La famiglia Aubrey - Rebecca West

Spesso le saghe familiari si caratterizzano per un'assenza o per una forte riduzione degli elementi di azione, dei colpi di scena: sembrano romanzi fatti di annotazioni, di registri manipolati dall'arte narrativa dell'autore, di pensieri e descrizioni che, mentre non ci mostrano nulla di chiaramente definibile, di ascrivibile ad un contorno, ad una precisa scena, ci lasciano scivolare fra le trasformazioni che investono i protagonisti. Terminata la lettura, magari non sappiamo dire cosa sia accaduto, ma ci rimane la chiara percezione che il punto di arrivo ci ha portati molto lontano da quello di inizio, perché, senza accorgercene, siamo diventati amici, confidenti dei personaggi, assumendo la loro prospettiva, cogliendo gli eventi senza intravvedere il disegno complessivo. Di solito è a questo che si legano il fascino e anche il senso di malinconia che caratterizza questo genere di libri.

Con La famiglia Aubrey, primo romanzo della trilogia firmata da Rebecca West (1892-1983) in corso di pubblicazione per Fazi Editore nella traduzione di Francesca Frigerio, questa sensazione si è già ripresentata e apre la strada a ottime aspettative in merito al proseguimento del racconto.
Questa è una delle cose peggiori della vita, che l’amore non ci regala il buon senso, anzi, è la strada più sicura per perderlo. Amiamo le persone, e diciamo che vogliamo dar loro qualcosa di più dell’amicizia, ma l’amore ci confonde al punto tale che in realtà facciamo molto meno, anzi, qualche volta quello che facciamo sembra quasi dettato dall’odio.
Seguendo la voce narrante di Rose Aubrey, una giovanissima pianista che, assieme alla sorella Mary, si prepara a diventare una concertista sotto la guida della madre, assistiamo alle altalenanti sorti dell'intera famiglia. Il padre, Piers, è un brillante e ammirato intellettuale, ma sperpera i soldi della famiglia nel gioco e in investimenti fallimentari. La sorella maggiore, Cordelia, si ostina a suonare il violino e a farsi spingere da un'insegnante piuttosto ottusa in concerti di livello mediocre con aspettative decisamente troppo alte, nel vano tentativo di guadagnare con la musica i soldi che mancano per sottrarsi alle umiliazioni. Clare, la madre, è disorientata, concentrata com'è sulla preparazione musicale delle figlie, sul ridimensionamento delle ambizioni immoderate di Cordelia e sulla strenua difesa di un marito che non comprende fino in fondo. Rose e Mary, in tutto questo, sono delle silenziose testimoni, affiancate dal fratello minore Richard Quin, che stempera i momenti più drammatici con un ottimismo fanciullesco.
Il quadro de La famiglia Aubrey è piuttosto lineare, dato dall'incontro di questi slanci estremamente quotidiani, pieni di disillusione e di duri impatti con la realtà. Non mancano alcuni passaggi lenti, apparentemente pleonastici, ma poi arrivano pagine con intense riflessioni sull'essere umano, sui suoi sentimenti, sui suoi sogni e sul confronto fra i desideri e la difficoltà di realizzarli. Ha scritto bene Alessandro Baricco: è come percorrere un fiume che scorre lento, incontrando, di tanto in tanto, una barca e ciò che il lettore può fare è soltanto cercare di comprendere questo ritmo e adattarvisi.
La storia degli Aubrey è una storia comune, verosimile, condita con qualche elemento di fantasia - le apparizioni di un poltergeist nella casa della cugina, i cavalli immaginari che alimentano i giochi dei bambini - che le conferisce sfumature originali. 
Sempre Baricco scrive che Rebecca West «sembrava annotare le verità dei viventi come se fossero un elegante arredo alla falsità della vita. Non aveva l’aria di voler risolvere o svelare alcunché» e questo conferma la mia impressione sulla pseudo staticità della saga, nella quale molto avviene senza che ce ne rendiamo conto. Al punto che l'epilogo, nel quale la stessa Rose, che è stata per tante pagine e per tanti anni una voce neutra, un'attenta spettatrice delle vicissitudini dei suoi famigliari, risulta il momento più coinvolgente del romanzo, quello in cui sembra che, finalmente, ella trovi il suo posto in una storia che non l'ha mai messa nelle condizioni di fare la differenza, una storia nella quale sentiva di non esistere. Una considerazione che prelude ad un secondo, avvincente capitolo.

Oh, la musica parla della vita, suppongo, e specialmente di quello che della vita non riusciamo a comprendere, altrimenti le persone non si darebbero la pena di raccontarlo per mezzo delle note. Ma non sono in grado di dire a parole quello che intendo.
C.M.

Commenti

  1. Dopo aver letto la tua recensione sono andata subito ad informarmi su chi fosse Rebecca West. Mi sono inoltre ricordata di aver già incontrato il suo nome, citato nel "Quaderno d'Appunti" della Mansfield, letto quest'estate. E la Mansfield parlava della West come un'autrice di recensioni migliore di lei.
    Spero che non si cavalchi l'onda dei Cazalet,come già vedo quando cercano a tutti i costi paraleli fra le due opere...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io non trovo ragioni particolari per istituire dei paralleli: certo, sono entrambe saghe familiari scritte da due autrici contemporanee, ma quella dei Cazalet ha un respiro molto più ampio e la sensibilità moderna e a tratti sfrontata della Howard è una cifra che distingue ed eleva i suoi romanzi; quella degli Aubrey, invece, è una storia più tradizionale, dagli orizzonti più limitati, raccontata in una prospettiva molto più focalizzata. Sono due cicli diversi, entrambi con le loro peculiarità.

      Elimina
  2. Questo post mi ha fatta riflettere sul fatto di aver letto solo due saghe familiari in vita mia, entrambe di autori sudamericani (La casa degli spiriti della Allende e Cent'anni di solitudine di Marquez). In ogni modo, con le dovute differenze sono romanzi che ho adorato, ma non mi dispiacerebbe immergermi in un'ambientazione diversa, con tutto ciò che questo comporta per la famiglia protagonista.
    Inoltre mi trovo d'accordo riguardo le sensazioni che questo genere di libri offrono. Non si è mai certi di cosa stiano raccontando, non c'è molta azione, ci sono tanti piccoli eventi che scorrono placidamente. Eppure alla fine ho sempre la sensazione che siano i romanzi più reali che potremmo mai leggere, perché anche nella vita di tutti i giorni succede così: sono rari i momenti di azione, più probabilmente le cose procedono con lentezza e ci rendiamo conto delle situazioni una volta che sono finite; quando ci siamo dentro non ci capiamo mai niente! xD

    RispondiElimina
    Risposte
    1. È proprio così e forse questa familiarità del lettore con le vicende (o non-vicende) dei personaggi è la vera cifra distintiva e di successo di questo genere di racconti. Nei casi di libri come La famiglia Aubrey o per la saga dei Cazalet c'è poi la "aggravante" della serialità! :)
      Per stare invece sui volumi unici, ti suggerisco I Buddenbrook di Thomas Mann!

      Elimina

Posta un commento

La tua opinione è importante: condividila!