L'italiano, questo sconosciuto

Il 25 giugno scorso sul sito di Treccani è comparso un interessante articolo a firma di Marco Brando, dal titolo Non solo strafalcioni. Competenza linguistica e studenti universitari. L'autore fornisce una rassegna di alcune considerazioni di ambito accademico sul livello e sulla complessità delle abilità di comunicazione degli studenti italiani negli atenei del nostro Paese, emersa dall'esame di prove scritte (emblematico il caso del test per le matricole proposto alla facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università del Molise, consistente nella richiesta di elaborare un riassunto) e degli abstract delle tesi di laurea.
Gli studi, che sono confluiti in articoli specialistici prodotti da diversi professori, rivelano o, per meglio dire, confermano una situazione allarmante dello stato delle competenze linguistiche degli studenti italofoni, che manifestano scarsa capacità di utilizzo e riconoscimento del lessico, mancanza di informazioni culturali di base che dovrebbero supportare la comprensione del testo, difficoltà nell'utilizzo della consecutio temporum, nella sintesi di informazioni e nella distinzione dei diversi registri linguistici, con la conseguente intrusione di espressioni del parlato o addirittura del gergo e delle varianti regionali in situazioni comunicative formali.
Il quadro diventa addirittura grottesco se si considera che dal confronto elaborato da Rosa Pugliese e Paolo della Putta le competenze testuali degli allievi stranieri in Erasmus in Italia (per i quali l'italiano è L2) sono risultate migliori rispetto a quelle degli universitari italiani.
Il problema è, come si diceva, annoso, ma il passare del tempo non ne attenua la gravità, anzi, la rende sempre maggiore, almeno per due ragioni. Innanzitutto una comparazione come quella appena riportata evidenzia lo scarto che esiste fra i non italofoni, svantaggiati nella padronanza linguistica eppure più precisi nello studio dell'italiano, rispetto a coloro che dovrebbero possedere una competenza corrispondente al livello C2, che richiede non soltanto correttezza ma anche scioltezza, capacità di argomentazione, sintesi e rielaborazione, oltre che conoscenze extralinguistiche che supportano sempre l'atto comunicativo e si rendono indispensabili quando la comunicazione riguarda argomenti complessi. In secondo luogo l'enorme sviluppo dell'editoria e soprattutto delle risorse online per l'approfondimento, il confronto e lo scambio testuale avrebbero dovuto favorire tutti quei processi di miglioramento delle capacità linguistiche, ma sembra aver prodotto in realtà una regressione, facendo risultare l'atto comunicativo, in quanto immediato, anche sommario, superficiale, sempre più simile a slogan e hashtag.
L'impoverimento linguistico, inoltre, ha enormi ripercussioni su quello cognitivo, perché tanto più il bagaglio lessicale e la capacità di arricchire e strutturare un'esposizione e un'argomentazione sono curati, tanto più facile sarà comprendere le sfaccettature di un fenomeno e intervenire in modo efficace e consapevole in una conversazione. Questa marcia in più, beninteso, non è limitata all'ambito accademico, agli studi specialistici o al livello tecnico-professionale della comunicazione, ma si esplica anche nell'interazione e nell'accesso all'informazione della quotidianità.
Tutti gli errori di cui rendono conto gli studi citati da Brando si riscontrano anche a scuola, in quel gruppo di studenti che risulta più vicino al campione esaminato, cioè coloro che frequentano la scuola secondaria di secondo grado, in particolare il secondo biennio e il quinto anno. Spesso, anche in presenza conoscenze di buon livello, le competenze comunicative risultano carenti, con una serie di difetti che vanno dall'imprecisione allo strafalcione e dal refuso all'errore, anche grave. 
Questo aspetto della preparazione complessiva è talvolta sottovalutato, sebbene sia parte integrante della valutazione di ogni disciplina (la competenza nella lingua di scolarizzazione è, come molte altre, trasversale), e non è facile far comprendere agli studenti quanto sia importante. Sarà capitato a tutti gli insegnanti di ricevere una contestazione o uno sfogo amaro di un alunno certo di aver risposto ad ogni domanda, dovendo di conseguenza spiegare che non conta solo dare una risposta ma anche formularla nel modo corretto da un punto di vista grammaticale e strutturale, riconoscendo anche la gerarchia delle informazioni. D'altro canto c'è la percezione che l'italiano sia, nel processo di apprendimento scolastico, una sorta di sottofondo, una disciplina di serie B, meno importante rispetto ad altre considerate più complesse, come se un allievo italofono dovesse d'ufficio essere valutato positivamente in italiano e non dare prova di conoscere bene la propria lingua anche nell'ambito delle altre materie di studio.
Fra le cause individuate alla base di questo degrado della comunicazione degli studenti italofoni (quindi dei cittadini) c'è, secondo i docenti Pugliese e della Putta, la «scarsa dimestichezza che gli studenti italiani hanno con gli esami scritti, molto più praticati, come tipologia valutativa, in altri Paesi» e in effetti la scarsa familiarità con il testo scritto incide notevolmente sulla capacità di esprimersi correttamente. Non solo gli studenti italiani scrivono poco, ma sono poco avvezzi anche alla lettura di libri e articoli di giornale, alla quale preferiscono forme più rapide e meno complesse di comunicazione.
La questione si fa tanto più pressante proprio in queste settimane, durante le quali si è affacciata e sta prendendo sempre più vigore l'ipotesi, ventilata dallo stesso ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, di riformare l'Esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione secondo la formula che è stata imposta negli ultimi due anni scolastici. La prospettiva è allarmante, perché, se è vero che l'eliminazione della terza prova scritta ha sacrificato solo una verifica di conoscenze effettuabile anche in sede di colloquio e comunque portata avanti per tutto l'anno scolastico, abolire la prima e la seconda prova significa rinunciare a valutare su prove nazionali le competenze degli allievi, operazione per la quale le richieste sostitutive (l'elaborato concernente le discipline di indirizzo, predisposto anticipatamente, e l'analisi di un testo, selezionato in un elenco noto fra quelli esaminati in corso d'anno) non sono del tutto adeguate. È infatti risaputo che negli ultimi due anni le valutazioni sono state mediamente più alte rispetto a quelle degli anni precedenti: l'assenza degli scritti, considerati a ragione prove più rigorose e complesse, ha fatto la differenza.
Considerando il quadro dell'esame delle competenze linguistiche fornito nell'articolo di Treccani è evidente che ciò di cui gli studenti hanno bisogno è confrontarsi proprio con le prove scritte, essere formati anche a proposito dell'importanza cruciale che ha il livello della loro comunicazione, che non può essere davvero corretta ed esaustiva se manca delle abilità di base. L'eliminazione prova di italiano dell'Esame di Stato sarebbe un segnale del tutto contrario.
Un ultimo aspetto preso in esame da Marco Brando è quello delle possibili soluzioni, che devono essere «strutturali, concrete e fattibili» e che non possono prescindere dalla presa di coscienza che un intervento su studenti universitari ma anche della scuola secondaria di secondo grado sarebbe tardivo e inutile, se non accompagnato da un lavoro costante negli anni precedenti, fin dalla prima scolarizzazione, che è già estremamente difficile e delicata. 
Va però considerato un ultimo fattore, importantissimo nell'educazione linguistica come nella formazione culturale di ciascun individuo, cioè il cosiddetto apprendimento informale. Siamo abituati a considerare la scuola come il luogo in cui si acquisiscono conoscenze, abilità e competenze: è qui che ci viene insegnata la comunicazione corretta e ci aspettiamo che esercizi di lettura e scrittura siano sufficienti a farci maturare una piena consapevolezza linguistica, ma questa visione, nel 2021, risulta limitata. I contesti di apprendimento sono molteplici e nella quotidianità extrascolastica numerose esperienze possono consolidare e affinare o, per contro, indebolire o addirittura vanificare gli apprendimenti formali. Esattamente come nella pratica di uno sport è inutile dedicarsi a ore e ore di allenamento in palestra o in campo se poi si hanno abitudini alimentari e uno stile di vita che intacca o annienta i risultati, così nell'apprendimento della lingua essere esposti, fuori dalla scuola, esclusivamente a forme di comunicazione gergali, scorrette, superficiali o non sostenere le abilità acquisite a scuola con letture o interazioni di registro più sostenuto può avere effetti deleteri.
Le soluzioni, dunque, devono essere complesse e pervasive quanto lo è il problema emerso dagli studi presentati. Si può e si deve intervenire, ma senza aspettarsi che la scuola possa, da sola, ribaltare la situazione, senza misure socio-culturali di più ampio respiro. E di certo non è questo il momento di decretare con l'abolizione della prova di italiano dell'Esame di Stato la totale inutilità delle competenze di comunicazione.


C.M.

Commenti

  1. Penso che noi siamo state le ultime generazioni a rientrare in quegli anni dove le scuole elementari italiane erano le migliori a livello europeo ed è un peccato che oggi non sia più così. Si dava ai giovani alunni una cultura e una educazione robusta, soprattutto i cui insegnamenti ti accompagnavano nel tempo e i voti buoni dovevi anche guadagnarteli. Attualmente invece si sopperisce ad un alto abbandono scolastico (peggiorato!) con una facilitazione nel percorso di studi, in fatto di esami e voti. Conosco una ragazza che fa l'insegnante e mi ha riferito che ha visto i 5 trasformati in 8 a fine anno... Contenta di rileggerti Cristina!

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    1. Purtroppo nella scuola si è diffuso un buonismo derivante in parte, come scrivi, dal tentativo di "trattenere" gli alunni a scuola (ma che senso ha un titolo, se svuotato del suo profilo di competenza?), dall'altro da un desiderio, con basi ammirevoli ma messo in pratica in modo goffo e inefficace, di evitare l'ansia e la frustrazione generate dalle richieste scolastiche (con l'effetto opposto di non preparare alle difficoltà che emergeranno nelle fasi successive di studio, nel lavoro e nella vita in generale). Aggiungiamo il terrore di molti Dirigenti (per fortuna non tutti) che vogliono evitare fughe di iscritti in altri istituti e la diffusione della nomea di "scuola difficile", un atteggiamento che talvolta si traduce in aperta sfida o minaccia ai docenti affinché non votino la non ammissione, anche quando, nei primi anni di scuola, le carenze sono facilmente recuperabili con un solo anno in più. Il problema, appunto, è complesso: per questo occorrono interventi sistematici e anche le recenti polemiche sulle prove INVALSI sono disancorate dalle ragioni profonde del quadro emerso. Grazie di essere passata a confrontarti sull'argomento, a presto. :)

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