I libri II-III delle "Metamorfosi"

Il libro I delle Metamorfosi si chiude sulla presentazione di Fetonte e sul suo desiderio di essere riconosciuto come figlio del Sole; il secondo si apre sulla spettacolare porta della reggia del Titano, preziosamente lavorata da Vulcano, alla quale Ovidio dedica un'articolata descrizione, rifacendosi all'arte ellenistica dell'ekphrasis. Il Sole lo attende all'interno, circondato dalle divinità che presiedono alla scansione del tempo, e promette al figlio di esaudire qualsiasi suo desiderio, come prova del loro legame; avendo pronunciato il grande giuramento sulle acque dello Stige, il Sole non può rifiutare a Fetonte la richiesta di un viaggio sul suo carro, ma solo tentare di dissuaderlo.

Giorgio de Chirico, La caduta di Fetonte

Nonostante i pericoli prospettati dal padre, Fetonte è determinato a perseguire il proprio scopo, ma gli basta raggiungere la volta celeste per rendersi conto di aver osato troppo, perché non è in grado di governare i cavalli e di mantenere nel cielo la rotta indicata dal padre. In poco tempo Fetonte si insinua fra le costellazioni, arrivando a bruciare l'aria e poi, nel tentativo di evitarlo, avvicinandosi troppo alla terra, che inizia a desertificarsi e a essere disseminata di incendi. Quando Tellus leva a Giove il suo lamento di dolore, il padre degli dèi fulmina Fetonte, facendolo precipitare nelle acque dell'Eridano. Qui giungono Climene, madre di Fetonte, e le Eliadi, le sue sorelle; queste ultime si struggono di dolore finché i loro corpi non si fasciano di corteccia e i loro arti non si tramutano in rami, generando i pioppi della pianura Padana e, con le loro lacrime, la resina, mentre Cicno, caro amico di Fetonte, si tramuta nell'animale che da lui prenderà il nome, il cigno.

Michelangelo Buonarroti, La caduta di Fetonte (1533 ca.)
Poi a un tratto Fetusa, la maggiore delle sorelle, all'atto di prosternarsi, lamenta una rigidità ai piedi; la splendente Lampezia, tentando di venirle in aiuto, è trattenuta da improvvise radici; una terza, volendo strapparsi i capelli, si trova in mano delle fronde; un'altra ancora s'accorge con dolore che le sue gambe sono inceppate dal legno; un'altra che le sue braccia si convertono in rami. Mentre considerano costernate questi fatti, ecco che la corteccia fascia loro l'inguine e poi a poco a poco il ventre, il petto, le spalle e le mani: resta libero solo il viso con la bocca che invoca la madre. Che cosa può fare costei se non slaciarsi da una parte e dall'altra per baciarle, finché è possibile? Ma non le basta: tenta di strappare i corpi dai tronchi e spezza con le mani i teneri rami: ma ne sgorgano, come da una viva lacerazione, gocce di sangue. Le fanciulle ferite esclamano «Fermati e risparmiaci, madre, ti preghiamo! È il nostro corpo che strazi, spezzando l'albero! Addio, ormai!». E la corteccia copre le bocche che pronunciano queste ultime parole. Da essa continuano a stillare lacrime che il sole rapprende in gocce d'ambra appese ai rami.
[Traduzione dei vv. 346-365 di Giovanna Faranda Villa]
Il mito di Fetonte occupa da solo metà del libro II e gode di una discreta fortuna artistica; è stato scelto come soggetto fra gli altri, da Tintoretto, Gustave Moreau e Giorgio de Chirico, ma si deve a due disegni a carboncino di Michelangelo Buonarroti, realizzati intorno al 1533 per l'amato Tommaso de'Cavalieri e oggi conservati in Inghilterra, la rappresentazione dei tre momenti cruciali del mito: l'intervento di Giove, che, sul dorso dell'aquila, si prepara a scagliare la saetta, nel gruppo centrale Fetonte, il carro e i cavalli che precipitano e, nella parte più bassa, le sorgenti dell'Eridano (raffigurato come un vecchio barbuto che sorregge un'anfora da cui sgorga l'acqua) e il lamento delle Eliadi; in un bozzetto Micheangelo si concentra sulla metamorfosi delle sorelle di Fetonte, nell'altro, su quella, ormai completa, di Cicno.
Il sopralluogo di Giove sulla Terra per riparare ai danni causati da Fetonte è il pretesto con il quale Ovidio si sposta alla narrazione della violenza di Giove sulla ninfa Callisto, della nascita di Arcade e della trasformazione di Callisto in un'orsa e poi della consacrazione della ninfa e del figlio a costellazioni. Seguono alcune narrazioni minori che conducono Ovidio al racconto del mito di Giove ed Europa, la giovane di Tiro che il dio avvicina in forma di un bellissimo toro bianco, per poi trasportarla dall'Asia alla Grecia sul suo dorso. Questo è forse uno dei miti più conosciuti, anche perché costituisce la narrazione eziologica del nome del nostro continente, oltre che di uno dei satelliti di Giove (assieme ad Io, amore del dio narrato nel primo libro, a Callisto e Ganimede) ed è soggetto di molte rappresentazioni.

Gustave Moreau, Europa (1868)

Molto particolare è una delle due tele realizzate da Gustave Moreau nel 1868, nella quale, per rendere evidente la reale natura del toro bianco, l'artista gli attribuisce il volto di Giove. Presente in tutte le rappresentazioni fin dalla ceramografia classica è il volteggiare delle vesti di Europa mentre il toro corre e si inoltra nel mare, un elemento che fin dall'arte rinascimentale permette un lavoro virtuoso sul panneggio e che anche Moreau riprende. Moreau coglie il ratto di Europa nel suo momento iniziale o finale, come si intuisce dal fatto che, a differenza della maggior parte dei dipinti, il dio si sta muovendo sulla terra e il mare si trova sullo sfondo; questa scelta permette a Moreau di soffermarsi sulla descrizione delle piante e in particolare di inserire un limone e un fiore bianco, simboli di purezza e di fedeltà ma anche, se si sta all'interpretazione secondo la quale i frutti d'oro dell'albero delle Esperidi sarebbero dei limoni, un'allusione al matrimonio di Giove con Giunone, in occasione del quale il dio donò la pianta alla sposa; questa interpretazione renderebbe la scena molto più allusiva, sottolineando il tradimento in atto.
La principessa osa sedersi sulla schiena del toro, ignara di chi sia colui che sta cavalcando. È venuto il momento che il dio lasci pian piano la terra e la spiaggia: egli affonda quei piedi che non sono suoi nell'acqua bassa, poi vi si inoltra e porta via la sua preda in mezzo al mare. La fanciulla, piena di timore, si volge indietro a guardare il lido che hanno abbandonato, mentre con una mano si aggrappa ad un corno e con l'altra si appoggia alla schiena del toro. Le vesti le ondeggiano intorno nel fremito del vento.
[Traduzione dei vv. 868-875 di Giovanna Faranda Villa]
Di Europa è fratello Cadmo, inviato dal padre a cercarla; all'inizio del libro III Cadmo giunge in Grecia e si imbatte in una giovenca sacra che l'oracolo di Apollo gli ha ordinato di seguire, in quanto gli avrebbe indicato il luogo in cui fondare la sua terra, cui avrebbe dovuto dare il nome di Beozia; inzia così il racconto delle avventure dei discendenti di Cadmo, fra cui spiccano i miti di Atteone e di Bacco, che proseguiranno anche nel libro IV. A proposito della fondazione di Tebe, Ovidio racconta l'uccisione da parte di Cadmo del gigantesco serpente che aveva assassinato i suoi compagni; per rifondare un nuovo popolo, su consiglio di Minerva, Cadmo pianta nella terra i denti del serpente e vede nascere da quei singolari semi dei guerrieri (episodio che richiama l'impresa di Giasone nelle Argonautiche) che iniziano a combattere fra loro; coloro che escono indenni dalla lotta costituiranno il nuovo nucleo del popolo tebano, ma un vaticinio di Minerva indica che l'atto di Cadmo, responsabile della morte del serpente, lo condannerà a divenire serpente a sua volta.
Nipote di Cadmo è Atteone, colpevole, suo malgrado, di aver scorto, in un momento di pausa dalla caccia, la dea Diana intenta a bagnarsi in un laghetto; adirata per essere stata vista nuda da un mortale e intenzionata a non permettere ad Atteone di poterlo raccontare, la dea lo trasforma in un cervo e a nulla vale la fuga del giovane per la foresta, perché i suoi cani veloci e famelici lo inseguono e, raggiuntolo, lo circondano e lo feriscono a morte.
L'episodio di Atteone è rappresentato in due gruppi scultorei collocati nel giardino della reggia di Caserta, presso la fontana di Diana e Atteone, realizzata da Tommaso e Pietro Solari, Paolo Persico e Angelo Brunelli in marmo di Carrara fra il 1779 e il 1789; nel primo gruppo è raffigurata Diana insieme alle ninfe, mentre il secondo complesso si concentra sulla metamorfosi di Atteone, che ha ancora corpo umano ma testa di cervo e sull'assalto della muta.

Reggia di Caserta, Fontana di Diana e Atteone - particolare (1778-1789)
E mentre gli inondava la chioma, pronunciò queste parole, premonitrici della futura disgrazia: «Adesso che mi hai visto senza veli, raccontalo se lo puoi!». Non disse altro, ma passò subito all'azione e fece sì che sul capo bagnato del malcapitato spuntassero le corna di un longevo cervo, il collo si allargasse, le orecchie si prolungassero aguzze, le mani divenissero piedi, le braccia lunghe gambe e il corpo si ricoprisse di un vello screziato. Gli infuse anche la paura. Prese la fuga l'eroe, figlio di Autonoe, e mentre correva si stupiva di essere tanto veloce. Non appena in uno specchio d'acqua vide riflessi il suo nuovo volto e le corna, avrebbe voluto esclamare: «Me misero!» ma le parole non gli uscirono dalla gola; mandò allora un gemito e quella fu la sua voce, mentre le lagrime scorrevano su quel viso che non era più il suo.
[Traduzione dei vv. 189-203 di Giovanna Faranda Villa]
Segue il racconto della doppia nascita di Bacco dagli amori di Giove e Semele (figlia di Cadmo e Armonia, quindi nipote di Venere), dopo la cui morte Giove avrebbe permesso al feto nel suo grembo di sopravvivere cucito nella sua coscia. Ovidio si sofferma sulle imprese del dio e soprattutto sulla negazione da parte di molti mortali della sua natura divina, che Bacco afferma con violenza, sottoponendo tutti coloro che non accettano di venerarlo ad atroci supplizi; ecco, dunque, che dei marinai vengono tramitati in pesci, le donne di Tebe vengono prese dal furore bacchico e da forme di follia omicida e il re tebano Penteo viene da queste massacrato.
Nel racconto di Bacco si insinuano altri due racconti, uno interno all'altro: quello di Tiresia, che ha vissuto una parte della sua vita come donna dopo aver separato due serpenti che si accoppiavano e che, punito da Giunone con la cecità per aver rivelato i segreti femminili, riceve però da Giove il dono della preveggenza, e quello di Eco e Narciso, inserito nel primo come il compimento di una delle profezie dell'indovino. Tiresia, infatti, profetizza alla madre di Narciso che lui morirà se conoscerà se stesso. Di qui il racconto del giovane che, rifuggendo l'amore, offende qualsiasi fanciulla aspiri a diventare sua sposa, in particolare Eco, da lui duramente respinta e destinata a consumare il proprio corpo nel dolore, rimanendo solo una voce che replica altre voci. Narciso si specchia nelle acque di un laghetto e arde per l'immagine riflessa di una passione che non si estingue nemmeno quando il giovane realizza che quello che vede non è che lui stesso: condannato a struggersi per il dolore, Narciso si dissolve e laddove era il suo corpo sorgono i fiori che da lui prendono il nome.

John William Waterhouse, Eco e Narciso (1903)
Senza saperlo si innamora di sé e si applaude; è contemporaneamente soggetto e oggetto del desiderio, accende il fuoco e ne è arso. Quanti baci vani dà alla fonte! Quante volte immerge nell'acqua le braccia per cingere quello che gli appare: ma non riesce ad allacciarlo. Non sa chi sia quello che vede, ma brucia per lui ed è quella falsa immagine che eccita i suoi occhi. Ingenuo, perché ti affanni a cercar di afferrare un'ombra che ti sfugge? Non esiste quello che cerchi! Voltati, e perderai chi ami! Quello che vedi non è che un tenue riflesso: non ha alcuna consistenza. E viene con te, resta con te, se ne andrà con te, ammesso che tu riesca ad andartene!
[Traduzione dei vv. 425-434 di Giovanna Faranda Villa]
Se l'immagine più nota del mito è quella di Caravaggio, che concentra l'attenzione esclusivamente sul protagonista del mito, isolandolo anche attraverso l'oscurità che circonda la sua figura e il riflesso appena visibile nello specchio d'acqua sotto di essa, tuttavia quella più completa, che comprende anche la figura di Eco (anche se, nel racconto ovidiano, è già ridotta a voce quando Narciso scorge la propria immagine nell'acqua), è quella di John William Waterhouse (1903), che anticipa anche l'esito della metamorfosi, collocando intorno allo specchio d'acqua su cui si protendono Narciso e la ninfa dei fiori gialli.
Dopo questa digressione su Tiresia, Eco e Narciso, si torna alla vicenda principale, rispetto alla quale appaiono poco legati, che riguarda la divinità di Bacco e la ritrosia di alcuni personaggi ad accettarla e a venerare il figlio di Giove: è questo il motivo che ci traghetta dal libro III al libro IV.

Sintesi dei contenuti del libro II delle Metamorfosi:
    vv. 1-332: Fetonte e il carro del Sole
    vv. 333-400: Dolore per la morte di Fetonte
        vv. 333-366: Le Eliadi trasformate in pioppi
        vv. 367-380: Cicno
        vv. 381-400: Sofferenza del Sole
    vv. 401-535: Amori di Giove e Callisto
        vv. 466-535: Le costellazioni dell’Orsa
    vv. 536-632: Gli amori di Apollo e Coronide, origine del piumaggio nero del corvo
        vv. 547-596: Erittonio, la cornacchia e Nictimene (racconti di Cornix)
    vv. 633-679: Ociroe, Chirone e Asclepio
    vv. 676-707: Mercurio e Batto
    vv. 708-835: Mercurio ed Erse, Atena e Aglauro
    vv. 836-875: Amori di Giove ed Europa

Sintesi dei contenuti del libro III delle Metamorfosi:
    vv. 1-130: Cadmo e la fondazione di Tebe
    vv. 131-259: Diana e Atteone
    vv. 259-315: Giove, Semele e la nascita di Bacco
    vv. 316-338: L’indovino Tiresia
    vv. 339-510: Eco e Narciso
    vv. 511-733: Bacco e Penteo

C.M.

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