I due spari che cambiarono il mondo

Il 1914 è forse il vero spartiacque fra il XIX e il XX secolo, in quanto punto di fine di un'epoca, di tutto ciò che essa ha rappresentato, dell'idea del progresso dominante nell'Ottocento, dell'escursione alla conquista dei diritti e del miglioramento socio-economico, della consapevolezza stessa di un percorso di incivilimento dell'uomo tanto cara agli idealisti e ai positivisti. Non a caso Eric Hobsbawm fa iniziare il Novecento, da lui notoriamente definito «secolo breve», proprio il 28 giugno 1914, il giorno dell'assassinio dell'arciduca d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e di sua moglie a Sarajevo, per chiuderlo idealmente lo stesso giorno del 1992, con il discorso di Mitterand contenente l'auspicio alla pace nei Balcani e significativamente pronunciato nella città simbolo dell'inizio della Grande Guerra. Hobsbawm cita il collega David Singer quando afferma che «il 1914 inaugura l'età dei massacri»(E. Hobsbawm, Il secolo breve, p. 36.)


Oggi, nel centenario dell'inizio di uno dei periodi più sconvolgenti della storia dell'umanità, una riflessione è doverosa.
I due spari usciti dalla pistola dell'irredentista bosniaco Gavrilo Princip cambiarono davvero il mondo, furono in realtà due enormi bombe che polverizzarono qualsiasi strumento diplomatico.
La tensione politica, ideologica e tecnologica era troppo elevata per un'analisi lucida e razionale della situazione e ciò che avvenne fra il 1914 e il 1918 non ha eguali nella storia dell'uomo, per questo, ancora oggi, si usa palare del primo conflitto mondiale come di Grande Guerra. Il solo motivo per cui la seconda Guerra mondiale, pur più sanguinosa e ancor più vasta, con un numero di vittime civili enorme e operazioni più frenetiche, non si è vista attribuire tale definizione risiede, secondo Hobsbawm, nella convinzione, implicita già negli accordi di Versailles, che essa non fosse altro che la continuazione della prima.
Che cosa c'era, dunque, dietro alla repentina evoluzione degli avvenimenti dallo sparo di Princip ad una dichiarazione di guerra che non rimase contenuta entro il territorio per cui i proiettili erano stati messi in canna, ma si espanse a tutta l'Europa, all'Asia e all'Africa? Non c'era solo il desiderio di indipendenza degli Slavi affrancati dall'Impero ottomano e recalcitranti a sottomettersi a quello asburgico, non c'era solo il sostegno russo alla Serbia antiaustriaca, non c'era solo l'umiliazione subita dalla Francia a Sedan ad opera della Germania che proprio nella sua Versailles aveva fondato il secondo Reich. C'era tutto questo e molto altro.


Fu così che, al rifiuto serbo dell'ultimatum seguirono, come una catena rumorosa improvvisamente svolta, la dichiarazione di guerra da parte dell'Austria, la mobilitazione delle truppe russe, l'intimazione della Germania (alleata dal 1882 con l'Austria nella Triplice) di ritiro dell'esercito zarista, l'intervento dei Francesi, alleati della Russia, ma, soprattutto desiderosi di rivincita e degli Inglesi, parte a loro volta dell'Intesa con Francia e Russia. L'Italia, come noto, si sarebbe schierata quasi un anno dopo, attardandosi in un lungo dibattito fra pacifisti e interventisti e sui possibili vantaggi del rispetto o della violazione della Triplice, ma tessendo fin dall'inizio trattative segrete con i futuri alleati; allo stesso modo, non immediata fu l'adesione al conflitto dell'Impero ottomano, che sarebbe uscito disintegrato dalla sua fedeltà ad Austria e Germania, e degli Stati Uniti, che avrebbero invece sostituito la Russia, costretta alla rapida e svantaggiosa pace di Brest-Litovsk dal sopraggiungere della Rivoluzione (1917).


Tre furono i principali fronti di terra: quello occidentale, lungo il quale si confrontarono, dopo lo svanire del miraggio della guerra-lampo inseguito da Schlieffen, Francia e Germania, quello orientale, dove premeva la Russia e, infine, quello meridionale, dove un esercito italiano disorientato, privo di guide competenti e imbottito di una retorica imbarazzante (che ben si nota leggendo le testimonianze di guerra di Emilio Lussu, Erich Maria Remarque e Andreas Latzko) e lottava per completare l'unificazione nazionale. Ma la guerra si combatté anche nei cieli e nei mari e sotto di essi, soprattutto fra Germania e Inghilterra.
La Grande Guerra uccise, secondo stime complessive e per ovvie ragioni non precise, oltre 8 milioni di persone e produsse 20 milioni di feriti e mutilati. Non fu solo un'immensa carneficina, ma anche una castrazione umana per i disturbi psicologici e il crollo demografico che provocò, in termini non solo di morti, ma anche di non-nati. Essa vide l'impiego del progresso tecnologico al servizio della morte, della «scienza esatta persuasa allo sterminio» (per usare le parole scritte in Uomo del mio tempo da S. Quasimodo in riferimento alla guerra del 1939-1945), fu il concretizzarsi mortale della massificazione avviata dallo sviluppo industriale e le sue stesse conclusioni - quelle che furono chiamati «trattati di pace» - costituirono le fondamenta di un nuovo, terribile conflitto.

«Se qualcuno dei grandi ministri o diplomatici del passato [...] si fosse levato dalla tomba per osservare la prima guerra mondiale, si sarebbe certamente chiesto perché degli statisti intelligenti non avessero deciso di trovare una soluzione di compromesso ai conflitti internazionali, prima che la guerra distruggesse il mondo. [...] Perché, dunque, la prima guerra mondiale fu condotta [...] come una guerra che poteva essere totalmente vinta o interamente perduta? La ragione fu che questa guerra, diversamente dalle precedenti, che erano condotte per obiettivi limitati e specifici, aveva come posta scopi illimitati. Nell'età degli imperi, la politica e l'economia si erano fuse. La rivalità politica internazionale si modellava sulla crescita e sulla competizione economiche, ma la caratteristica di questi processi era per l'appunto la loro illimitatezza.» (E. Hobsbawm, Op. cit., p. 42).

C.M.

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