Storia della nostra scomparsa - Jing-Jing Lee

Le vicende dell'Estremo Oriente nel corso del secondo conflitto mondiale rientrano nelle cronache di massa solo marginalmente e si sintetizzano in eventi come Pearl Harbor e lo sgancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Poco o nulla generalmente si sa dei fatti bellici che hanno avuto come protagonisti il Giappone e i Paesi che sono finite nelle sue mire colonialiste intorno alla metà del Novecento.
Le vicende legate all'occupazione giapponese di Singapore e le terribili conseguenze per la popolazione locale sono lo sfondo della drammatica storia raccontata da Jing-Jing Lee nel romanzo Storia della nostra scomparsa, pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 2018 e tradotto per Fazi editore da Stefano Tummolini. Fra le pagine l'autrice racconta vicende ispirate alla storia della sua famiglia, ricostruendo uno scenario storico spaventoso che, forse, grazie a questo libro sarà anche per noi lettori occidentali meno nebuloso.
Anche quella volta, fu il silenzio a suggerirci ciò che stava per succedere. Era la mattina del Capodanno lunare, ma l’unica cosa che mi venne in mente, quando mi svegliai, fu che avevamo dormito tutta la notte, senza sentire neanche una volta i lamenti delle sirene o il rombo degli aerei sulla testa. Un Capodanno così silenzioso non si era mai visto. Non si sentivano né i petardi né la musica dei danzatori, che in genere bussavano alle case dei più ricchi con indosso il costume da leone color bianco e oro. Non c’era traccia dei bambini che giravano felici di casa in casa, per augurare buon anno ai vicini e farsi dare un ang bao con dentro un paio di monetine. La notte prima c’eravamo vestiti a festa e avevamo cenato insieme quasi in silenzio, aspettando la mezzanotte per farci gli auguri.
La protagonista del racconto è Wang Di, che, ormai anziana, rimasta vedova e costretta a lasciare il suo quartiere perché trasferita altrove dai responsabili dell'edilizia popolare, ripensa alla sua giovinezza, di cui con fatica ha parlato tardivamente al marito; al contempo, però, Wang Di si rimprovera di non aver mai preteso da lui di conoscere i suoi segreti, la sua vita passata, il modo in cui Chia Soon Wei -il Vecchio, come lei lo chiamava - è sopravvissuto alla perdita della prima moglie e del figlio. Per entrambi, infatti, il ricordo della guerra e degli affetti spezzati era intollerabile: lei se ne vergognava, lui sembrava voler superare il dolore semplicemente con il silenzio. Eternamente oppressa dalla sensazione di essere giudicata da tutti, Wang Di ha le sue buone ragioni per mantenersi riservata: ben pochi sarebbero in grado di comprendere il dolore che ha attraversato da quando, adolescente, è stata catturara da un gruppo di militari giapponesi dal kampong cinese e condotta in una comfort house dove ha subito per mesi e mesi uno stupro dietro l'altro ogni singola notte. Già al tempo della guerra e appena dopo la sua conclusione non era ammesso parlare di quelle violenze, nemmeno con le altre compagne di schiavitù e con Mrs Sato, la titolare della casa, eppure neanche dopo anni e anni il tabù sul destino delle donne di conforto è stato abbattuto e Wang Di ha sempre vissuto con enorme diasagio il ricordo e le consguenze dei mesi trascorsi da prigioniera, quasi fosse lei stessa la responsabile della sua condizione. La storia dell'anziana donna si intreccia, nei primi anni 2000, con quella di Kevin Lim, un ragazzo della comunità cinese di Singapore che raccoglie dalla nonna una confessione in punto di morte e decide di mettersi ad indagare da solo, per non sconvolgere i genitori, sul segreto di cui è venuto a conoscenza.
La guerra fra Britannici e Giapponesi, l'occupazione nipponica di Singapore e le violenze di guerra condotte sulla popolazione, in gran parte costituita da immigrati cinesi attratti dal lavoro nelle piantagioni di gomma, sono lo sfondo e il motore delle vicende di Storia della nostra scomparsa. Wan Di, figlia femmina non desiderata, analfabeta e oggetto dell'interesse di una mezzana che gira i villaggi cinesi in cerca di spose per i suoi clienti, viene catturata da un gruppo di militari, diventa una schiava sessuale e, oltretutto, vittima senza voce di un gravissimo crimine contro l'umanità di cui si sa ancora molto poco. La sua storia, storicamente fondata ma anche tristemente attuale, è quella di una donna ridotta ad oggetto e confinata al silenzio, costretta a vergognarsi della violenza subita e talmente condizionata da questo senso di colpa da sentirsi esposta anche al giudizio di chi vede per la prima volta.
Con questo romanzo Jing-Jing Lee offre ai lettori di un occidente ignaro la descrizione di un dramma come migliaia potenzialmente verificatisi in una parte di mondo lontana eppure toccata anch'essa nel profondo dalle brutalità della guerra. La storia di Wang Di, che riflette quella di tantissime donne rinchiuse nelle comfort house, ci ricorda che quegli eventi di cui troppo spesso si parla solo in riferimento all'Europa e, al massimo, all'Africa, hanno in realtà coinvolto il mondo intero e che i crimini contro l'umanità si sono consumati anche al di fuori dei lager, in contesti ancora quasi sconosciuti, ma meritevoli della giustizia della memoria.
Ecco perché Storia della nostra scomparsa è un romanzo appassionante, pur essendo anche straziante. Sia le vicende di Wang Di che quelle di Kevin, a suo modo anche lui emarginato, svantaggiato, in una situazione di incomunicabilità, sono coinvolgenti e commoventi, eppure la prosa di Jing-Jing Lee non è mai lamentosa, stucchevole o scontata. L'autrice ha un modo lineare e chiaro di raccontare, lasciando intendere al lettore i legami fra le vicende personali e lo svolgersi degli eventi storici, sa dare attenzione ai giusti particolari e invita ad aprire gli occhi su una realtà scomoda e a lungo taciuta e distorta. Si è infatti per lungo tempo sostenuto che le comfort women fossero, in tutti i Paesi occupati dall'esercito nipponico, prostitute dei soldati giapponesi divenute tali per loro scelta; come spesso accade, le prime denunce delle vittime (emerse negli anni '80) sono state trattate come menzogne e delazioni, tuttavia nel 1993 il segretario generale giapponese Yōhei Kōno ha pubblicamente ammesso le responsabilità dei militari imperiali.
Tardivamente, dunque, le donne di conforto, almeno quelle sopravvissute alle violenze, alla vergogna e al tempo, hanno ricevuto una formale giustizia; le loro testimonianze, che, senza voci come quella di Jing-Jing Lee si perderebbero, non possono che corroborare la necessità di coltivare la memoria, di ricordare quanto sia stato e sia ancora facile calpestare la dignità e i diritti di intere masse di donne, uomini e bambini e fingere che nulla sia mai accaduto.
Si è da poco celebrata la Giornata della Memoria, ma, come purtroppo spesso dobbiamo constatare, non tutti coloro che nel corso della seconda Guerra mondiale hanno subito violenze e privazioni godono dello stesso grado di considerazione. Se grazie a coraggiose voci di testimoni come Primo Levi o a romanzieri empatici come Majgul Axelsson abbiamo conosciuto gli orrori di cui sono stati vittime gli ebrei o le comunità rom nei lager europei, il contributo di Jing-Jing Lee è quello di invitarci ad allargare lo sguardo oltre i noti confini, a includere tanti altri drammi collettivi contemporanei.

Tre donne di conforto coreane catturate dal comparto cinese unitosi ai Merrill's Marauders statunitensi (agosto 1944)
Ogni notte, mi addormentavo con la speranza che mi avrebbero lasciata andare il giorno dopo. E continuai a sperare finché non ebbi l’impressione di aggrapparmi a una scheggia di vetro, stringendola sempre più forte nella mano, per impedire che mi scivolasse via. Dopo quel primo mese, smisi di farlo. Smisi di contare i giorni e le settimane.
C.M.

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