Quale memoria?

Quale memoria? Questa domanda si pone con forza ogni volta che si avvicina il 27 gennaio, Giornata della Memoria. Perché trasformare una celebrazione così importante in una esteriore manifestazione di un lutto le cui cause sono sempre più lontane nel tempo è un rischio che non possiamo correre. Come non possiamo permetterci di limitare alla Shoah la nostra riflessione, tanto più se viviamo immersi una società che, globalmente, fa spesso mostra di nutrire e tollerare ancora tanti pregiudizi.
Guarda, lo so che tu e la tua generazione ritenete molto utile che si parli di tutto, ma per noi non era così. Abbiamo imparato a dimenticare. Lo dicevano tutti, allora: dimentica e guarda avanti! Non stare a rimuginare sul passato […] E poi non c’era nessuno che fosse così interessato ad ascoltare quello che avevamo da raccontare. La gente non voleva sentire e basta.
Queste parole sono tratte dal romanzo Io non mi chiamo Miriam; l'autrice, Majgull Axelsson, ha saputo cogliere tutta la drammaticità delle esperienze narrate, approfondendo una parte del purtroppo immenso fenomeno che è stato la Shoah, quella della deportazione dei Rom. Pur ascritto alla narrativa, questo testo si raccorda con molti documenti memorialistici (basti pensare a Se questo è un uomo e a La tregua di Primo Levi), offrendo un grande spazio, alla difficoltà dei sopravvissuti di raccontare: un ostacolo insormontabile dettato sia dall'ineffabilità delle brutalità subite, sia dal bisogno di chi avrebbe dovuto ascoltare di continuare a fuggire da una verità che li avrebbe obbligati a fare i conti anche con le proprie responsabilità.
R. Magritte, La memoria (1950)
Ho scelto queste poche righe del romanzo perché quel non voler sentire è una scelta ancora troppo presente e che rischia di esserlo sempre di più. Non solo in relazione alla Shoah, che ci viene ricordata anche dal calendario (ma che troppo spesso torna alla memoria solo per le celebrazioni della Giornata della Memoria), ma anche a tutti gli altri episodi, presenti e passati, di discriminazione e violenza.
Perché, nell'indifferenza e nell'odio, ancora ci sono bambini costretti a lavorare, privati del diritto all'istruzione, denutriti, donne che subiscono violenza e spesso hanno paura di denunciare, intere comunità perseguitate per le idee religiose, profughi trattati solo come numeri da notiziario, ricercatori e reporter che vengono assassinati perché inseguono una verità scomoda, schiavi moderni, internati in campi di lavoro, malati e disabili privati del sostegno medico-sociale, spose bambine, omosessuali emarginati e addirittura derisi dalla stampa che è nata in quel clima di Illuminismo in cui, per la prima volta, si è detto che tutti gli esseri umani sono uguali. E sono solo alcune delle violazioni dei diritti umani, spesso silenziosamente tollerate per salvaguardare interessi internazionali, principalmente di carattere economico.
Questo dovremmo oggi ricordare: che la Shoah è stato, purtroppo, uno dei tanti fenomeni in cui la violenza dell'uomo si è manifestata. Non l'unico (e se anche unico fosse stato, sarebbe stato comunque troppo), ma uno dei numerosissimi anelli di una catena di brutalità, odio e sopraffazione che si è allungata nei millenni e che ancora non è stata spezzata.
Oggi, a differenza di quel che accadeva nel passato, abbiamo tutti i mezzi per informarci, essere critici osservatori della realtà, indagare e, in qualche modo, protestare. Eppure abbiamo ancora tanto da imparare sul significato dei diritti umani, sul fatto che averli messi nero su bianco, poco più di settant'anni fa, non basta a farci rimanere sicuri e orgogliosi di professarli. La memoria, se esiste, evidentemente è molto corta, oppure mancano le capacità elementari di connettere il ricordo con ciò che passa sotto i nostri occhi e trarne le terrificanti conclusioni.
E la paura di Primo Levi e di tanti altri sopravvissuti che temevano che nessuno li ascoltasse e che il terribile dramma che avevano vissuto cadesse nell'oblio assieme al valore della dignità umana è lungi dall'essere stornata.
Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare in umiltà il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa.
C.M.

Commenti

  1. Hai ragione. Ed è per questo che nel Giorno della memoria celebrato a scuola, che quest'anno mi sono presa la briga di gestire, ho preparato una performance con i ragazzi in cui spesso si è accennato a tanti "olocausti" nel mondo.
    Altrimenti diventa pura retorica, acqua che scorre e basta.

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    1. Condivido la tua scelta, infatti anch'io ho voluto cogliere la ricorrenza come occasione per riflettere con i miei alunni sui diritti umani e sulla loro violazione, ricordando diversi episodi di violenza, compresi quelli ancora in corso.

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  2. Le tue parole, e quelle di Primo Levi, dicono già tutto. Che altro aggiungere, se non dire grazie per questo articolo.

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    1. Grazie a te per esserti fermata a leggere questa riflessione.

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  3. Bellissime parole. Un anno fa, in occasione della Giornata della Memoria condivisi un brano tratto da Africa Social Club, di Gaile Parkin; brano in cui, parlando dell'eccidio in Ruanda, ci si pone proprio questa domanda: perchè gli uomini hanno bisogno di qualcosa per ricordare?
    Se hai tempo, leggilo, è un brano splendido, come splendido è l'intero libro.
    E complimenti per aver scelto parole non banali per la celebrazione di una giornata fin troppo sventolata sui social.

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    1. Sono andata subito a leggere il tuo post e trovo il brano molto significativo per inquadrare il problema: gli esseri umani hanno continuamente bisogno di un pungolo per la memoria, eppure non ne fanno mai davvero tesoro. E apprezzo soprattutto la tua scelta di proporre, per la celebrazione del 27 gennaio, un brano non legato alla Shoah ma ad uno dei tanti eccidi che non godono nemmeno della considerazione dovuta alle vittime, a riprova che anche la memoria, troppo spesso, è un "privilegio" per alcuni fenomeni e per altri sembra che se ne possa fare a meno. Va benissimo che esistano occasioni consacrare al ricordo, ma il ricordo deve muoversi a tutto tondo, o sarà un atto puramente formale.
      Grazie per esserti fermata a leggere e per aver portato il tuo prezioso contributo.

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