La morte di Ivan Il’ič - Lev Tolstoj

Fra i tabù più presenti nelle società umane c'è sicuramente quello della morte: ben poche civiltà, nonostante le elaborate mitologie dell'aldilà, sono state in grado di convivere serenamente con l'ignoto che attende ogni essere vivente e, se escludiamo il culto dei morti degli Egizi, ci rendiamo conto che sono sempre esistite delle nette fratture fra il mondo dei vivi e quello dei defunti e che le situazioni intermedie hanno sempre generato un forte imbarazzo e una comune sensazione di incomunicabilità, che si riflette anche nella letteratura della catabasi. 
 
Edvard Munch, Al capezzale del morto (1893)

Lev Tolstoj ha descritto questa difficile coesistenza nella narrazione degli ultimi mesi di Ivan Il’ič, un borghese impiegato come pubblico funzionario che, indaffarato fino al parossismo a rendere la propria esistenza (il lavoro, la casa, i riti sociali) conformi all'idea di ciò che è conveniente, rispettabile e ammirevole, piomba improvvisamente in uno stato di malattia per cui nessuno sembra in grado di reperire spiegazioni e cure efficaci.
Scoprì che l’unico interesse che la sua persona rappresentava per gli altri si riduceva alla scadenza, vicina o lontana, nella quale avrebbe sgomberato il posto, liberato i vivi dall’impaccio della sua presenza e liberato se stesso dalla propria sofferenza.
Dopo un capitolo introduttivo, il racconto è costituito da una articolata analessi che corre all'indietro fino alla formazione di Ivan Il’ič, ai suoi studi di legge e all'arrampicata che gli ha permesso di giungere, dopo momenti di forte amarezza, ad un impiego pagato 5000 rubli e all'acquisto di una casa ricca di tutti gli orpelli con cui i neoarricchiti affermano la loro presenza nella buona società. Ivan Il’ič è un ufficiale scrupoloso, che non lesina cortesie e attenzioni sul lavoro, un marito per nulla innamorato e, anzi, soffocato da una moglie che, a sua volta, si dimostra insofferente a lui e che, pure, riesce a fondare l'armonia famigliare sul comune amore per il benessere e un padre che non ha nei confronti dei figli altra aspettativa che quella di vederli integrati nella bella società in cui si è fatto strada. Eppure Ivan Il’ič non tarda a rendersi conto che la malattia basta, da sola, a smascherare la realtà delle relazioni sociali e della vita famigliare che lo circonda: comprende di essere un peso e che tutti sono in febbrile attesa della sua morte per liberarsi della pena di doverlo accudire, per non ascoltare più i suoi lamenti, per riscuotere un'eredità, per arraffare il suo posto di lavoro, anche se, certamente, non sarebbero disposti ad ammetterlo. Dal momento in cui alla sofferenza fisica si associa la convinzione di essere vittima dell'enorme menzogna della moglie e dei medici che gli promettono un'improbabile guarigione e fingono di non avere l'unico desiderio della sua rapida dipartita, Ivan Il’ič intraprende un lungo colloquio silenzioso con la morte, ora invocandola come una liberatrice, ora respingendola per il desiderio di tornare in salute, ora, di nuovo, temendo sia la morte che la vita perché l'una appare spaventosa ma l'altra si rivela, di colpo, un enorme fallimento.
Il tormento maggiore di Ivan Il’ič era la menzogna, quella menzogna da tutti accettata, secondo la quale egli era soltanto ammalato e non moribondo ed era sufficiente ch’egli se ne stesse tranquillo e si curasse, perché tutto tornasse come prima. Mentre egli sapeva benissimo che qualunque cosa facessero, non ne sarebbe venuto fuori nulla, tranne sofferenze ancora maggiori e morte. Questa menzogna lo tormentava, come pure l’ostinazione con cui gli altri non volevano ammettere ciò che sapevano, ciò ch’egli sapeva. Volevano continuare a mentire sulla sua orribile condizione e volevano costringerlo a partecipare a questa menzogna.
Pubblicato nel 1886, La morte di Ivan Il’ič si rivela non soltanto l'ennesimo tassello della polemica contro la società e la vita coniugale che Tosltoj ha affidato anche alle pagine de La sonata a Kreutzer e, in parte, ad Anna Karenina, ma anche una fulgida anticipazione di quel disagio che esploderà in Europa nella narrativa del XX secolo, in particolare ne La metamorfosi di Franz Kafka. Come Gregor Samsa, infatti, anche Ivan Il’ič, da impiegato abile al sostentamento di una famiglia, diventa improvvisamente un essere scomodo, del quale quasi i familiari si vergognano. Il nucleo familiare e i legami apparentemente più stretti si svuotano della naturale compassione che li dovrebbe animare e si rivelano rapporti intrisi di ipocrisia, menzogna e disprezzo. La continua erosione di quegli elementi sociali che hanno costituito per Ivan Il’ič i perni e i traguardi della sua esistenza e dell'ascesa economica approda alla sanzione di una sconfitta: il moribondo non tarda a comprendere che consegnarsi alla morte significa abbandonare la vita proprio nel momento in cui ne sono emersi gli errori. E allora l'incontro con il momento fatale diventa ancor più tormentato, rendendo lo stato di sospensione del malato impossibile da sedare anche ricorrendo ad oppiacei e assoluzioni religiose.
La morte di Ivan Il’ič è un racconto che mette in luce la più grande paura dell'essere umano, che non è, molto probabilmente, quella dello stato di morte in sé (che, come ricorda Epicuro, non si incontra mai con l'essere vivo che lo teme), ma quella del cammino verso la morte stessa, della coesistenza, nella condizione di un malato terminale, dell'ineluttabilità del processo ormai innescato.
In questo, Tolstoj offre una materia di riflessione che tocca le corde di ogni lettore e lo fa con una prosa breve, schietta, che in poche pagine sa trasmettere tutta l'ansia di una comune condizione. Non si può negare l'universalità e l'attualità del tema che Tolstoj tratta, se pensiamo alla difficoltà con cui, ancora oggi, si parla di malattie degenerative irreversibili, di assistenza ai malati terminali e di questioni legate all'accanimento terapeutico e al fine vita. Di fatto, la morte resta un tabù, un argomento che si desidera rimanga estraneo; in un certo senso, sebbene ci facciano inorridire, le reazioni della moglie e dei conoscenti di Ivan Il’ič non sono poi tanto lontane da certi comportamenti che ci portano a stigmatizzare la sofferenza altrui e a non voler pensare che, prima o poi, con il morire dovremmo fare i conti tutti quanti e per ciascuno di noi la soddisfazione di essere stati virtuosi come un primo violino in un concerto (la sensazione di apparente appagamento descritta proprio da Ivan Il’ič) potrebbe tradursi in rimpianti e rimorsi. Ma la Letteratura ha proprio questo compito: ricordarci anche ciò che tendiamo a lasciar fuori dalle nostre esistenze e infonderci lo slancio ad una maggiore solidarietà e compassione.
Gli venne in mente ciò che fino ad allora gli era parsa una totale assurdità, quella di aver vissuto la vita in modo sbagliato. Vide che questa poteva essere la verità. Gli venne in mente che i suoi timidissimi tentativi di ribellione contro ciò che la gente dell’alta società considerava buono, tentativi appena abbozzati, ch’egli si era sempre affrettato a reprimere, potevano essere quelli autentici, e tutto il resto un errore. Il suo lavoro, il suo modo di vivere, la sua famiglia, i suoi interessi mondani e professionali, tutto poteva essere stato un errore. Cercò di difendere tutto ciò davanti a se stesso, ma improvvisamente sentì l’assoluta debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere.
C.M.

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