Sminuire il lavoro altrui: un comportamento di tendenza?

Scorrendo pigramente le pagine dei social network, mi sono imbattuta in due interventi che, se non mi hanno lasciata stupita (e di cosa ci si soprende, ormai?), hanno perlomeno smosso qualcosa, un misto fra amarezza e indignazione. Il primo è un post pubblicato su Facebook da Rosella Postorino, autrice de Le assaggiatrici, un libro che è da un bel po'in giacenza nella mia lista dei desideri e che forse ha determinato l'attenzione che ho riservato alle parole della scrittrice. Lo riporto quasi nella sua interezza:

La gente pensa che scrivere sia mettersi davanti al mare, a un lago, a un fiume, a un campo fiorito, e aspettare l’ispirazione. Davvero lo pensa, a me lo dice di continuo.
Se tu dici, disperata: non mi funziona internet e devo finire il mio libro, la gente pensa che non ti serva internet, meglio così, se no ti distrai (io mi distraggo? Io?), perché tutto ciò che ti serve è l’ispirazione. Non pensa che puoi guardare 7 video in cui delle galline mangiano per scrivere una sola pagina de Le assaggiatrici in cui Rosa dà loro da mangiare e fa una serie di riflessioni che esulano dalle galline e riguardano gli esseri umani, le relazioni tra esseri umani. Quella pagina non puoi deciderla prima, la decidi MENTRE stai scrivendo, perché è una associazione che si produce lì per lì, e allora tu ti alzi, prendi Clarice Lispector, quel racconto su una gallina letto 20 anni fa, lo rileggi, poi apri internet, cerchi le galline, le osservi a lungo, senti parlare degli allevatori, prendi appunti su un quaderno, scopri persino che possono mangiare le loro stesse uova deposte, e questa notizia ti accende un’idea narrativa di qualche riga. Qualche riga.
Se tu dici faccio la parrucchiera e non c’è acqua in negozio, la gente comprende subito che sarà difficile fare una piega, un taglio, un colore, una acconciatura, una piastra, una permanente. Perché per la gente la parrucchiera è un lavoro, la scrittura, in fondo, no. La gente non immagina nemmeno quanto studio ci sia dietro un romanzo. Quanti testi di storia, filosofia, psicologia, psicanalisi, antropologia, politica, quanti articoli di giornale, quanti romanzi, quante poesie si leggano, con quanta gente si parli, per scrivere un romanzo.

Il secondo post che mi ha invitata a interrompere lo scroll infinito su Instagram è stato quello dell'editor Clarissa Neri, che, nel promovere i servizi che offre, sottolinea le competenze necessarie per il suo lavoro; è parte del post un Reel in cui si immagina questo dialogo con un anonimo:

D: Che lavoro fai?
R: Faccio l'editor, mi occupo di...
D: Ah, ma quindi leggi e basta! Che lavoro è?

Il lavoro letterario, nella fase di creazione del libro e di preparazione dello stesso alla pubblicazione, è un lavoro a tutti gli effetti e non credo serva esservi impegnati in prima persona per comprenderlo: basta leggere un romanzo, un saggio o qualsiasi altro testo per rendersi conto che simili prodotti non si improvvisano, che non spuntano dal nulla sugli scaffali delle librerie. A peggiorare la situazione c'è anche l'abitudine a non riconoscere la professionalità da parte di alcune imprese editoriali (penso ai traduttori, non sempre trattati come parte del processo di realizzazione del libro, ma anche alle presunte case editrici che fanno pagare gli autori che affidano a loro i propri manoscritti), ma questo è un altro argomento, così spinoso e specifico che non oso addentrarmi fra le sue pieghe.
 
 
Potremmo allargare la riflessione ad altre professioni esterne al mondo dei libri, anzi, scommetto che tutti vi imbattete spesso in discussioni, più facilmente online, nelle quali questo o quel lavoro viene bollato come facile o addirittura inutile e, quindi, chi lo svolge è additato come un fannullone o un miracolato. Tantissime persone pensano che nei lavori che non conoscono e di cui vedono solo la facciata, la classica punta dell'iceberg, non occorrano competenza, dedizione, impegno e sacrificio. Spesso ne scaturisce anche l'idea altrettanto errata che siano professioni strapagate e che chi le svolge sia davvero un privilegiato cui è capitata fra le mani la gallina dalle uova d'oro. Di conseguenza, una lamentela o un momento di stanchezza non vengono tollerati e danno luogo a insulti e inviti a stare zitti.
Penso al mio stesso lavoro: la communis opinio afferma che gli insegnanti lavorino quattro o cinque ore al giorno e che godano di tre mesi di vacanze estive. Lezioni, compiti in classe, documenti e riunioni non si vedono e ciò che non si vede è automaticamente classificato come inesistente. La stanchezza non è ammessa, perché la fatica è solo millantata. Questo, in sintesi, è ciò che io e i miei colleghi sentiamo dire quasi ogni giorno.
Aggiungo anche il disgusto che mi coglie quando leggo attacchi gratuiti a chi si impegna nella divulgazione e nella condivisione della cultura e che viene regolarmente sminuito, provocato, quando non addirittura insultato. Penso, ad esempio, a Maria Galatea Vaglio, insegnante e scrittrice che seguo sempre volentieri per la sua capacità di spiegare la storia, in particolare quella antica, con un linguaggio antiaccademico, fruibile da tutti, ma i cui post sono regolarmente seguiti da diversi commenti, misti a quelli (fortunatamente più numerosi) di chi manifesta interesse per i contenuti, di navigatori che la accusano di superficialità, di non citare le fonti, di non aver approfondito questo, di aver dato troppa importanza a quest'altro, di non aver parlato di quell'altro particolare ancora, per arrivare talvolta alle offese. Non si capisce dall'alto di quale preparazione costoro intervengano e spesso basta guardare l'uso della lingua italiana e la loro incapacità di apportare informazioni documentate alternative per rendersi conto che non c'è l'intenzione di sostenere un confronto ma il puro gusto di rompere le scatole. A rendere addirittura grottesco il tutto c'è il fatto che sui social network si decide di seguire o non seguire una persona: infilarsi fra i follower solo per criticare e offendere è una scelta che davvero non riesco a spiegarmi.
Se penso, poi, che anche la recente scomparsa di Piero Angela ha scatenato i commenti (rari, isolati, ma ci sono stati) di chi non ha potuto esimersi dallo sminuire o addirittura ridicolizzare colui che ha massimamente contribuito alla diffusione della cultura umanistica e scientifica in forme alla portata di tutti, mi prende uno sconforto senza fine. 
Ma perché tutto questo bisogno di esprimere giudizi di questo tipo? Cosa spinge molti di coloro che non riescono a comprendere o ad apprezzare il lavoro altrui a lanciarsi in sprezzanti risposte, provocazioni, dileggi e offese gratuite anziché ignorarlo e dedicarsi a qualcosa che susciti il loro apprezzamento? Sottolineo che mi sto riferendo ad attività strettamente culturali, come la scrittura, il lavoro editoriale, la divulgazione storica, non a questioni sociali e politiche su cui tenersi informati e voler intervenire anche col dissenso è legittimo, purché - questa condizione è imprescindibile - lo si faccia con rispetto. Sto parlando dell'intromissione gratuita, quella da troll, per capirci, che non fa altro che rovinare attività e dibattiti che non nocciono a nessuno e fanno bene a molti, ma anche, uscendo dal mare magnum dei social network, ai giudizi non richiesti, alle frecciatine o alle cattiverie elargite senza un minimo di considerazione per l'altro.
Alla base di questo comportamento, che investe tantissime professioni, a ben guardare non solo quelle intellettuali (pensiamo a chi lamenta il costo di un prodotto artigianale, realizzato a mano, paragonandolo ad uno realizzato in serie), mi sembra che ci sia una diffusa incapacità di accettare che per il nostro prossimo una passione possa diventare un lavoro, che qualcun altro possa svolgere la propria attività con passione, che dalla sua attività tragga appagamento, visibilità e un guadagno. Non so se sia più una questione di vedute limitate, di frustrazione o di invidia. Forse di buon tempo. O forse il sostrato è un insieme di tutto questo.
Voi cosa ne pensate? Vi siete mai trovati nella spiacevole situazione di dover difendere la vostra professionalità di fronte a chi proprio non poteva sapere nulla del vostro lavoro? Come avete reagito?
 
C.M.

Commenti

  1. Io penso che, in generale, meno una persona ha esperienza di o ha a che fare con quello che è differente da sé, più non è interessata né riesce a concepire o comprendere una realtà diversa dalla propria. Ciò vale anche in ambito lavorativo. In questo caso alla radice dello sminuire il lavoro altrui c'è l'ignoranza. Un'ignoranza che può essere più o meno candida — "innocente", anche se non è un termine che mi piace usare — a seconda dei casi.

    Naturalmente c'è anche chi sminuisce il lavoro degli altri per cattiveria o per sconfiggere la noia.

    Per quanto mi riguarda, sì, ho avuto a che fare con persone che sminuivano il mio lavoro. Per lo più si trattava degli ignoranti di cui sopra, quindi non me la sono presa eccessivamente a male.

    Scritto ciò, credo che in Italia questo atteggiameto sia molto più evidente che nel Regno Unito o in Irlanda, dove lavoravo, quindi è normale che per me sia stato relativamente semplice lasciare correre.

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    1. Anch'io ho imparato a non prendermela, come per tanti altri comportamenti che, come te, attribuisco all'ignoranza. Quello che più mi dà fastidio è che chi evidentemente non sa debba quasi necessariamente, direi ontologicamente, avere la bocca più larga o il dito più veloce e non possa starsene zitto. Io neanche mi sogno di intervenire in questioni delle quali so poco o nulla, men che meno giudicherei un lavoro che non ho mai svolto. Su alcune cose magari sono scettica, ma sospendo il mio giudizio e mi concentro su ciò che mi interessa o mi dà maggiore soddisfazione approfondire. Il tempo è troppo poco per sprecarlo a denigrare gli altri.

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  2. In generale penso che i social abbiano realmente dato voce a chiunque e di conseguenza viene fuori anche il marcio. Mi è capitato spesso di pensare che, anzi, proprio troll e webeti abbiano il gusto di scrivere sempre, mentre la parte sana dei fruitori della rete social spesso si astiene dal commentare. Io stessa non commento quasi mai nulla, lo faccio raramente perché sento che il confronto vero non c'è, sento che è qualcosa di dispersivo e inutile e non voglio perdere tempo. Il problema di scrittori ed editor ritenuti fannulloni, per non dire di noi prof come hai giustamente puntualizzato (ahi, categoria vessata da falsità), esula dai social, fa parte di un background culturale. Perfino in famiglia ho persone che ignorano volutamente tutto ciò che faccio perché ritenuto hobbistica e non prendono granché in considerazione il mio mestiere.

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    1. Sì, ma vedi, Luz, io in queste situazioni mi trovo, con grande imbarazzo, a chiedermi fino a che punto possiamo giustificare con la libertà di espressione la fiera del pettegolezzo, della falsità, della calunnia. Realizzare che, di fronte a certe ondate di ottusità, l'unica cosa che mi verrebbe da dire è un accorato "vaffa" (perché nessuna argomentazione seria e coerente verrebbe ascoltata), mi fa percepire il vuoto che si è creato nello scambio comunicativo. Alla fine, per quanto possiamo decidere di ignorare questo vergognoso brusio, si alimentano false opinioni comuni, delle vere e proprie fake news e la scelta di astenersi dalla polemica, che anch'io adotto sistematicamente proprio per non cadere nella barbarie, mi porta a pormi tante domande. Quest'anno a scuola, con la mia seconda, dovrò occuparmi di cittadinanza digitale e mi concentrerò sulla facilità con cui i social network trasformano una sciocchezza partorita dal singolo in un enorme danno collettivo, ingiganendo una dinamica che, certo, è sempre esistita nella rete sociale reale, ma che nel mondo virtuale sembra non poter essere arginata da alcuno strumento culturale, proprio perché, come dici tu, il confronto non esiste.

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    2. Sì, questo è un problema non da poco. Il diffondere falsità e alimentare l'odio è una piaga immensa, ma anche un'onda che sarebbe impossibile fermare. Torno però sul "chi". Se guardiamo a un qualsiasi post su un tema attuale o perfino leggero, di cinema, ecc., sono proprio le schiere supportate da superficialità e ignoranza a farla da padrone. Ossia tendo a pensare che un certo tipo di fruitore con un livello culturale basso, quel tipo substrato sociale, si faccia avanti facilmente e scriva. Vero è che anche sotto i post di scrittori e scrittrici, commentati evidentemente da gente che legge, con una cultura medio-alta, si leggono amenità di ogni tipo. L'orda barbarica del commento facile secondo me non si può arginare. È pur vero che i giovani che cerchiamo di educare saranno i futuri adulti, e ci si aspetterebbe che quello che seminiamo oggi sia proficuo domani. Ma ahimè non sono così ottimista. Noi comunque continuiamo a seminare.

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    3. Spes ultima dea. Ma il pensiero che l'ignoranza di quando non c'erano i mezzi per liberarsene sia stata sostituita da una incredibile ignoranza di ritorno che esiste nonostante quei mezzi non stimola l'ottimismo.

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