J'accuse: Zola denuncia l'Affare Dreyfus

Centosedici anni fa, il 13 gennaio del 1898, le pagine de L'Aurore vibravano dell'indignazione di Émile Zola, esponente di punta della letteratura naturalista. Teorizzatore del principio dello scrittore-cronista della realtà, Zola assolse tale compito non solo come romanziere, ma anche come giornalista: il suo pezzo più importante in tal senso è sicuramente J'accuse, atto di denuncia nei confronti dello Stato maggiore francese, del tribunale militare e del Ministero della guerra, accusati di distorsione di una vicenda giudiziaria e di conseguente corruzione in una vicenda che rivela una catena di colpe pesantemente influenzate dal dilagante antisemitismo.


L'Affaire Dreyfus affonda le radici nella guerra franco-prussiana del 1870-1871. Nel corso del conflitto, un ufficiale francese avrebbe venduto al nemico delle informazioni riservate sugli armamenti e sulla dislocazione delle truppe; a più di vent'anni di distanza dai fatti, nel 1894, i servizi segreti francesi ricevettero un documento (noto come bordereau) nel quale veniva svelato il passaggio di informazioni. In seguito alla sola perizia calligrafica e sulla base di prove che successivamente si sarebbero rivelate «mezzi cari al romanzo d'appendice» (così le definisce Zola) e di testimonianze manipolate, venne incolpato l'ufficiale ebreo Alfred Dreyfus, che divenne vittima di una strategia intimidatoria finalizzata unicamente alla salvaguardia dell'immagine dell'esercito francese e diretta non solo dai membri dell'esercito, ma anche dal ministro della guerra, il generale Mercier. Il 5 gennaio 1895, dopo la degradazione, Alfred Dreyfus fu condannato all'ergastolo e ai lavori forzati sull'isola del Diavolo. Lo scandalo, tuttavia, scoppiò l'anno successivo, quando il colonnello Picquart intercettò una comunicazione fra von Scwartzkoppen (colui che aveva ricevuto il bordereau) e il maggiore Esterhazy, il vero colpevole del tradimento.

La degradazione di Alfred Dreyfus (1895)

Perché, nonostante l'individuazione del responsabile dei delitti imputati a Dreyfus, al momento della revisione del processo, nel 1898, la condanna dell'ex ufficiale non venne annullata, ma solo ridotta e si dovettero attendere il 1899 per la concessione della grazia e, addirittura, il 1906 per l'assoluzione e la reintegrazione dell'imputato? Tutte le risposte ci vengono offerte proprio da Zola, nella sua lettera aperta al presidente francese Félix Faure, passata alla storia con il titolo dell'editoriale cui l'autore volle affidarla: J'accuse.
Secondo Zola, con la condanna di Dreyfus la Francia si era inflitta una «sozzura», una «macchia vergognosa e incancellabile» che si sarebbe inevitabilmente ripercossa sul suo presidente, perché, pur non essendo Faure direttamente implicato nella vicenda, lo erano i vertici dell'apparato militare che si erano impegnati per gonfiare i sospetti, fornire false documentazioni e per consolidare il castello di accuse ai danni di Dreyfus, ideale capro espiatorio della vicenda in quanto ebreo, in un contesto dominato dal fanatismo clericale. L'intera vicenda si configurava per lo scrittore come «schiaffo supremo a qualsiasi verità, a qualsiasi giustizia».
Prima di arrivare a formulare ufficialmente la propria accusa, Zola espone l'andamento dell'inchiesta e la successione delle sue manipolazioni, affermando «È mio dovere parlare, non intendo rendermi complice. Le mie notti sarebbero ossessionate dallo spettro dell'innocente che espia laggiù, con la tortura più orribile, un crimine che non ha commesso». Ed ecco che, nel resoconto dell'autore, emergono le reali colpe, i mascheramenti, gli intrighi degni dei romanzi tanto in voga nel XIX secolo, i depistaggi, le modalità con cui Picquart venne allontanato dalla Francia per mantenere il silenzio e quelle con cui, per contro, si difese ad ogni costo Esterhazy, che, curiosamente, è un antisemita (è Zola stesso a sottolineare questo dato).

«Mi limito a dichiarare che il comandante du Paty de Clam, incaricato di istruire il caso Dreyfus come ufficiale giudiziario, è, in ordine di date e di responsabilità, il primo colpevole del tremendo errore giudiziario che è stato commesso[…] è lui che inventa Dreyfus, il caso diventa il suo caso, egli si dice sicuro di confondere il traditore, di indurlo a rendere piena confessione. C'è anche il ministro della Guerra, generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c'è il capo dello Stato maggiore, generale de Boisdeffre, che sembra abbia ceduto al suo fanatismo clericale, e il vicecapo dello Stato maggiore, generale Gonse, la cui coscienza si è adattata facilmente a una quantità di cose. […]. All'inizio, da parte loro vi è stata soltanto incuria e mancanza d'intelligenza. Tutt'al più, si ha l'impressione che abbiano ceduto al fanatismo religioso dell'ambiente e ai pregiudizi dello spirito di corpo. Hanno lasciato commettere una bestialità».

A sottolineare l'assurdità dell'accanimento nei confronti di Dreyfus e la palese intenzione di mascherare le reali responsabilità, Zola descrive le misure straordinarie prese per allontanare il processo dall'opinione pubblica:

«Ma ecco Dreyfus davanti al tribunale militare. Si esige nel modo più assoluto che l'udienza sia a porte chiuse. Neppure se un traditore avesse aperto le frontiere al nemico, per condurre l'Imperatore tedesco fino a Notre Dame, si sarebbero prese misure di silenzio e di mistero così rigorose. La nazione è allibita per lo stupore; sente voci di fatti terribili, di tradimenti mostruosi, tali da indignare la storia; e, naturalmente, s'inchina. Non c'è castigo che le sembri abbastanza severo, applaude alla degradazione pubblica, approva che il colpevole resti sulla sua rupe d'infamia, divorato dai rimorsi. Sono vere le cose indicibili, pericolose, capaci di mettere in fiamme l'Europa, che è stato necessario seppellire con cura dietro quelle porte chiuse? Macché! dietro quelle porte, c'era soltanto la fantasia romanzesca e demente del comandante da Paty de Clam. Tanta messinscena al solo scopo di nascondere un assurdo romanzo d'appendice».

Alfred Dreyfus

L'Affaire Dreyfus è considerato, per la sua straordinaria risonanza, uno dei momenti fondamentali per comprendere l'evoluzione storica del fenomeno dell'antisemitismo: accusare e condannare un ipotetico traditore risultò molto facile per coloro che potevano sfruttare gli antichi pregiudizi a carico degli Ebrei e far così leva sulla cattiva condotta dell'ex ufficiale:

«Ecco, Signor presidente, i fatti che spiegano come si sia potuto commettere un errore giudiziario; e le prove morali, le condizioni patrimoniali di Dreyfus, l'assenza di moventi, il suo continuo grido d'innocenza non fanno che mostrarcelo come una vittima della straordinaria fantasia del comandante du Paty de Clam, dell'ambiente clericale in cui questi si muove, della caccia agli "sporchi ebrei" che disonora la nostra epoca».

Ma quale sentimento si agitava nel profondo, quale reale interesse nel protrarre la finzione per due gradi di giudizio? Zola non manifesta dubbi al riguardo: anche una volta chiarita la verità, lo Stato maggiore non poteva smascherare se stesso e rivelarsi falso e incapace di perseguire i reali responsabili. Sarebbero emersi meccanismi di corruzione, sarebbe crollato un intero sistema di potere... non restava altro da fare che trasformare l'incompetenza iniziale in crimine, perseguitando senza scrupoli un innocente che si sapeva essere tale:

«L'inchiesta del tenente colonnello Picquart era approdata a questa constatazione certa. L'ansia, tuttavia, era grande, poiché la condanna di Esterhazy traeva con sé inevitabilmente la revisione del processo Dreyfus; e questo, lo Stato maggiore voleva evitarlo a qualsiasi costo.
[…] È un anno, ormai, che il generale Billot, che i generali de Boisdeffre e Gonse sanno che Dreyfus è innocente e hanno serbato per sé questa spaventosa realtà![…] Egli non può tornare innocente senza che l'intero Stato maggiore sia colpevole. Così quegli uffici, con tutti i mezzi immaginabili, con le campagne di stampa, le comunicazioni, l'ascendente personale, hanno coperto Esterhazy solo e unicamente per perdere una seconda volta Dreyfus. Che repulisti dovrebbe fare il governo repubblicano in questo covo di gesuiti, come lo stesso generale Billot li definisce! Dov'è il ministero veramente forte e di un saggio patriottismo che oserà fare piazza pulita e rinnovare tutto? Quanta gente conosco che, al pensiero di una possibile guerra, trema d'angoscia sapendo in quali mani è la difesa nazionale! e che nido di bassi intrighi, di pettegolezzi e di dilapidazioni è divenuto quel dannato manicomio in cui si decidono le sorti della patria! C'è da tremare al pensiero della luce orribile che vi ha appena gettato il caso Dreyfus, vero sacrificio umano di un infelice, di uno "sporco ebreo"! Ah! che cosa non si agitava là dentro di demenza e di idiozia, di fantasie assurde, di pratiche di bassa polizia, di comportamenti da inquisizione, da tirannide, e tutto perché pochi gallonati potessero mettersi sotto gli stivali la nazione, cacciandole in gola la sua invocazione di verità e di giustizia col pretesto menzognero e sacrilego della ragion di stato!»
Émile Zola ritratto da Manet

La straordinaria conclusione della lettera ci presenta la stretta compenetrazione che si crea fra l'autore e la sua inchiesta, fra lo scrittore e la verità. In quel 13 gennaio 1898, Zola gridava la necessità di fare luce sulla vicenda di Dreyfus e sulle reali responsabilità, ben sapendo di incorrere, col suo J'accuse, in pesanti sanzioni che, infatti, non tardarono ad arrivare:

«La verità è in cammino e niente potrà fermarla. Il caso comincia soltanto oggi, poiché oggi soltanto le posizioni sono nette: da una parte, i colpevoli i quali non vogliono che si faccia luce; dall'altra, i giustizieri i quali daranno la vita perché luce sia fatta. Del resto, l'ho detto, e lo ripeto: quando la verità viene rinchiusa sotto terra, vi si ammassa, acquista una forza d'esplosione tale che, quando scoppia, tutto salta in aria. Poi vedremo se non è vero che si sono create le premesse di un'esplosione che, quando avverrà, sarà totale. [...]
Nel muovere queste accuse, non ignoro affatto di incorrere negli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce i reati di diffamazione. E v'incorro per mia precisa volontà.
Quanto alle persone che accuso, non le conosco, non le ho mai viste, non ho contro di loro né rancore né odio. Per me sono soltanto delle identità, degli spiriti di malvagità sociale. E l'atto che qui io compio altro non è che un mezzo rivoluzionario per affrettare l'esplosione della verità e della giustizia.
Sono mosso da un'unica passione, che si faccia luce, in nome dell'umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia infiammata protesta è soltanto il grido della mia anima. Osino pure, perciò, tradurmi in Corte d'assise, e che l'inchiesta si svolga sotto gli occhi di tutti!»

C.M.

NOTE: Il testo completo dell'articolo è leggibile in traduzione italiana su Gnosis online.

Commenti

  1. Fantastico! Uno degli scritti di Zola che volevo leggere da sempre. A suo tempo mi aveva colpito molto il modo di scagliarsi dello scrittore a favore di una persona fiaccata da ingiustizie. E deve aver colpito anche molti altri, al punto che l'espressione J'accuse è rimasta nel nostro vocabolario di uso comune.

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    1. Deve aver davvero colpito nel segno, è un documento storico, politico e sociale insieme. Credo che l'intervento di Zola sancisca il lancio ufficiale e sensazionale del giornalismo di inchiesta, che va alla ricerca della verità e non si fa piegare dal potere, né si accontenta di spiegazioni sommarie o luoghi comuni.

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