Libri come esseri umani: la biblioteca a e la «presenza viva degli autori»

Ogni lettore appassionato ha provato almeno una volta la sensazione di dialogare direttamente con l'autore del libro che stava leggendo, di stabilire un colloquio a distanza, di scoprire se stesso in qualcosa che è stato detto da una persona mai conosciuta che, però, si rivela improvvisamente come il miglior confidente. È un sentimento antico quanto il libro stesso, sorto e sviluppatosi laddove si sono manifestati bibliofili e filologi e che si è di conseguenza espanso illimitatamente con l'accesso pubblico a volumi cartacei e digitali. 

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Le manifestazioni più entusiastiche del piacere derivante da questo genere di colloquio scaturiscono dalla letteratura umanistica e rinascimentale, nella culla di quello spirito di ricerca e diffusione dei libri che genera gli studi filologici, le biblioteche pubbliche e la stampa. Non va dimenticato che biblioteche e studi di commentatori e copisti esistevano già nell'antichità, basti pensare alla biblioteca di Alessandria, grande tesoro culturale del mondo ellenistico o a quella di Asinio Pollione a Roma, la prima raccolta di testi pubblicamente accessibili nel panorama latino e di certo il Medioevo non ha del tutto abbandonato la strada del libro, se tanti salvataggi dobbiamo ai monaci degli scriptoria di tutta Europa. Tuttavia l'epoca umanistico-rinascimentale, che è già vitale nell'autunno del Medioevo nella forma del Preumanesimo, ha la particolarità di accingersi con una grande riverenza agli autori classici, con la missione morale di restituire loro la voce dopo secoli di silenzio o offuscamento. L'umanista, insomma, è il vero antenato dei bibliofagi di oggi, che trepidano per leggere i libri dei loro autori preferiti.
Della capacità degli autori di parlare all'interno delle biblioteche scrive già Plinio il Vecchio nel I secolo, all'interno del libro XXV della Naturalis Historia, nella sezione in cui si occupa delle arti figurative, a proposito di un vezzo tipico dell'aristocrazia romana ellenizzata che celebra gli scrittori amati non solo raccogliendone i volumi ma adornando le biblioteche private di ritratti.
Non est praetereundum et novicium inventum, siquidem non ex auro argentove, at certe ex aere in bibliothecis dicantur illis, quorum immortales animae in locis eisdem locuntur, quin immo etiam quae sunt finguntur, pariuntque desideria non traditos vultus, sicut in Homero evenit.
E non dimentichiamo la nuova trovata di dedicare nelle biblioteche statue non d'oro e d'argento ma di bronzo agli autori i cui spiriti immortali parlano in quelle stanze, al punto che vengono realizzati anche ritratti immaginari e la nostalgia inventa i volti non tramandati, così come accade con Omero.
Nell'uso del verbo loquor si coglie immediatamente il senso di questo dialogo a distanza: come una preziosa reliquia, il libro emana la sacralità dello spirito che ne ha generato il contenuto e la sua voce aleggia nelle stanze, sicché anche adornare quei luoghi con le immagini degli scrittori rende la biblioteca simile ad un luogo popolato di persone o ad un tempio in cui venerarne il genio.
Inizia qui quel processo di personificazione del libro che trova la sua massima espressione nella lettera che Poggio Bracciolini indirizza a Guarino Veronese il 15 dicembre 1416 per raccontargli della scoperta dell'Institutio Oratoria di Quintiliano (assieme ad altre opere quali Le Argonautiche di Valerio Flacco e i commenti alle orazioni di Cicerone) all'interno del monastero di San Gallo. Il documento epistolare è fondamentale per cogliere l'intimità dell'incontro con i classici, poiché Bracciolini descrive il rinvenimento del codice come l'incontro con un essere umano, paragonato ad un carcerato a causa delle cattive condizioni in cui il volume ha trascorso anni o secoli.
Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era tenuto recluso. V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia. Perciò mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella biblioteca, come richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed oscuro carcere, nel fondo di una torre, in cui non si caccerebbero neppure dei condannati a morte. Ed io son certo che chi per amore dei padri andasse esplorando con cura gli ergastoli in cui questi grandi son chiusi, troverebbe che una sorte uguale è capitata a molti dei quali ormai si dispera. [trad. dal latino di Eugenio Garin in Prosatori latini del Quattrocento (1952)]
Sebbene Bracciolini faccia riferimento esplicito al libro come oggetto della scoperta, la personificazione appare evidente nella metafora della prigione ad indicare lo stato di degrado del luogo in cui il manoscritto era conservato prima del ritrovamento. Alla visione del libro come oggetto di studio si sostituisce una lettura emozionale e affettiva del rapporto fra il testo e lo studioso, segno di una profonda affinità e familiarità.
Non diversa è la posizione di Francesco Petrarca, instancabile ricercatore e lettore dei testi antichi, insaziabile lettore e inesauribile studioso, che è in grado di scomodare gli eruditi di tutta Europa per procurarsi nuovi libri. Lo racconta personalmente nel proprio epistolario, ponendo grande attenzione «alla costruzione della propria immagine di lettore» (Lina Bolzoni). La più nota attestazione del bisogno di Francesco Petrarca di accumulare libri per perpetuare e ampliare questo dialogo è contenuta nell'epistola a Giovanni Anchiseo (Familiares III, 18).
Una inexplebilis cupiditas me tenet, quam frenare hactenus nec potui certe nec volui; michi enim interblandior honestarum rerum non inhonestam esse cupidinem. Expectas audire morbi genus? libris satiari nequeo. Et habeo plures forte quam oportet; sed sicut in ceteris rebus, sic et in libris accidit: querendi successus avaritie calcar est. Quinimo, singulare quiddam in libris est: aurum, argentum, gemme, purpurea vestis, marmorea domus, cultus ager, picte tabule, phaleratus sonipes, ceteraque id genus, mutam habent et superficiariam voluptatem; libri medullitus delectant, colloquuntur, consulunt et viva quadam nobis atque arguta familiaritate iunguntur, neque solum se se lectoribus quisque suis insinuat, sed et aliorum nomen ingerit et alter alterius desiderium facit.

Sono preda di una insaziabile brama, che fino ad oggi non ho potuto davvero né voluto frenare: infatti mi scuso entro di me col dirmi che la brama di cose degne non è da ritenersi indegna. Aspetti che io ti dica di che genere di malattia si tratta? Ecco: non riesco a saziarmi di libri. E sì che ne posseggo un numero probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come con le altre cose: la fortuna nel cercarli è sprone a una maggiore avidità di possederne. Anzi coi libri si verifica un fatto singolarissimo: l'oro, l'argento, i gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti, il destriero dall'elegante bardatura, e le altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di familiarità attiva e penetrante; e il singolo libro non insinua soltanto se stesso nel nostro animo, ma fa penetrare in noi anche i nomi di altri, e così l'uno fa venire il desiderio dell'altro.
Anche in questa lettera i libri discorrono (colloquuntur è un composto del già visto loquor); in più, offrono consigli (consulunt) e stabiliscono con il lettore un legame di familiarità, ed è significativo che familiaritas sia proprio il termine che definisce l'amicizia e che è usato da Cicerone per indicare il legame che lo unisce ad Attico, suo più caro confidente, al momento della dedica del dialogo De amicitia. Petrarca, del resto, fa del suo autore più caro un vero e proprio interlocutore in una delle opere cui affida la descrizione del conflitto delle sue passioni: a dialogare con Francesco nel Secretum è Agostino, al quale sono affidate parole e situazioni analoghe a quelle da lui descritte nelle Confessioni che Francesco porta sempre con sé, come scrive all'amico Dionigi di Borgo San Sepolcro, narrandogli dell'ascesa al Monte Ventoso.
Ma c'è un altro documento petrarchesco che ci offre questa immagine confidenziale di un colloquio con gli autori, sempre all'interno delle Familiares (XII, 8), laddove il poeta descrive il rigenerante ritiro in Valchiusa, laddove si sente solo la voce dello spirito e della letteratura che lo conforta, come un nuovo Elicona che si popola dei grandi scrittori antichi.
More meo nuper in Elicona transalpinum urbis invise strepitum fugiens secessi, unaque tuus Cicero attonitus novitate loci fassusque nunquam se magis in Arpinate suo, ut verbo eius utar, gelidis circumseptum fluminibus fuisse quam ad fontem Sorgie mecum fuit. [...] Delectari itaque michi visus est Cicero et cupide mecum esse: decem ibi nempe tranquillos atque otiosos dies egimus. [...] Innumeris claris et egregiis viris comitatus erat comes meus, sed (ut sileam Graios) ex nostris aderant Brutus Athicus Herennius [....]; aderat orator Hortensius, aderat Epycurus [...]; aderant Lelius et Scipio, cum quibus et vere amicitie et optime reipublice formam dabat...

Com'è mia abitudine, recentemente mi sono ritirato sul mio Elicona transalpino, fuggendo l'odioso strepito della città e insieme a me è venuto il tuo Cicerone che, stupito dall'eccezionalità del luogo, ha confessato, per usare le sue parole, di non essersi mai sentito nella sua proprietà di Arpino, cinta da torrenti freschi, più che in quel momento insieme a me presso la Sorga. [...] E mi è sembrato proprio che si divertisse e che fosse felice in mia compagnia: abbiamo trascorso in quel luogo dieci giorni tranquilli e spensierati. Con me c'era un gruppo di numerosi uomini eccellenti, ma, per tralasciare i Greci, dei nostri c'erano Bruto, Attico, Erennio, l'oratore Ortensio, Epicuro...
Ritroviamo qui il senso della lettura come un colloquio continuo che offre conforto e piacere, beneficio fondamentale per un uomo come Petrarca, costantemente teso al ritiro spirituale in compagnia di buone letture, al punto da prendere i voti minori per poterlo fare con la garanzia di una rendita che gli permetta di non esercitare alcuna professione. E chi fra gli accaniti lettori, anche oggi, non farebbe carte false per potersi dedicare tutto il giorno o, comunque, senza l'interruzione del quotidiano, ai propri autori preferiti?
Petrarca disprezza il mondo esterno perché in esso si sente incompreso: solo la letteratura gli offre il sostegno che cerca, permettendogli di sottrarsi al giudizio della gente e di dedicarsi a se stesso, conoscendosi attraverso le parole degli antichi che legge giorno dopo giorno e che si rivelano più attuali e familiari di quelle dei suoi contemporanei. Una delle Epistolae metricae scritte nel 1338 durante il ritiro in Valchiusa e indirizzata a Giacomo Colonna contiene una difesa dell'otium letterario del poeta e del suo atteggiamento di allontanamento dalla massa:
Questi uomini rozzi si meravigliano ch'io osi disprezzare le delizie ch'essi considerano beni supremi, e non comprendono né la mia felicità né quel piacere che mi dànno altri amici segreti, che da tutte le parti del mondo ogni età m'invia, amici illustri per lingua, ingegno, guerre, facondia; amici non difficili, che si contentano di un angolo della mia modesta casa, che nessuna mia domanda rifiutano, che premurosi mi assistono e non mi dànno fastidio, che se ne vanno a un mio cenno e richiamati ritornano. Ora questi, ora quelli io interrogo, ed essi mi rispondono, e per me cantano e parlano; e chi mi svela i segreti della natura, chi mi dà ottimi consigli per la vita e per la morte, chi narra le sue e le altrui chiare imprese, richiamandomi alla mente le antiche età. E v'è chi con festose parole allontana da me la tristezza e scherzando riconduce il riso sulle mie labbra; altri m'insegnano a sopportar tutto, a non desiderar nulla, a conoscer me stesso, maestri di pace, di guerra, d'agricoltura, d'eloquenza, di navigazione; essi mi sollevano quando sono abbattuto dalla sventura, mi frenano quando insuperbisco nella felicità, e mi ricordano che tutto ha un fine, che i giorni corron veloci e che la vita fugge. E di tanti doni, piccolo è il premio che mi chiedono: di aver libero accesso alla mia casa e di viver con me.
La letteratura conforta, perché costituisce un importante specchio per conoscere sé stessi, un catalogo di esempi che ci educano alla vita, un veicolo di divertimento, uno strumento di istruzione nelle più varie discipline. In cambio, i libri chiedono solo di essere posti nelle nostre case, di essere accolti e curati come le persone a noi più care, perché come esseri viventi in effetti si comportano. Tale idea di una convivenza con i libri-umani è ribadita da Petrarca nel De vita solitaria, vero e proprio monumento al ritiro nell'otium letterario (II, 14):
Libros preterea diversi generis et simul per quos aut de quibus scripti sunt comites gratos et assiduos, et promptos vel in publicum prodire vel ad arculam redire cum iusseris, paratosque semper vel tacere vel loqui, et esse domi, et comitari in nemora, et peregrinari, et rusticari, et confabulari, et iocari, et hortari, et solari, et monere, et arguere, et consulere, et docere secreta rerum, monimenta gestorum, vite regulam mortisque contemptum, modestiam in prosperis, fortitudinem in adversis, equabilitatem in actionibus atque constantiam: comites doctos, letos, utiles ac facundos, sine tedio, sine impendio, sine querela, sine murmure, sine invidia, sine dolo; interque tot commoda, nullo cibo interim, nullo potu et veste inopi et angusta domus parte contentos, cum ipsi potius hospitibus suis inextimabiles animi divitias, amplas domus, fulgidas vestes et iucunda convivia ac suavissimos cibos parent.

Mi procuro innanzitutto libri di genere diverso, che siano allo stesso tempo compagni graditi e assidui grazie a coloro che li hanno scritti e sempre pronti ad uscire in pubblico o a ritornare nel cassetto secondo gli ordini, sempre pronti a rimanere in silenzio o a parlare, a rimanere in casa, ad accompagnarmi nei boschi, nei viaggi, nelle campagne, a conversare, a scherzare, ad esortarmi, a consigliarmi, ad ammonirmi, a mettermi in guardia, a consigliarmi, ad insegnarmi i segreti delle cose, le grandi imprese, il modo di vivere e il disprezzo per la morte, la moderazione nella buona sorte, la temperanza nelle avversità, l'equità e la coerenza nelle azioni: voglio compagni istruiti, lieti, utili, facondi, che non mi arrechino noia e non siano costosi, non si lamentino, non brontolino, non provino odio e non ingannino; e per tanti benefici, si accontentano di una povera veste e di uno spazietto in casa, senza chiedere né cibo né acqua, mentre essi offrono a chi li ospita inestimabile ricchezza per l'animo, grandi case, vesti preziose, piacevoli banchetti e dolcissime vivande.
L'enorme contributo dei libri alle nostre vite è reso da questa metafora dell'ospitalità: chi accoglie in casa tanti volumi ricchi di voci di autori importanti non offre loro che uno spazio sugli scaffali, magari in un angolo della propria casa, eppure riceve in cambio dai suoi ospiti, grazie al potere che la letteratura ha sullo spirito, ricchezze paragonabili a quelle di un re. Una sensazione in cui, indubbiamente, ci rispecchiamo ancora. La personificazione è sempre più evidente, dato che Petrarca usa termini riferibili alle attività che di norma si praticano con gli amici, come passeggiate, conversazioni in casa, scherzi, scambi di consigli.
Lo stesso entusiasmo per la compagnia dei libri e per gli immensi benefici che derivano dal contatto con gli autori è evidente nel dialogo Theogenius di Leon Battista Alberti, nel quale l'architetto e umanista porta avanti un analogo panegirico della solitudine, addirittura richiamandosi ad Orazio e al suo ideale di aurea mediocritas caro anche ad altri personaggi del suo tempo, in primis Ludovico Ariosto. L'Alberti sente che proprio nei momenti di solitudine si trova nella migliore delle compagnie:
Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando; ché se forse mi dilettano e’ iocosi e festivi, tutti e’ comici, Plauto, Terrenzio, e gli altri ridicoli, Apulegio, Luciano, Marziale e simili facetissimi eccitano in me quanto io voglio riso. Se a me piace intendere cose utilissime a satisfare alle domestiche necessità, a servarsi sanza molestia, molti dotti, quanto io gli richieggio, mi raccontano della agricoltura, e della educazione de’ figliuoli, e del costumare e reggere la famiglia, e della ragion delle amicizie, e della amministrazione della republica, cose ottime e approvatissime.
L'elenco dei benefici di questa colta compagnia, che significativamente mette in primo piano autori classici autori di commedie, romanzi ironici e satire e l'importanza del divertimento, prosegue elencando altre materie (come la filosofia), ma senza esplicitarne gli autori, sebbene sia evidente che dietro al tema dell'educazione sia celato il nome di Quintiliano e dietro a quello dell'amicizia e della politica Cicerone, mentre Catone o Varrone, citati anche dal Petrarca, si riconducono all'argomento dell'agricoltura. 
Questi, dunque, gli antichi che tengono compagnia a Leon Battista Alberti e che vengono inseriti in un testo che ricorda da vicino quella che è forse l'apoteosi della celebrazione del colloquio con gli autori, la nota lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori, datata al 10 dicembre 1513. Relegato all'Albergaccio dopo la sua esclusione dalla vita politica fiorentina, Machiavelli si rivolge allo storiografo e diplomatico che in una precedente comunicazione gli ha descritto il lusso della vita alla corte di papa Leone X, spesa fra banchetti, amori e corse a cavallo. Ben diversa è la condizione di Niccolò, calato in una realtà prosastica fatta di discorsi di taglialegna, umili pasti e gioco d'azzardo; solo i momenti di lettura nel bosco, in compagnia dei testi amorosi di Dante, Petrarca, Tibullo e Ovidio, rendono sopportabile il fluire della giornata, ma è alla sera che si compie il miracolo, che offre al letterato una vera e propria occasione di metamorfosi, oltre alla possibilità di far sapere all'interlocutore che sta già lavorando al suo capolavoro, Il principe.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
Torna qui, assieme al balsamo della lettura che storna la paura della morte già incontrato in Petrarca, la metafora della letteratura che parifica l'uomo umile e la sua umile dimora ad un personaggio nobile in un ricco castello: è questo l'abito di dignità che si confà ai grandi autori, agli antiqui huomini con i quali l'esule avverte una familiarità e dai quali riceve nutrimento. In mezzo ad essi si compie l'incanto della sera nella biblioteca, si avverte la «presenza viva degli autori» (Lina Bolzoni): iniziano dialoghi, scambi di consigli, conversazioni che fanno dimenticare ogni sventura e che annullano la distanza posta dal tempo fra l'autore e il lettore, riuniti per quattro ore in un luogo ameno e ospitale dominato dallo spirito della letteratura. 
E voi, cari lettori, provate mai questa sensazione di un dialogo con i vostri autori preferiti? A me accade spesso e sono curiosa di conoscere le vostre impressioni e di sapere con quali scrittori, in questo senso, andate più d'accordo: raccontate!

C.M.

NOTE: Come testo di approfondimento suggerisco il contributo di Lina Bolzoni Il piacere della lettura: il dialogo con gli autori da Petrarca a Tasso, originariamente pubblicato in «Rivista di letterature moderne e comparate» LVII (2004) pp. 287-301; inoltre consiglio un articolo di Michele Feo, Leggere, pubblicato nella rivista «Il ponte» LII, 9 (settembre 1996), pp. 83-97. I testi citati sono stati importanti fonti per l'ampliamento di questo articolo.

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