perché la libera dal desiderio dell’immortalità. Non c’è infatti nulla di temibile nella vita per chi ha la profonda convinzione che nulla di temibile vi è nel non vivere più. […] Ciò che non ci inquieta se presente, ci affligge infatti vanamente quando lo si attende. Il male, dunque, che più ci atterrisce, la morte, è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci siamo noi.
È proprio a Meneceo che Epicuro rivolge la nota massima sull'insensatezza della paura della morte ed è in questo stesso testo che il filosofo specifica la definizione di 'piacere', obiettando che si sbagliano tutti coloro che lo ritengono un cultore della vita dissipata (una visione estremamente superficiale che ancora oggi richiede di essere sfatata), in quanto la serenità e la felicità che l'uomo saggio persegue si traduce nell'assenza di turbamento, in una condizione di piena consapevolezza di sé e di appagamento nell'essenziale privazione di sofferenza, il cosiddetto piacere catastematico (o atarassia), tanto caro anche a Giacomo Leopardi, come dimostra la canzone La quiete dopo la tempesta.
Si deve poi ricordare che il futuro non è del tutto nostro, né del tutto non nostro, perché non ci illudiamo come se assolutamente si dovesse avverare, né perdiamo la speranza, come se non si dovesse avverare affatto. Analogamente bisogna credere che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali, alcuni sono necessari, altri solamente naturali; e di quelli necessari, alcuni sono necessari per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa.
In questi tre brevi documenti, dunque, si può leggere il concentrato della filosofia di Epicuro, espresso con semplicità e immediatezza: comprendere la logica del ragionamento del pensatore ellenistico è facile anche per i profani, che nelle lettere a Erodoto, Pitocle e Meneceo possono trovare certo più soddisfazione che in generici riassunti che, come si è detto, spesso peccano di superficialità. Non c'è nulla di meglio che avvicinarsi direttamente ad un'opera e al pensiero di un autore, specialmente se questo autore ci invita ad abbandonare qualsiasi complicazione e ad esercitare continuamente il dubbio non per complicarci l'esistenza, ma per rendere la nostra presenza nell'esistenza pienamente consapevole e significativa.
Anche per chi abbia già conseguito una compiuta conoscenza, la cosa più importante è proprio l’essere in grado di servirsi delle sue cognizioni con prontezza: impossibile questo se non si riduce il complesso della dottrina in elementi e definizioni semplici.
C.M.

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