L'Agnese va a morire - Renata Viganò

Quando si pensa alla letteratura della Resistenza, alla memoria emergono i nomi di Beppe Fenoglio, Primo Levi, Cesare Pavese, Elio Vittorini e Italo Calvino, che hanno firmato alcuni testi, alcuni narrativi, altri di memorie, altri ancora sospesi fra le due dimensioni, cruciali per comprendere questo grande movimento, la sua eccezionalità, il suo essere stato un fenomeno di popolo in una sanguinosa guerra civile, oltre che mondiale.
Difficilmente si pensa alla testimonianza di Renata Viganò, come o più di alcuni suoi colleghi protagonista della lotta partigiana eppure costantemente esclusa dal dibattito e, purtroppo, anche dalle antologie scolastiche. Eppure l'autrice, che si distinse nelle Valli di Comacchio come infermiera e staffetta partigiana delle brigate garibaldine, ha scritto un travolgente romanzo che, oltre ad aver conquistato il Premio Viareggio, ha ottenuto un grande successo internazionale. L'Agnese va a morire (1949) è una appassionante, dura, impietosa e potente testimonianza della Resistenza, del suo versante umano, del dolore della perdita e del sacrificio che essa ha portato con sé, un romanzo che non solo attinge all'esperienza diretta di Renata Viganò, ma che ha come perno una figura ispirata ad una donna da lei incontrata dopo la cattura del marito da parte delle SS e che da subito le promise l'aiuto dei compagni. Il coraggio di questa donna, la sua risolutezza, la sua gatta, il suo gesto sono il coraggio, la risolutezza, la gatta e il gesto di Agnese.
 

La sera veniva giù fresca sull'umidità scura della campagna, la prima di tutte le sere senza Palita. Il mondo sembrava un altro, nuovo, estraneo, dove lei non avrebbe più lavorato: le diventava inutile la sua vecchia forza di contadina. Ma non malediceva il ragazzo disperso che cercava la via di casa, né si rammaricava di averlo aiutato. Lui non aveva colpa: soffriva la guerra, aveva fame e sonno, era giusto dargli da mangiare e da dormire. Nasceva invece in lei un odio adulto, composto ma spietato, verso i tedeschi che facevano da padroni, verso i fascisti servi, nemici essi stessi fra loro, e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica, inermi, indifese.

All'indomani dell'armistizio dell'8 settembre l'Italia è terreno di occupazione e saccheggio da parte dei Tedeschi, che spadroneggiano, minacciano, invadono le case, indagano e distruggono. In un non precisato villaggio delle Valli di Comacchio, l'Agnese lavora come lavandaia, ma ha la sfortuna di dividere il cortile con una famiglia di collaborazionisti, sicché l'aiuto che, pur in gran segreto, lei e il marito Palita offrono ad un disertore tedesco, non passa inosservato. Palita viene catturato e caricato su un treno diretto a nord, la sua gatta viene uccisa per una sciocca ripicca da un soldato e Agnese, ormai indurita dalla perdita, uccide il soldato che le ha tolto l'ultimo conforto a lei rimasto ed è quindi costretta alla fuga. La accoglie una brigata di partigiani asserragliata in mezzo al fiume e l'Agnese, che ha già familiarità col ruolo di staffetta, diventa la mamma di tutti i combattenti: si preoccupa di preparare loro da mangiare, di tenere in ordine i rifugi, di mettere in salvo le scorte, di organizzare il contrabbando di armi ed esplosivi. L'Agnese non ha nulla da perdere, affronta con ostinazione il suo compito, anche quando non si sente all'altezza delle enormi responsabilità che le vengono affidate. Sa di avere un ruolo nell'importante lotta per il riscatto, sa di appartenere ad una famiglia verso la quale ha dei doveri e dei legami tanto forti da aver sostituito quelli violentemente recisi dal nemico; ma è consapevole anche della violenza che le si agita nell'animo, delle conseguenze della battaglia sua e dei compagni, dell'eco dei rastrellamenti. 
Mentre l'Agnese esegue con puntualità e devozione gli ordini del Comandante, il lettore partecipa alle sortite del suo gruppo partigiano, ai pericoli enormi che attraversa, ai rischi che i bombardamenti alleati comportanto per i combattenti, talvolta ostacolati e minacciati più dall'aviazione anglo-americana che dalle bande di Tedeschi. L'azione penetra nei villaggi della valle, nelle paludi, tra le fitte nebbie e le acque ghiacciate, fra le zanzare e la giunchiglia, sugli argini del fiume e fra le macerie di case e fattorie, in un crescendo di tensione al quale si accompagna l'aspettativa della Liberazione, sempre più prossima eppure troppo lontana.

L'Agnese diceva sempre sì, sì con la testa, ma le pareva, ad ogni parola, che le buttassero sulle spalle un gran peso. Era difficile, complicato, il lavoro che avrebbe dovuto fare; non arrivava a persuadersi come mai il Comandante lo desse proprio a lei, un tale carico di responsabilità, la direzione di tanta gente. Si sentiva orgogliosa e impaurita, ma decisa a metterci l'anima per riuscire, sicura che non si sarebbe sbagliata, pensandoci giorno e notte.

L'Agnese va a morire è una testimonianza potente, è molto più che un romanzo. Trasmette tutta l'urgenza del racconto, la smania di raccontare che Calvino, nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, riconosce come fondamento dell'esperienza narrativa del Neorealismo. La storia dell'Agnese - di questa figura che con l'incorporamento dell'articolo al nome diventa così familiare e cara - è la storia di tante donne italiane, di tante anime indurite dal dolore e dalla fatica eppure votate ad una causa più grande: i suoi piedi deformati, il suo fisico sfatto, la sua schiena dolorante sono le cicatrici di una vita che sarà spesa fino all'ultimo per gli altri.  
L'Agnese va a morire, però, non è un romanzo eroico e mai nella narrativa della Resistenza si avvertono queste note: quella dell'Agnese è la vicenda di una persona comune che si unisce a quella di tante altre persone comuni costrette a fuggire, a nascondersi, ad accogliere la violenza come strumento di salvataggio e di liberazione, con l'unico movente di abbracciare una pace che appare talvolta impossibile. L'Agnese non è tanto l'adepta di una causa politica, il partito di cui tanto sente parlare è qualcosa che rimane estraneo a lei, non è una combattente agguerrita, ma una madre che soffre e si sacrifica per la sua famiglia, una famiglia unita da un ideale, dalla paura, dal coraggio, che è per lei sempre presente e alla quale l'Agnese non fa mancare mai un contributo.
Il romanzo di Renata Viganò, al quale è auspicabile che si unisca una riedizione dell'ormai introvabile raccolta Matrimonio in brigata, è una tappa irrinunciabile nel percorso narrativo della Resistenza, un efficace documento storico e umano, una storia che, a differenza di altre, ispira un legame di affetto e partecipazione sincerta alla sorte della sua protagonista, che giustamente Sebastiano Vassalli, nella sua introduzione, ha definito una presenza titanica.

Aveva ragione l'Agnese. «Quello che c'è da fare, si fa». Lei era abituata a contare poco sugli altri. Da tutta la sua vita, più di cinquant'anni, si arrangiava da sola. Si sentiva un po'stanca, le pareva che il cuore fosse diventato troppo grande, una macchina nel petto, una cosa estranea e meccanica che andava per suo conto, e lei faticava a portarla in giro. Non pensava mai a quello che avrebbe fatto dopo la guerra. Ne desiderava la fine per «quei ragazzi», che non morisse più nessuno, che tornassero a casa. Ma lei non aveva più la casa, non aveva più Palita, non sapeva dove andare.

C.M.

Commenti

  1. Ho amato profondamente questo libro, lo trovai bello e doloroso al punto di trovare sempre difficile rileggerlo. Trovo davvero strano che le voci femminili della Resistenza siano così ai lati, considerando che qui in Italia una delle due caratteristiche principali che la separano da quella delle altre nazioni è appunto la grande partecipazione delle donne. E mi fa anche sentire vecchia, perché quanto sono cambiati i programmi delle scuole? A me lo fecero legger al liceo D:

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    1. I programmi non sono cambiati, ma sta ai docenti individuare quei temi, qui testi e quegli autori che li possano integrare degnamente. Nelle indicazioni (che ormai andrebbero a mio avviso riviste) non compare il nome di alcuna autrice, scegliere la Viganò in luogo di altri rimane una scelta. Io alle mie future quinte lo assegnerò, anche perché si impara più storia con romanzi forti e intrisi di vissuto come questo che con un qualsiasi manuale.

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  2. Ammetto di aver trascurato tanta letteratura italiana del Novecento. Questa tua descrizione e le citazioni riportate mi fanno invece arrivare il desiderio di conoscere questa storia, che nello stile mi ricorda quella immediatezza con cui Levi descrisse le proprie esperienze in Se questo è un uomo.

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    1. Ha qualcosa dell'ineluttabile di Levi, sicuramente quanto a potenza comunicativa non è secondo a nessun memoriale e a nessun altro romanzo sulla Resistenza. Credo che questa lettura ti possa conquistare, te la consiglio.

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  3. Cara Cristina,
    ho acquistato di recente L’Agnese va a morire ed è sicuramente uno dei titoli che leggerò quest’anno.
    Condivido completamente la tua risposta al commento di Katerina: si impara più da romanzi forti che da manuali di storia. Verissimo. Quindi, ti prego, continua a insegnare ai tuoi ragazzi con passione e in modo critico! Mi vien da piangere quando ascolto certi discorsi di tuoi colleghi che, davvero, non meriterebbero di svolgere una professione che richiede dedizione e consapevolezza.
    Ma fino a quando ci sono insegnanti come te (e spero siate la maggioranza), c’è ancora speranza.
    Un caro abbraccio.

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    1. La maggioranza dei docenti è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo per innovare la didattica, per rompere gli schemi, per mettere al centro del processo di istruzione lo studente e le sue capacità, almeno questo è quello che ho visto nelle comunità scolastiche in cui ho lavorato. Sono fiduciosa, come lo sono verso gli studenti, che, quanto a letture (ma non solo), mi danno sempre nuovi stimoli: anche stamattina sono tornata con il desiderio di procurarmi un nuovo libro in seguito ad uno scambio con alcuni di loro!
      Restituisco l'abbraccio e attendo un tuo parere sull'Agnese.

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