Il primo libro delle "Metamorfosi"

Al termine della prima settimana della maratona delle Metamorfosi di Ovidio mi voglio soffermare sul primo libro, analizzando i contenuti più rilevanti, le maggiori curiosità e la fortuna artistica di alcuni miti narrati in questa sezione.
Il proemio dell'opera, come da tradizione dedicato all'enunciazione dell'argomento e all'invocazione degli dèi come ispiratori del canto poetico, presenta immediatamente le Metamorfosi come un perpetuum carmen, cioè come un canto continuato, che ha come filo rosso il tema dei corpi mutati in nuove forme. Va detto che non tutti i racconti (ne sono stati contati oltre 250, con oscillazioni dovute alla considerazione o all'esclusione di brevi allusioni) sono immediatamente identificabili con narrazioni di metamorfosi: talvolta l'autore, nel suo fervore enciclopedico ed eziologico, parte da lontano, da miti minori, da elementi di raccordo talvolta apparentemente insignificanti, da storie che riguardano genitori, nonni, cugini, conoscenti o coetanei di coloro che subiscono delle trasformazioni; nei casi più affascinanti un racconto scaturisce dall'altro grazie alla tecnica del racconto nel racconto e, quindi, all'investitura di un narratore di secondo o terzo grado (con effetti talvolta di mise en abyme).
Sempre attraverso il proemio il lettore apprende che questo perpetuum carmen partirà dalle origini dell'universo dall'entità primordiale del Caos, con un lungo excursus che molto deve ai poemi Teogonia e Le opere e i giorni del poeta greco Esiodo (VIII-VII sec. a.C.), e giungerà fino al tempo dell'autore, cioè all'epoca augustea. In realtà l'ordine degli eventi narrati non sarà strettamente cronologico, ma si verificheranno alcuni anacronismi inevitabili nella gestione di una materia narrativa vasta quanto la mitologia.
Il primo episodio monumentale del libro I è quello del diluvio scatenato dagli dèi per punire l'umanità, divenuta ormai tracotante al punto da prendersi gioco degli dèi; si tratta di una narrazione che si riallaccia ad un archetipo molto presente nella cultura del Mediterraneo orientale e della Mesopotamia, infatti non solo gli Ebrei hanno elaborato nella Genesi una loro versione del diluvio universale, ma anche nell'epopea di Gilgamesh si narra di una terribile inondazione dalla quale solo l'onesto Utnapishtim ha avuto dagli dèi il privilegio di salvarsi. Al termine del diluvio si salvano, approdando con la loro barca sui pendii del Parnaso ancora in parte sommerso, Deucalione e Pirra, figli, rispettivamente, di Prometeo e di Epimeteo (quindi cugini, oltre che sposi), che, interpretando l'enigma di Temi, fanno rinascere gli esseri umani dalle pietre che si gettano alle spalle.

Peter Paul Rubens, Deucalione e Pirra (1636-1637)

Si allontanarono dal tempio, si velarono il capo, si sciolsero le vesti e cominciarono a gettarsi dietro le spalle le pietre, secondo il comando. Ed ecco che queste pietre (nessuno lo crederebbe se l'antica tradizione non ne facesse fede) cominciarono a deporre la loro durezza e rigidità, ad ammorbidirsi a poco a poco e a prender forma. Una volta cresciute e rese più malleabili, si poteva individuare in esse una certa sagoma umana, anche se non evidente, come un abbozzo nel marmo, non ancora perfetto, molto simile a una rudimentale scultura. Quelle parti di esso che conservano tracce di acqua e di terra diventarono carne; le parti compatte, incapaci di piegarsi, diventarono ossa; quelle che erano vene mantennero la loro funzione e il loro nome. In breve, per volontà degli dèi, i sassi scagliati er mano dell'uomo divennero uomini, mentre quelli lanciati dalla donna diedero vita alle femmine. Siamo una razza dura e abituata alla fatica e diamo così prova evidente della nostra origine.
[Traduzione dei vv. 398-415 di Giovanna Faranda Villa]

L'episodio è raffigurato in un bozzetto a olio di Peter Paul Rubens (oggi al Prado) realizzato negli anni 1636-1637 in preparazione ad un dipinto destinato ad ornare la Torre de la Parada. Rubens rappresenta i protagonisti nell'atto di scagliare le pietre che, ricadute dietro di loro, si trasformano: sulla destra del bozzetto si notano un uomo e una donna perfettamente formati e, adagiati in basso, altri esseri umani colti nel momento della trasformazione, mentre sullo sfondo si scorge la sede dell'oracolo di Temi, divinità dell'ordine e della giustizia.
Usando come trait d'union la nascita dell'enorme serpente Pitone, una fra le tante creature che scaturiscono dalla natura finalmente liberata dalle acque, Ovidio passa a raccontare il celeberrimo mito di Apollo e Dafne. Imbaldanzito dalla sua vittoria su Pitone, Apollo si vanta della sua bravura di arciere, sminuendo quella di Cupido, che, ai suoi occhi, gioca con le frecce per accendere l'amore; irritato e vendicativo come tutti gli dèi, Cupido decide allora di dimostrare ad Apollo quanto possa essere potente e lacerante l'amore e, quindi, quanto siano pericolose le sue frecce, così scaglia un dardo d'oro, veicolo di passione, contro Apollo, suscitando in lui l'amore per la bellissima ninfa Dafne, ma trafigge lei con una freccia di piombo che la spinge a provare repulsione per qualsiasi amante. In fuga da Apollo, che brama di possederla, Dafne rivolge al padre, divinità fluviale, la preghiera di essere liberata delle fattezze che il figlio di Giove ama e viene da lui trasformata in una pianta di alloro (Δάφνη, in greco, indica proprio l'alloro). Apollo, che non può in alcun modo restituire alla ninfa il suo corpo, decide di eleggere l'alloro sua pianta sacra, di adornarsi con le sue foglie il capo e di usarle per decorare la sua cetra.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne - particolare (1622-1625)
Un pesante torpore le invade le membra: il morbido petto è racchiuso in una sottile corteccia; i capelli si allungano fino a divenire fronde, le braccia rami; i suoi piedi, prima così veloci, sono inceppati da inerti radici; il viso diviene la cima dell'albero. Solo il suo splendore le resta. Ma anche così Febo l'ama e ponendo la mano sul tronco sente battere ancora il cuore sotto la corteccia appena spuntata; stringendo fra le sue braccia i rami come se fossero le membra dell'amata, copre di baci la panta. La pianta tuttavia cerca di evitare quei baci.
[Traduzione dei vv. 548-556 di Giovanna Faranda Villa]
Conosciuto e ammirato quanto il racconto è il gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini fra il 1622 e il 1625 ed esposto nelle sale romane di Villa Borghese. L'opera si presenta come la perfetta traduzione visiva delle parole di Ovidio e ferma la scena della concitata corsa del dio e della ninfa nel momento in cui la corteccia inizia a rivestire le gambe e il ventre di lei, mentre i suoi capelli scivolano nelle fattezze del fogliame e le braccia, a partire dalle dita, diventano rami; il marmo bianco di Carrara pare quasi piegarsi alla foga del movimento e alla vivacità della natura che si appropria del corpo di Dafne.
Quanto alla tradizione del mito di Apollo e Dafne, una curiosità: l'episodio è stato oggetto di una delle avventure di Pollon, con un episodio dal titolo Una fidanzata per papà all'interno del secondo volume del manga di Hideo Azuma.
Nel poema ovidiano si passa poi agli amori di Giove e Io (che, superando la poetica definizione in uso nel linguaggio dela tradizione mitologica, andrebbero descritti come la violenza di Giove su Io), ninfa trasformata dallo stesso re degli dèi in una vacca bianca per sottrarla all'ira di Giunone, mai clemente con le amanti dello sposo, anche se tali loro malgrado. Giunone, consapevole della reale natura dell'animale, lo chiede in dono a Giove, il quale non può rifiutarglielo, a meno di non tradire il proprio segreto; la dea pone la vacca sotto la custodia di Argo, gigante dai cento occhi, ma Giove incarica Mercurio, abile divinità del furto, di liberare Io. Mercurio, non potendo affrontare in uno scontro diretto Argo, decide di ammansirlo e di farlo assopire con un racconto, intessendo così la narrazione della metamorfosi della ninfa siringa, come Dafne trasformata in una pianta - un canneto lacustre - per il suo desiderio di sottrarsi alla seduzione di Pan e divenuta poi simbolo del poeta stesso, che dalle canne ha ricavato il suo flauto. Al termine del racconto, Mercurio uccide Argo, del quale, però, Giunone salva gli occhi, ponendoli a ornamento della coda del suo animale sacro, il pavone, mentre Io viene messa in salvo in Egitto, dove, riacquisite sembianze umane (uno dei pochi casi in cui la metamorfosi viene annullata) potrà dare alla luce Epafo, figlio di Giove.

Correggio, Io e Giove (1532)
Ammansita l'ira della dea, subito la sventurata riprese il suo pristino aspeto e la sua perduta personalità. Scivolano via dal corpo le setole, decrescono le corna, si rimpiccioliscono le orbite degli occhi, il muso rientra, ritornano le spalle e le mani di un tempo, lo zoccolo sparisce per dar luogo a cinque unghie. Nulla resta della giovenca se non il candido splendore della sua bellezza. La ninfa si solleva sui due piedi che ormai le bastano per camminare e ha paura di parlare, temendo di muggire ancora come una giovenca; poi timidamente riprova a formulare le parole cui aveva dovuto rinunciare.
[Traduzione dei vv. 738-746 di Giovanna Faranda Villa]
La rappresentazione di maggior successo di questo mito è quella di Correggio, realizzata intorno al 1532 per Federico II Gonzaga, duca di Mantova e oggi inclusa nella collezione pittorica del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Io è ripresa di spalle, mentre viene assalita dalla fitta nebbia addensata da Giove, entro la quale si nasconde il dio stesso, di cui si distinguono appena i tratti del viso.
Solo per il fatto che Epafo sia coetaneo di Fetonte, figlio della ninfa oceanina Climene e del Sole, si passa a introdurre la storia del giovane che verrà sviluppata per tutta la prima metà del secondo libro, offrendo a sua volta spunti per degli spin-off.
La varietà della materia narrativa offre a Ovidio fin da questo primo libro la possibilità di sperimentare le potenzialità del racconto nel racconto (prima facendo narrare a Giove la punizione di Licaone, trasformato in lupo, poi con l'inganno di Argo da parte di Mercurio) e la raffinatezza dell'eziologia, cioè della narrazione delle cause che hanno generato elementi naturali o tradizioni, in questo caso l'origine dell'alloro e dei suoi usi, della siringa di Pan o della coda del pavone. Ovidio attinge in gran parte ancora a materiali greci, ma è abile nel piegare la lingua latina alla molteplicità e alla vivacità del racconto, nel concatenare le storie, nel renderle vivide agli occhi del lettore, che è portato a percepire la pienezza del racconto con tutti i sensi.

Sintesi dei contenuti del libro I delle Metamorfosi:
    vv. 1-4: Proemio
    vv. 5-75: Cosmogonia, separazione della terra, delle acque e del cielo, distribuzione dei venti e delle   stelle
    vv. 76-88: Creazione dell’uomo
    vv. 89-150: Le quattro età dell’uomo
    vv. 151-162: La ribellione dei Giganti
    vv. 163-252: Il concilio degli dèi
        vv. 209-241: La superbia di Licaone e l’empietà degli uomini (racconto di Giove)
    vv. 253-312: Il diluvio
    vv. 313-415: Deucalione e Pirra, rinascita del genere umano
    vv. 416-433: Rigenerazione degli altri esseri viventi
    vv. 434-451: Generazione di Pitone e sua uccisione da parte di Apollo, istituzione dei giochi Pitici
    vv. 452-567: Apollo e Dafne
    vv. 568-750: Io e Giove
    vv. 668-723: Mercurio e Argo
        vv. 689-712: Pan e Siringa (racconto di Mercurio) 
        vv. 720-723: Origine della coda del pavone
    vv. 750-779: Climene e Fetonte

C.M.

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