L'Expo dei paradossi mascherati da buoni propositi

Sì, lo so, non è bello che gli Italiani remino contro le iniziative in cui l'Italia è protagonista, ma questa storia dell'Expo a me proprio non va giù. Una manifestazione globale con un tema altrettanto esteso, ma, come al solito, avvolta in una nebulosa di inefficienza, retorica e controsensi. E si dimentica sempre che l'Italia, potenzialmente, ha tutte le carte in regola per essere sempre in vetrina, grazie alle eccellenze del suo artigianato, del settore enogastronomico e della cultura storico-artistica. Nel caso di Expo2015, possiamo affermare che il nostro Paese è davvero il più adatto a far da cornice ad un evento incentrato sull'alimentazione, essendo l'Italia sinonimo di dieta equilibrata e prodotti genuini.
Peccato, però, che anche in questo caso ci exponiamo al mondo con tutte le nostre storture, dalle tangenti e infiltrazioni mafiose all'incapacità di portare a termine i lavori nei tempi previsti, dallo sbando della comunicazione dell'evento (vedi la genialata di Verybello) alla presenza, come sponsor ufficiali e partner, delle solite multinazionali. 


Ora, pur essendo, come tanti altri, una persona del tutto calata nel contesto globale e consumatrice, in molti casi, dei prodotti in questione, giusto qualche controsenso da rilevare ci sarebbe, quantomeno per l'imbarazzante coincidenza dell'apertura di Expo2015 (con tutto il peso del suo tema) con la Festa dei Lavoratori. Sì, perché le multinazionali, le grandi aziende globali che l'evento che si apre domani celebra, alla faccia dei buoi propositi della Carta di Milano, non sono esattamente le più sensibili alle tematiche dello sviluppo sostenibile e di una sana ed equilibrata idea del lavoro. L'era globale ci ha consegnato un modello di impiego in cui il lavoratore è ridotto ad un numero, ad un anonimo esecutore figlio di una massificazione totale: è il nuovo Taylorismo. D'altro canto, l'azienda transnazionale è, per eccellenza, la realtà che più di tutte insegue la riduzione delle spese per la massimizzazione del profitto, arrivando, in molti casi, a fornirci oggetti di uso comune (tecnologie, abbigliamento, accessori e anche alimentari) che hanno un costo per noi vantaggioso perché prodotti attraverso l'aggiramento delle norme sull'inquinamento e sulla tutela del diritto al lavoro in condizioni umane e sicure. Non è un mistero: le grandi aziende delocalizzano per produrre a costi più vantaggiosi, laddove non esistono tutele minime per i lavoratori e vincoli ambientali. E cala l'occupazione nei Paesi sviluppati, dove i lavoratori sono accusati dai grandi manager di avanzare troppe pretese in meriti di contrattualistica e stipendio. Insomma, per essere competitivi, i lavoratori italiani dovrebbero essere disposti a lavorare nelle condizioni in cui si lavora nei Paesi meta delle industrie delocalizzate. E, in parallelo, muore l'eccellenza artigianale o delle piccole e medie realtà locali.
La premessa del mercato globale, è, nelle sue linee teoriche, perfetta: una compresenza di prodotti conformi a determinati criteri di qualità (che, quindi, dovrebbero avere una base di partenza comune) che il consumatore può preferire in base alla convenienza. Peccato che quei "determinati criteri di qualità", che sulla carta comprendono eque condizioni per chi li realizza, il rispetto di norme ambientali e l'utilizzo di materie prime sane, non siano, di fatto, rispettati. Quindi il mercato globale è una realtà dominata da poche eminenze che smerciano oggetti e alimenti di pessima qualità facendo un'agile gimkana fra le regole, approfittando della disponibilità di Paesi e burocrati disposti ad ignorare i protocolli internazionali.
La Carta di Milano, poi, è l'ennesimo documento destinato a cadere nel vuoto, come tutti gli altri protocolli destinati a risolvere, dagli anni '70 a questa parte, il problema dello sviluppo sostenibile. Il mondo globalizzato ha già tutto quanto serve per attuare le belle parole di cui i governi si riempiono la bocca, ma questi ultimi sono costantemente disposti a scendere a patti con i soliti noti per la tutela degli interessi finanziari di pochi a scapito del benessere e della salute di gran parte del mondo. Quella di "Sviluppo sostenibile" è una definizione che affonda le basi nel concetto di uguaglianza intergenerazionale (o sincronica) e transgenerazionale (o diacronica): hanno diritto ad eque, salutari e dignitose condizioni di vita, in termine di igiene, alimentazione, lavoro, diritti sociali e civili, disponibilità di energia tutti coloro che vivono sul Pianeta in un determinato momento o in epoche successive. In altre parole, il lavoro per la sostenibilità spinge in direzione dell'estensione dei diritti e nella più equilibrata distribuzione delle risorse (intese in ogni loro accezione): un'operazione che cozza violentemente con gli interessi degli attuali detentori della ricchezza e i plutocrati che anche di Expo2015 fanno la loro personalissima vetrina.
Ecco perché sono scettica di fronte all'esaltazione di tutta questa modernità costruita su modelli di produzione di livello preistorico. E comunque, mi auguro che sia, per i visitatori, un'occasione di arricchimento capace di dare un senso ad una sfilata di interessi economici senza fine.
Approfitto di questo intervento per anticipare gli auguri di una buona Festa del Lavoro a chi ha la fortuna di avere un impiego, a chi lo sta cercando, a chi lo ha perso, ma anche a tutte le persone comuni che in Expo e negli eventi connessi hanno trovato un'occupazione, rendendo questa manifestazione l'occasione anche dei veri lavoratori.

C.M.

Commenti

  1. Sottoscrivo ogni singola parola e personalmente non andrei all'Expo nemmeno se mi regalassero i biglietti!

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    1. Il problema non è neanche la partecipazione, che comunque riguarda una manifestazione mondiale e che dà agli Italiani la possibilità di esserne protagonisti, ma tutto questo "sottobosco" di interessi e di vani proclami...

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