Segnalibri #1

Leggo la data dell'ultimo post e mi accorgo che è passato più di un mese da quando l'ho scritto: un periodo che, non a caso, coincide con la ripresa della scuola, quest'anno più impegnativa che mai perché, oltre ad aver nuovamente cambiato istituto (una scelta sofferta, ma sostenuta dalla possibilità di avvicinarmi a casa e di tornare in un ambiente che ha lasciato un ricordo positivo), barcamenarsi fra le misure di sicurezza sanitaria, i piani per la didattica digitale integrata e l'orario più provvisorio che mai è una sfida non da poco, che si affronta solo con la consapevolezza che questo impegno maggiore è il compromesso per tornare a insegnare e apprendere nella scuola.
Anche la lettura ha subito un forte rallentamento: il progetto della maratona delle Metamorfosi, che non sono riuscita a contenere nell'estate, procede ac singhiozzo, nel frattempo un libro brevissimo che in condizioni normali avrei fagocitato in due giorni si è trascinato così a lungo che ho dovuto ad un certo punto ricominciarlo e si infine è posta le necessità di riprendere un romanzo che mi rimase indigesto il primo anno di liceo e che ora si è a malapena fatto accettare.
 
 
Prendendo atto che questo genere di situazione potrebbe verificarsi di nuovo, ho deciso di ritagliare nel blog uno spazio per le recensioni pizzicate, pillole di riflessioni sulle ultime letture, da riproporre ogniqualvolta non abbia il tempo o il trasporto necessari a confezionare post dedicati ai singoli libri. Insomma, ci sono testi così potenti che si appropriano prepotentemente di ampi spazi, altri che, pur non tenendo il passo, a volte schiacciati dalla prossimità di altre letture più azzeccate, non meritano però di essere abbandonati nell'oblio. Del resto il blog rimane sempre prima di tutto un diario di letture, quel taccuino virtuale che mi permette di orientarmi fra i libri e le giornate in cui sono stati presenti.

La prima recensione-lampo è quella di Va tutto bene, signor Field, firmato da Katharine Kialea ed edito da Fazi nella traduzione di Silvia Castoldi. Il romanzo ha per protagonista un pianista poco motivato che, dopo un incidente ferroviario che gli ha provocato importanti fratture in una mano, decide di investire il cospicuo risarcimento nell'acquisto di una casa a Città del Capo: non una casa qualunque, ma una copia esatta di Villa Savoye di Le Corbusier. Qui il signor Field viene raggiunto dalla compagna Mim, che, però, per quasi tutta la narrazione è poco più che la proiezione di un ricordo, dal momento che le prime pagine si aprono proprio con la partenza della donna, un mattino presto. Assalito da un tedio che non gli permette né di suonare né di godersi la straordinaria residenza, il signor Field passa le giornate in preda alla sonnolenza, a osservare e ascoltare i lavori di costruzione di edifici avveniristici, a smontare, più o meno volontariamente, le grandiose vetrate e, da un certo punto in avanti, a pedinare Hannah Kallenbach, la moglie dell'architetto che ha progettato la sua casa. Va tutto bene, signor Field è una storia dominata da un profondo senso di solitudine e di abbandono, che, tuttavia, si risolve con una situazione che sembra essere suggerita da alcuni indizi disseminati nel romanzo, nella nascita di una singolare amicizia; tuttavia il taglio quasi unicamente riflessivo mi ha reso difficile mantenere il controllo degli avvenimenti (di qui la necessità di riprendere la lettura dall'inizio quando ormai ero arrivata oltre la metà), mentre la totale assenza di empatia nei confronti del protagonista mi ha probabilmente estromessa dal suo animo e, quindi, dalla possibilità di comprenderlo fino in fondo.

Al secondo libro ho scelto di dedicare una recensione breve perché affrontarla è già un'impresa grama, come sempre accade quando ci si trova di fronte ad un classico osannato da tutti che, però, non si è riusciti ad apprezzare pienamente. Il libro in questione è La peste di Albert Camus (1947), rilanciato in quest'anno di pandemia come tutte le narrazioni incentrate su morbi potenzialmente mortali e divenuto oggetto di un percorso didattico condiviso nella mia scuola. Mi sono detta che, forse, questa sarebbe stata l'occasione di rivalutare un testo che da alunna mi era stato imposto senza alcuna motivazione o spiegazione, semplicemente come un romanzo di cui un liceale non poteva fare a meno; era il primo anno di liceo e ancora non ho capito perché allora fosse tanto importante che noi leggessimo quel testo (o perché leggere quello fosse più importante che leggerne tanti altri), considerando che non gli è mai stato dedicato un momento di riflessione. Dunque ora, dall'altro lato della cattedra, è arrivata la seconda occasione con Camus e il giudizio è lievemente migliorato, perché, se non altro, ora, con la testa di diciassette anni più matura, ho colto il senso dell'opera, che, a ben guardare, con un morbo in senso medico ha poco a che fare.
La storia è facilmente riassumibile: nell'anno 194... la città algerina di Orano è presa d'assalto da un'epidemia di peste che, dapprima non riconosciuta, inizia a mietere vittime molto velocemente; si rende necessario l'isolamento totale della città e, con esso, si rompono tanti legami affettivi, mentre si organizzano ospedali, cimiteri, soccorsi, campagne profilattiche. Il protagonista, il dottor Bernard Rieux, è fra i primi a entrare in contatto col morbo e a spendersi per aiutare i concittadini; a lui si uniscono il dottor Castel, l'unico ad avere esperienze pregresse di terapie contro la peste, Raymond Rambert, che, inizialmente intenzionato a sfuggire all'isolamento per tornare dalla donna amata, rinuncia alla sua unica occasione per essere d'aiuto, e Jean Tarrou, ai cui taccuini si deve la ricostruzione, da parte del narratore, delle vicende dell'anno di peste e che incarna il vero significato della lotta alla malattia, mostrando anche la direzione della lettura allegorica del romanzo, peraltro preannunciata dalla citazione di Daniel Defoe posta in epigrafe al testo.
La peste, infatti, è una riflessione sul male, sui comportamenti che gli esseri umani adottano di fronte ad esso, chi assecondandolo, chi rinunciando ad opporsi, chi approfittandone, chi contrastandolo con ogni forza: dalle parole di Tarrou si evince che tutti sono portatori di peste, tutti potenzialmente fanno del male al prossimo, ma che ciascuno può esercitare la scelta di sottrarsi a questa sorta di istinto, di cercare di evitare il contagio e di curare invece la malattia, schierandosi con le vittime. La storia costruita da Albert Camus è anche un richiamo ad un male ben specifico, quello della dittatura nazista e dell'occupazione della Francia, e nella lotta di Rieux, Rambert e Tarrou si coglie lo spirito della Resistenza.
Letto in questo modo, il romanzo mi è risultato decisamente più incisivo rispetto a quanto mi era parso alla prima lettura, durante la quale non potevo cogliere altro che il senso letterale e, quindi, comprendere poco di una vicenda che si esaurisce così come prende avvio, repentinamente e senza troppe informazioni di contorno. Tuttavia il giudizio non mi porta verso una totale rivalutazione, perché la rilettura è stata molto impegnativa (e impegnativa in un periodo già di per sé non facile), complice una traduzione decisamente vecchia, che, però, ho saputo essere stata superata nel 2017.
 
Si chiude qui il primo appuntamento con le recensioni in pillole. Spero di poter dedicare più tempo, più energia e più entusiasmo alle prossime letture e il fatto che sul comodino abbia l'ultimo romanzo di Elizabeth Jane Howard mi fa ben sperare.

C.M.

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