La ragazza del convenience store - Sayaka Murata

Durante il mio viaggio in Giappone un punto di riferimento importante sono stati i konbini, supermercati aperti tutto il giorno e in grado di vendere, pur essendo molto piccoli, una grande varietà di prodotti: alimenti confezionati, cestini per il pranzo (i mitici bentō), qualche specialità gastronomica, bibite, prodotti per l'igiene personale e della casa, riviste e molto altro. In ogni angolo delle città fanno capolino le insegne luminose di 7-Eleven, FamilyMart, Lawson e altre catene di negozi, tutti accomunati da corridoi stipati di prodotti dagli involucri coloratissimi, pareti-frigorifero sempre rifornite di scatole con onigiri, yakitori, polpette, sandwich, espositori con dorayaki e melonpan e da casse a scorrimento veloce da cui i commessi salutano e ringraziano meccanicamente, mentre imbustano la merce, forchettine e salviette.
Ecco perché non ho potuto resistere al richiamo del romanzo di Sayaka Murata La ragazza del convenience store (Edizioni e/o), la cui protagonista, Keiko Furukura, è una commessa di un konbini. Quella di Furukura è una storia per un verso comune, per l'altro, invece, è fuori dalle righe: in Giappone sono molti gli studenti che lavorano nei konbini in attesa di concludere l'università e, in generale, il personale di questi punti vendita si rimescola di frequente, con il rapido alternarsi di dimissioni e nuove assunzioni; ci sono però anche i freeter, giovani che, anche se nelle condizioni di lavorare a tempo pieno, si dedicano per scelta solo a impieghi part-time e con contratto a tempo determinato, per godere di maggiore libertà. Keiko è, a suo modo, una freeter, tuttavia lo è da parecchi anni e la sua devozione al konbini inizia a destare la preoccupazione della sua famiglia e delle amiche, che vorrebbero vederla sistemata, magari sposata, anche perché lo stipendio su cui la giovane donna può contare da quando ha abbandonato gli studi non le assicura altro che un appartamento fatiscente in cui si ritira, a fine giornata, per mangiare i prodotti preconfezionati acquistati nel negozio stesso e infilarsi nel suo futon. Keiko ha da sempre difficoltà ad entrare in sintonia con gli altri, manca di quell'empatia necessaria a comprendere quando una reazione è inadeguata e questo le ha procurato diversi problemi fin dall'infanzia; nel suo konbini, tuttavia, Keiko sa rispettare le aspettative sociali, il ruolo di una commessa che deve accogliere e accudire il cliente, che ogni giorno si sottopone ad una breve seduta motivazionale dedicata allo staff esercitando l'esclamazione di benvenuto Irasshaimase! e che sa perfettamente quando e come disporre gli alimenti e le bevande sugli scaffali per rispondere ai bisogni degli acquirenti, che possono variare in base all'orario o alla temperatura esterna. La routine di Keiko viene alterata dall'assunzione e dal licenziamento di Shiraha, un ragazzo insofferente a qualsiasi norma della socialità, che odia il lavoro nel konbini e disprezza tutti coloro che adottano soluzioni convenzionali per sopravvivere, a partire dalla stessa Keiko. Lei, però, capisce che Shiraha e la sua riottosità possono tornarle utili: entrambi, in fondo, non rispondono alle aspettative delle loro famiglie e di tutti coloro che li circondano, che auspicano che trovino un lavoro in grado di garantire un certo benessere e che si sposino (soprattutto Keiko, che rischia di diventare troppo vecchia per mettere al mondo dei figli, secondo l'opinione comune). Keiko propone a Shiraha di trasferirsi nel suo appartamento, in cambio dell'autorizzazione a presentarlo come il suo fidanzato, così da mettere a tacere i genitori, la sorella e le amiche intente ad elencare i successi della loro vita familiare. La presenza di Shiraha, però, imporrà a Keiko di ripensare la sua vita di commessa e all'opportunità di continuare ad essere la ragazza del konbini.
Il romanzo di Sayaka Murata oscilla fra ironia e amarezza: incalzante, coinvolgente, affascinante, è però anche disseminato di moniti e considerazioni che, pur essendo estremamente legate allo stile di vita giapponese (soprattutto a quello degli abitanti delle grandi città), non manca di sfaccettatura universali. Se è infatti divertente seguire Keiko nella sua pianificazione del lavoro, nell'allestimento degli scaffali, nell'ascolto di quella che lei chiama la musica dei konbini, dall'altro lato ci rendiamo conto che, come tante persone, ella vive per il suo lavoro e fatica a realizzarsi al di fuori di esso. Non che ne soffra: Keiko è perfettamente a suo agio nella divisa del konbini, fra i suoi scaffali e fra le scadenze promozionali, addirittura è la sua occupazione a motivarla a tenersi in ordine e reattiva; tuttavia Keiko è sempre impegnata a giustificarsi, a nascondersi, a trovare delle motivazioni socialmente accettabili per il suo comportamento.
Leggendo La ragazza del convenience store ci si può trovare spesso in sintonia con Keiko, della quale viene spontaneo difendere le scelte, nella consapevolezza che ogni donna può decidere di dare priorità al lavoro rispetto alla famiglia e realizzarsi pienamente in una professione, senza dover rendere conto a nessuno e senza farsi soffocare dalle aspettative sociali; è anche vero, però, che Keiko rappresenta tutte quelle persone che faticano a inserirsi in un sistema appagante di relazioni interpersonali, una situazione che in Giappone è particolarmente presente e preoccupante, ma che non è estranea nemmeno per noi occidentali. In risposta a questa ansia da socialità, i Giapponesi osservano una serie molto rigida e codificata di comportamenti, tali da rendere le interazioni estremamente standardizzate, anche nella selezione delle parole, che variano anche a seconda del ruolo sociale degli interlocutori. Queste abitudini, che nel konbini di Keiko si vedono continuamente ma che entrano in crisi non appena lei esce dalla sua scatola di vetro, generalmente colpiscono negativamente i turisti, soprattutto quelli abituati, come noi Italiani, ad una maggiore spontaneità, eppure non possono non farci pensare a come, in contesti differenti, anche nella nostra quotidianità, per motivi diversi, tendiamo ad indossare delle maschere, a conformarci a delle aspettative o a soffrire quando non ci viene riconosciuto il diritto di ribellarci ad esse (è l'eterna riflessione pirandelliana).
La ragazza del convenience store potrebbe sembrare, a conclusione di questa recensione, un romanzo amaro, triste, grigio. Invece non lo è, sia perché l'autrice racconta la storia (peraltro ispirata alla sua esperienza di commessa) con uno stile fresco e immediato, sia perché, tutto sommato, in una situazione che parrebbe doverla rendere infelice e alienata, Keiko sta bene e difende questo suo diritto di essere a proprio agio anche laddove gli altri pensano che debba essere frustrata e insoddisfatta. E poi, con questo romanzo, Sayaka Murata mi ha riportata un po'nel mio amato Giappone.

Scaffale di un konbini di Kanazawa
Nei konbini in Giappone risuonano sempre mille rumori. Dal trillo all'ingresso che annuncia l'arrivo dei clienti alla voce cantilenante di una star della TV che pubblicizza nuovi prodotti e si diffonde nel negozio attraverso gli altoparlanti. Dal saluto dei commessi che accolgono i clienti gridando a perdifiato ai bip dello scanner alla cassa. Il tonfo dei prodotti sul fondo del cestino della spesa. Il fruscio dell'involucro di cellophane di dolcetti e focaccine. Il ticchettio dei tacchi sul pavimento. Una miriade di suoni che si fondono tra loro e si insinuano dentro di me senza sosta: è la "musica del konbini".
C.M.

Commenti

  1. Anche se per certi versi anche io ho apprezzato la capacità di risvegliare in me i ricordi del mio viaggio in Giappone, per altri questo romanzo non mi ha impresso particolarmente. C'è di fondo nel nostro modo di vivere con queste maschere addosso (noi quanto i giapponesi) che mi amareggia. Leggere un romanzo che me lo ricorda alla fine non è un'esperienza così piacevole. Questo senza nulla togliere ai meriti narrativi del libro, che è ben scritto e scorrevole

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    1. Capisco la tua prospettiva, in effetti l'insistenza su questo tema può accentuare l'insofferenza che nasce dal riscontrarlo anche nella nostra quotidianità. Io, invece, lo cerco, nel tentativo (probabilmente vano) di capire meglio certe situazioni o, forse, di consolarmi nel riscontrare che certe analisi "non sono mie impressioni".

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  2. Io penso che se un romanzo "ti ha amareggiato" vuol dire che è riuscito nel suo intento e quindi a scuoterti, a prendere coscienza di una certa realtà e a non sfuggirla o farla cadere nell'indifferenza.
    Molto bella questa tua recensione Cristina, l'ho letta di gusto, pur conoscendo poco e nulla sul Giappone e sulla sua cultura. È giusto che una donna debba seguire le sue scelte, anche se in contrasto con un ambiente o una società (purtroppo è comunissimo anche sulla base delle mie esperienze).

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    1. Penso anch'io che un romanzo che produce forti emozioni, anche scuotendo il lettore o richiamandosi a riflettere su qualcosa di non proprio confortante, sia buona letteratura, perché un'impressiome tiepida, indefinita, poco palpabile fa dubitare che sia davvero arrivato un messaggio. Quindi anche per me "amaro" è, in questo caso, un giudizio positivo.

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  3. A me questo libro è piaciuto, mi ha divertito e al contempo mi ha fatto riflettere proprio per quel problema delle maschere. Che i giapponesi piano piano si stiano svegliando? In realtà credo che per riuscire a cambiare mentalità ce ne voglia, e comunque come notavi pure noi le nostre maschere le dobbiamo indossare, pur essendo sotto certi aspetti più "liberi".

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    1. Penso che ogni gruppo sociale abbia i propri condizionamenti, in qualsiasi parte del mondo. La letteratura serve anche a farci riflettere su questo, è sempre un modo per ampliare i nostri orizzonti.

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