Una barca nel bosco - Paola Mastrocola

Quest'anno ho deciso di impostare il percorso di narrativa della classe prima sulla narrativa di formazione, privilegiando questo genere rispetto a tutti gli altri che il manuale propone, scelta dettata sia dalla necessità di 'stringere' un programma altrimenti vastissimo sia dall'importanza che i temi trattati possono avere per coloro che si affacciano al mondo dell'adolescenza e che, quindi, più facilmente si riconoscono nelle avventure dei protagonisti e nelle loro riflessioni. Così, anche ispirandomi a spunti ricevuti durante il tirocinio, ho deciso di assegnare la lettura di Una barca nel bosco di Paola Mastrocola, che io stessa lessi per la prima volta al liceo.
C'è qualcosa di amaramente realistico e grottescamente surreale nelle disavventure di Gaspare Torrente, che incontriamo mentre, lasciata la sua isola nel Meridione, si appresta a frequentare il primo anno di liceo a Torino. Con le sue scarpe con la para di gomma che non reggono il confronto con le Naik dei compagni, i maglioncini così diversi dalle felpe col cappuccio che tutti portano, il giubbotto giallo polenta che si vergogna a indossare, Gaspare appare fin dall'inizio del romanzo un elemento estraneo al mondo in cui tenta di inserirsi, un po'stigmatizzandone le assurdità, un po'assecondandole: è, come gli dice la madre, una barca nel bosco, un ragazzo difficile da capire sia per i genitori che per i compagni di classe e i professori. A Torino Gaspare vive con la madre e con zia Elsa, mentre il padre è rimasto a lavorare nel sud, con la sua barca, fiero dei sacrifici fatti per un figlio dalle grandi doti per il quale immagina un futuro migliore del proprio; ma il ragazzo, con le sue stramberie, con i suoi goffi tentativi di farsi accettare, con la sua difficoltà di sopportare il vecchio arredamento dell'appartamento in cui vive e gli odori della gastronomia che la madre ha aperto sotto casa per potergli comprare ciò di cui ha bisogno per la scuola e per la sua difficoltosa vita sociale, con il fastidio che gli provoca doversi rivolgere ai compagni per avere accesso alle email, non sa come far capire alla famiglia che lui non desidera nulla di tutto ciò. La scuola non lo sodisfa, anzi, lo mette nelle condizioni di assumere atteggiamenti artificiosi, di dover fare di tutto per abbassare i voti di latino, di fare dell'amore per la poesia oraziana un'attività segreta anziché un motivo di orgoglio. Il suo unico appoggio, l'insegnante madame Pilou che lo ha incoraggiato ad imparare il francese e la letteratura, non risponde nemmeno più alle sue lettere e i nuovi professori sono tutti presi da un modo di fare scuola alternativo, nebuloso, inadatto a recepire i talenti e i problemi degli alunni. Anno dopo anno, incontro dopo incontro, fallimento dopo fallimento, Gaspare affronta un percorso che, anziché portarlo più vicino a se stesso, al compimento della propria formazione, lo conduce invece in un mare di domande, incontro a esperienze frustranti, infruttuose, deludenti. Trova conforto e motivazione solo nella cura degli alberi, cui si è appassionato quasi per caso, dopo aver comprato una pianta per mascherare un orribile tubo nel salone di casa e rendere l'appartamento più accogliente e gradevole per l'ingrata ospite arrivata grazie allo scambio culturale scolastico. Gaspare ha per le piante quell'interesse genuino che a lui è mancato: si preoccupa di offrire loro spazio, luce, acqua, movimento affinché, pur costrette a rimanere in un posto contro la loro volontà, possano comunque sentirsi bene, essere tutelate nel loro diritto di crescere sane e forti.
La storia di Gaspare Torrente è, a tutti gli effetti, quel percorso di sformazione che annuncia la quarta di copertina. Nel suo stile semplice e surreale, la narrazione trae la sua forza dal processo di straniamento che si delinea pagina dopo pagina, quando, sotto gli occhi del lettore, Gaspare analizza freddamente quella realtà che non gli riserva altro che delusioni e, a suo modo, tenta di resisterle e di acclimatarsi, se combattere non è possibile.
Da insegnante che ha più volte espresso le sue perplessità sulla direzione presa dal sistema di istruzione italiano e da scrittrice graffiante, Paola Mastrocola ha saputo reinterpretare abilmente la materia narrativa dei romanzi di formazione, adattandola ai tempi e alla società italiana. C'è, fra le sue pagine, qualcosa dell'utopia di Cosimo Piovasco di Rondò, anch'egli proiettato a vivere fra le piante, simbolo della crescita e della condizione tipica degli adolescenti, che si tendono verso l'età adulta senza poter evitare di porsi il problema di dove affondino le proprie radici, anch'egli alla ricerca di un senso personale, anch'egli alle prese con il difficile compito di imparare a relazionarsi con gli altri anche laddove il carattere e l'istinto sembrano creare fratture insanabili.
Nel rileggere Una barca nel bosco dopo tanti anni, ho trovato più facile cogliere rimandi letterari e frecciatine critiche su alcuni aspetti sociali che, da ragazzina, forse non avvertivo come allarmanti. Come mi è spesso accaduto di fronte a precedenti riletture di altri libri, anche in questo caso il mio giudizio nei confronti di questo romanzo ha avuto come esito una rivalutazione in positivo: lo avevo apprezzato molto da quattordicenne e ora, a sedici anni di distanza, lo ho compreso e avvertito nella sua forza ancora di più. Perché ogni buona storia di formazione prevede anche questo confronto con i rischi della decostruzione, con la crisi, con quell'esperienza traumatica e insieme affascinante che è il mutamento di un'idea, di una convinzione, di un'idea di vita, molte volte come conseguenza di un ostacolo imprevisto, di una delusione, di un incontro.
Gaspare Torrente passa attraverso alcune situazioni normalissime, altre paradossali, altre ancora estremizzate e stereotipate, ma si afferma come un individuo. Si può parteggiare per lui nel corso di un capitolo e poi, di colpo, disprezzarlo, dal momento che è verosimile: un adolescente con aspirazioni, limiti, risorse e difetti all'affannosa ricerca del proprio posto nel mondo.
Volevo andare a vedere di che colore era, se era diverso dal mare della mia isola ad esempio, se davvero un oceano è più grande di un mare. Cercavo l’idea di grandezza, l’idea. Speravo di incontrarla, di vedermela davanti spianata e palpitante. Mi tenevo stretto questo pensiero per quando avrei finito la scuola, ero libero e la vita ce l’avevo davanti, dico la vita che volevo, che è un po’come avere un oceano davanti. Avevo solo paura che invece non fosse niente, che fosse come il mare, perché l’infinito te lo dà benissimo anche un mare, non c’è bisogno di un oceano: finiscono tutti e due con l’orizzonte, e l’orizzonte è uguale da tutte le parti, non è che c’è scritto sopra «orizzonte di mare» oppure «orizzonte di oceano».
C.M.

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