Il multiforme Ulisse: la "figura" di Colombo

L'Inferno dantesco è il veicolo fondamentale della fortuna del mito di Ulisse: il canto XXVI è innegabilmente l'elemento-chiave nella trasformazione del mito classico in un vessillo della modernità. Come abbiamo già avuto modo di notare, l'eroe ritratto da Dante si presenta come l'individuo avido di conoscenza, disposto a sfidare qualsiasi limite per appagare quello che ritiene un bisogno naturale dell'uomo. Ecco, dunque, che il suo folle volo viene consacrato a simbolo immortale di sfida e di progresso, capace di adattarsi sia al fermento individualista romantico sia alla visione del progresso e del razionalismo tipica dell'Illuminismo.

Claude Lorrain, La partenza di Ulisse (1646)

Colui che consegna questo Ulisse dal duplice volto dalle mani di Dante in quelle degli scrittori del XIX secolo è Torquato Tasso, che per primo accosta la figura dell'eroe omerico a quella di un esploratore, Cristoforo Colombo, portando nella letteratura lo snodo cruciale fra età medievale e moderna. Nel canto XV della Gerusalemme liberata, infatti, si narra de viaggio dei guerrieri cristiani Ubaldo e Carlo verso le Isole Fortunate, laddove la maga Armida tiene prigioniero Rinaldo; all'altezza dell'ottava XII vengono descritte le Colonne d'Ercole e subito dopo l'imbarcazione con a bordo i due cristiani, significativamente guidata da una fanciulla di nome Fortuna, attraversa la mitica frontiera. Ubaldo, allora, interroga Fortuna, chiedendole se qualcun altro prima di loro abbia compiuto una simile impresa e se il nuovo mondo in cui si stanno inoltrando sia abitato (ottave XXV-XXVI):
Risponde: "Ercole, poi ch’uccisi i mostri
ebbe di Libia e del paese ispano,
e tutti scòrsi e vinti i lidi vostri,
non osò di tentar l’alto oceano:
segnò le mète, e ’n troppo brevi chiostri
l’ardir ristrinse de l’ingegno umano;
ma quei segni sprezzò ch’egli prescrisse
di veder vago e di saper, Ulisse.

Ei passò le Colonne, e per l’aperto
mare spiegò de’ remi il volo audace;
ma non giovogli esser ne l’onde esperto,
perché inghiottillo l’ocean vorace,
e giacque co ’l suo corpo anco coperto
il suo gran caso, ch’or tra voi si tace.
S’altri vi fu da’ venti a forza spinto,
o non tornovvi o vi rimase estinto;
Ulisse, secondo il racconto di Fortuna, ha osato intraprendere un'avventura di fronte alla quale lo stesso Ercole, prima di lui, aveva esitato, preferendo stabilire fra l'Africa e la penisola iberica li suoi riguardi (segnò le mete rimanda a Inf. XXVI, 108). Tasso descrive dunque la fatale navigazione di Ulisse, trasformando il folle volo in volo audace e mantenendo la metafora in associazione al movimento dei remi fatti ali.
Fin qui nulla di nuovo. La vera chiave di volta del mito si colloca invece qualche ottava più avanti (XXX-XXXII). Fortuna ha appena descritto alcune caratteristiche delle popolazioni che vivono nell'emisfero boreale, che, grazie all'ampliamento degli orizzonti geografici, non è più mondo sanza gente ma una terra popolata e variegata per usi e tradizioni; Ubaldo, dunque, non può fare a meno di domandarsi perché quel Dio che è sceso in terra per rivelare la Verità sembri volerne celare la conoscenza al mondo. Fortunata lo rassicura: Dio desidera che l'umanità progredisca in sapere e sarà un navigatore ligure a far conoscere i luoghi e i popoli che vivono al di là delle Colonne d'Ercole.
Tempo verrà che fian d’Ercole i segni
favola vile a i naviganti industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti ancor tra voi saranno illustri.
Fia che ’l piú ardito allor di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.

Un uom de la Liguria avrà ardimento
a l’incognito corso esporsi in prima;
né ’l minaccievol fremito del vento,
né l’inospito mar, né ’l dubbio clima,
né s’altro di periglio e di spavento
piú grave e formidabile or si stima,
faran che ’l generoso entro a i divieti
d’Abila angusti l’alta mente accheti.

Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo
lontane sí le fortunate antenne,
ch’a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama c’ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
basti a i posteri tuoi ch’alquanto accenne,
ché quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e d’istoria.
Naturalmente il viaggio di Ubaldo e Carlo non può essere accostato a quello di Ulisse, ma, piuttosto, è similare a quello di Dante: non un folle volo o una folle venuta, bensì un'impresa voluta da Dio, nella persona di Goffredo, per ricondurre il guerriero Rinaldo nell'esercito impegnato a Gerusalemme nella liberazione del Santo Sepolcro.
Con Tasso Cristoforo Colombo fa il suo ingresso nella poesia, arte in cui è destinato a ritornare periodicamente come simbolo del progresso, come incarnazione di quello spirito proteso alla conoscenza che Dante ha vestito con lo spirito di Ulisse. Così ritorna nell'ode di Giuseppe Parini L'innesto del vaiuolo (1765), testo che si inserisce nel dibattito illuminista in favore della diffusione del sapere e del progresso per il bene comune: Colombo, che ha sfidato le superstizioni, la paura dell'ignoto e la derisione di chi non condivideva i suoi progetti, è il simbolo di chi persegue il miglioramento scientifico e serve a descrivere al meglio il valore di chi non si lascia frenare dagli ostacoli e dall'ignoranza e raggiunge traguardi inaspettati (vv. 1-27).
O Genovese ove ne vai? qual raggio
brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi oimè le penne
non anco esperte degli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio
all'intentato piano
de lo immenso oceano?
Senti le beffe dell'Europa, senti
come deride i tuoi sperati eventi.

Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice,
che natura ponesse all'uom confine
di vaste acque marine,
se gli diè mente onde lor freno imporre:
e dall'alta pendice
insegnolli a guidare
i gran tronchi sul mare,
e in poderoso canapè raccorre
i venti, onde su l'acque ardito scorre.

Così l'eroe nocchier pensa, ed abbatte
i paventati d'Ercole pilastri;
saluta novelli astri;
e di nuove tempeste ode il ruggito.
veggon le stupefatte
genti dell'orbe ascoso
lo stranier portentoso.
Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
all'Europa, che il beffa ancor sul lito.
Tale dev'essere Giammaria Bicetti de'Buttinoni, dedicatario dell'ode, nella sua opera in favore della vaiolizzazione immunitaria in contrasto alla diffusione di una delle malattia col più elevato tasso di mortalità fra XVII e XVIII secolo, che fa strage soprattutto fra i giovani: Parini, in un'ode che ricorda l'orazion picciola, esorta il medico a non piegarsi di fronte all'ignoranza e a perseguire la strada del progresso, inseguendo virtute e canoscenza oltre le risate di scherno e i pregiudizi che hanno posto un limite paragonabile a quello delle Colonne d'Ercole per i marinai. Se il comune sentire accetta soltanto ciò che appare immediatamente utile («imperturbato il regno / de'saggi dietro all'utile s'ostina. / Minaccia né vergogna no 'l frena e no 'l rimove») e rifiuta il nuovo prodigioso che appar menzogna, occorre perseverare per eradicare il popolare error e restituire la salute ai posteri in forma di progresso (vv. 136-144).
L'accostamento di Colombo ad Ulisse sembra farsi debole e lontano, tuttavia, osservando i versi pariniani, si possono notare delle consonanze che, passando attraverso Tasso, riconducono la lode del valore dell'esploratore all'impresa dell'eroe dantesco: nel canto XV della Gerusalemme così come nell'ode di Parini si sottolineano l'ardire dell'impresa di Colombo («l'ardore / ... a divenir del mondo esperto» Inf. XXVI vv. 97-98; «il volo audace» G.L. XV, XXVI v- 2; «il più ardito di tutti i legni» G.L. XV, XXX v. 5 e «un uom de la Liguria avrà ardimento / a l’incognito corso esporsi in prima» in ibid. XXXII, 25; «audaci antenne» nel v. 2 dell'ode), l'ignoto che si staglia oltre le Colonne d'Ercole e la superstizione secondo la quale il limite geografico corrisponda ad un divieto religioso acciò che l'uom più oltre non si metta («i paventati d'Ercole pilastri» al v. 20 dell'ode); la vera novità, che si spiega con i progressi geografici maturati fra Dante e Tasso, sta nella menzione della convinzione che tali pregiudizi saranno scardinati e nella confutazione stessa delle parole di Dante («Tempo verrà che fian d’Ercole i segni / favola vile a i naviganti industri» in G.L. XV, XXX vv. 1-2 e «Erra chi dice, / che natura ponesse all'uom confine / di vaste acque marine» nell'ode).
E tuttavia Parini decide di regalare un'ultima concessione ulissiaca al suo Colombo: i versi «saluta novelli astri; / e di nuove tempeste ode il ruggito» non possono che riportare alla memoria le ultime parole di Ulisse prima dello scatenarsi della tempesta, laddove appaiono stelle mai osservate nell'emisfero boreale e fenomeni marini appartenenti al nuovo mondo:
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. (vv. 127-129)

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto. (vv. 136-138)
Cristoforo Colombo ritorna, in veste filosofica, nelle opere di Giacomo Leopardi, dapprima nella canzone Ad Angelo Mai (1820), poi nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (1824). Dal confronto fra i due testi il Colombo leopardiano appare un elemento dialetticamente molto interessante, poiché apre delle contraddizioni che, in qualche modo, sono insite nel mito di Ulisse tràdito da Dante; l'Ulisse omerico, invece, non incontra l'interesse di Leopardi, che lo definisce «un eroe né giovane né bello, per nulla amabile nonostante le sue miserie» (Zibaldone 3602). 
Nella canzone Ad Angelo Mai, scritta per celebrare il ritrovamento della Repubblica di Cicerone (prima conosciuta solo relativamente al Somnium Scipionis del libro VI), Leopardi si concede un dialogo con alcuni grandi del passato, sulla scia della suggestione della riscoperta di un autore antico. Il poeta si rivolge a Dante, Petrarca, Colombo, Ariosto, Tasso e Alfieri. All'esploratore genovese, apostrofato come ligure ardita prole (con una significativa citazione tassesca), Leopardi attribuisce un'impresa gloriosa che, tuttavia, ha gettato l'umanità in una crisi: la sete di conoscenza ulissiaca si è tradotta in una labitintica dilatazione del mondo che ha prodotto disorientamento e, soprattutto, ha tolto vigore e significato all'immaginazione, unico strumento che l'uomo possiede per accedere ad un barlume di felicità (vv. 87-105).
Ahi, ahi! ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema, e assai piú vasto
l’etra sonante e l’alma terra e il mare
al fanciullin, che non al saggio, appare.

Ecco svaniro a un punto,
e figurato è il mondo in breve carta;
ecco, tutto è simile, e, discoprendo,
solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta
il vero, appena è giunto,
o caro immaginar; da te s’apparta
nostra mente in eterno; allo stupendo
poter tuo primo ne sottraggon gli anni;
e il conforto perí de’ nostri affanni.
Ora che gli orizzonti dell'umanità si sono ampliati e l'ignoto viene rappresentato sulla carta, il mondo non è più delimitato da un confine rassicurante, da quelle Colonne d'Ercole che rappresentavano il limite oltre il quale c'era il dominio della fantasia e che avevano la stessa funzione della siepe de L'infinito: nascondere, proteggere e, quindi, permettere un dolce naufragar nel mare dell'immaginazione. Del canto dantesco, insomma, rimane l'idea della protezione offerta dalla Natura (ancora benigna dispensatrice di pillole di felicità in forma d'illusione e d'ignoto) e di una conoscenza che produce effetti negativi su chi la desidera con troppo ardore. Una visione che sarà rivista nell'ultimo periodo, quando, con La ginestra, il poeta recanatese sosterrà la necessità di conoscere il vero ad ogni costo, quale che sia la condizione che comporta, non a caso elogiando la nobil natura affronta a viso aperto qualsiasi minaccia alla propria esistenza.
Nel mezzo, però, si colloca il Colombo delle Operette morali, che discute assieme al compagno di viaggio sul valore del navigare, esponendosi ad enormi pericoli sulla base di semplici congetture come, appunto, quella di un collegamento fra l'Atlantico e l'Oriente. Colombo non nega le ragioni di Gutierrez, tuttavia proprio il desiderio pericoloso di conoscere, di sapere se tutto il mondo sia abitato o se la sua parte ignota sia composta esclusivamente d'acqua, di incontrare altri popoli e di scoprirne la condizione, le doti, il grado di progresso costituisce il nerbo stesso dell'esistenza.
Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? o non saremmo anzi in qualche maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia? Che vuol dire uno stato libero da incertezza e pericolo? se contento e felice, quello è da preferire a qualunque altro; se tedioso e misero, non veggo a quale altro stato non sia da posporre. Io non voglio ricordare la gloria e l'utilità che riporteremo, succedendo l'impresa in modo conforme alla speranza. Quando altro frutto non ci venga da questa navigazione, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.
Pellegrino Tibaldi, Nettuno e la nave di Ulisse (1550)

L'esplorazione e la vita attiva non solo servono ad appagare il naturale bisogno dell'essere umano di sfuggire la noia, l'insoddisfazione e l'inattività che sono fonti di infelicità, ma, infondendo nella vita un germe di pericolo, producono anche un maggior attaccamento alla stessa, poiché nessuno desidera la vita più di chi la rischia in ogni momento, nessuno ama la terraferma più del marinaio che ne sente la mancanza, nel pieno rispetto della Teoria del Piacere e, in particolare, della visione catastematica della felicità ben espressa ne La quiete dopo la tempesta, laddove il piacere è definito figlio d'affanno (v. 32).
Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria, che non fanno gli altri della loro. Io per lo stesso rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche persone in tanto amore e pregio come da' navigatori e soldati. Quanti beni che, avendoli, non si curano, anzi quante cose che non hanno pur nome di beni, paiono carissime e preziosissime ai naviganti, solo per esserne privi!
Torna qui l'eco dell'Ulisse dantesco, per il quale, però, l'eroe omerico è necessaria premessa, con la curiosità che lo contraddistingue nelle più celebri avventure e le conseguenze devastanti di questo slancio (è Odisseo colui che vuole esplorare l'antro di Polifemo e non intende privarsi del piacere di ascoltare il canto delle sirene). Ulisse, dunque, resiste come simbolo del desiderio di conoscere, di sperimentare, di cercare la strada del progresso rispondendo alla naturale propensione dell'uomo ad uscire dallo stato di ingenuità ferina o infantile e raggiungere la maturità e la piena consapevolezza di sé e del mondo che lo circonda, sebbene Leopardi, come si legge nello Zibaldone (383-384), riconduca questo slancio non al puro ardore di conoscenza, bensì al desiderio di sentire infinitamente e alla tensione al più generico Piacere (che, materialmente e momentaneamente, può anche identificarsi con la conoscenza, ma rimane intrinsecamente legato alla sola immaginazione) e, appunto, al tentativo di sfuggire la noia.
In quanto incarnazione del naturale istinto dell'essere umano a gettarsi nell'avventura per conoscere (quale che ne sia il germe) e per liberarsi dalle superstizioni e dai limiti, Ulisse è, per adottare il linguaggio ermeneutico di Erich Auerbach, figura, cioè anticipazione e rappresentazione simbolica di grandi esploratori come Cristoforo Colombo e di scienziati al servizio della medicina, come nell'ode di Parini, ma anche degli astronauti e di qualsiasi altro tenace studioso.
Certo è che Leopardi solleva un dilemma anch'esso insito nell'Ulisse omerico e nella profezia di Tiresia: prendere il mare, inseguire virtute e canoscenza, esplorare sono azioni che producono un progresso nel sapere, aprono nuove strade, abbattono le frontiere. Eppure, al contempo, queste avventure provocano disorientamento, dilemmi, dubbi, pericoli, infelicità e, in casi estremi, la morte, rendendo l'esplorazione, insieme, necessaria e spaventosa.

C.M.

Commenti

  1. Assai interessante, come sempre, questo tuo excursus.
    La figura di Ulisse così come è stata delineata da Dante resta un simbolo assoluto di quel desiderio di conoscenza che diventa "folle" nel momento in cui osa sfidare le leggi divine, e parlarne in classe è sempre esaltante per me.
    L'aspetto che diventa evidente nello studiare il modo in cui Ulisse viene concepito nel Medioevo ci aiuta ad addentrarci nel comune pensiero dell'epoca e in quanto la chiesa dettasse le norme della vita comune, per altro. Il desiderio di conoscenza diventa sfida al Dio che non tollera che l'uomo si elevi al suo stesso rango.

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    1. Proprio così. A questo proposito, ho molto apprezzato un articolo di Claudio Giunta su Internazionale dedicato all'importanza di leggere Dante anche e soprattutto per calarci in una mentalità molto diversa da quella del nostro tempo: l'Inferno, in tal senso, offre molti spunti interessanti.

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