Nel compleanno dello "Scudiero dei Classici"

Il 27 luglio 1835, esattamente centottanta anni fa, nasceva Giosuè Carducci, primo autore italiano a vincere il premio Nobel per la letteratura (1906). Poeta capace di sostenere i toni delle più dure invettive e il ripiegamento malinconico e sofferto, di ergersi a paladino della tradizione e di esaltare la modernità, Carducci ebbe un ruolo importantissimo nella cultura italiana della seconda metà dell'Ottocento e si dimostrò capace di grandi evoluzioni. 
 
Alessandro Milesi, Ritratto di Giosuè Carducci (1906)
 
In giovane età Carducci fu profondamente influenzato dal paesaggio della Maremma e dagli studi classici, per amore dei quali fondò addirittura un piccolo gruppo culturale detto degli Amici pedanti, in prima linea nella lotta al Romanticismo e alle mode esterofile nella letteratura italiana; è la fase della raccolta Juvenilia ("poesie giovanili"). Con l'Unità d'Italia divenne esponente di una tendenza repubblicana e giacobina che lo portò a scontrarsi con la Chiesa e con la monarchia e a scrivere dure invettive pubblicate poi nelle raccolte Levia Gravia e Giambi ed epodi, quest'ultima echeggiante la produzione dei poeti giambici greci e del loro importatore latino Orazio. La vis polemica carducciana si spense nel giro di un decennio, quando, nel 1971, la morte del figlioletto Dante inaugurò una fase di intimità malinconica dalla quale scaturirono le Rime nuove e le Odi barbare, poesie di ispirazione autobiografica caratterizzate da temi come la fuga nel tempo felice della giovinezza, nel paesaggio amato della Maremma o nel passato grandioso delle civiltà classiche. In questa fase di classicismo moderno (poiché i toni lirici stabiliscono un forte legame col sentire personale più profondo dell'autore) nascono le poesie più note e più suggestive di Carducci, che, dagli anni '90, si volgerà invece alla celebrazione dell'Italia umbertina, diventandone il vate.
Per la ricorrenza odierna ho scelto una poesia che aiuta a capire come la dura lotta dello Scudiero dei Classici (come egli amava dichiararsi), negli anni successivi alla crisi del 1871 si sia trasformata in un nobile rimpianto dell'antichità: nei versi delle Odi barbare, come in quelli delle Rime nuove, Carducci non si affloscia in un lamento dolciastro, che lo avrebbe fatto assimilare a quel Romanticismo esausto tanto deprecato in gioventù, ma produce una poesia delle rovine che trasuda lo splendore del passato. Versi come quelli di Nella piazza di San Petronio o de Il comune rustico sono chiari segnali di un amore del passato che non si è spento e che, pur piegato ad un'elegia, porta con sé la grande lezione delle imprese antiche. Tale compianto si incontra anche nell'ode Dinanzi alle terme di Caracalla (1877), che Carducci scrisse di ritorno da un viaggio a Roma.

Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve.

A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.

Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch'a più ardua sfida
levansi enormi.

"Vecchi giganti, - par che insista irato
l'augure stormo - a che tentare il cielo?"
Grave per l'aure vien da Laterano
suon di campane.

Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco,
nume presente.

Se ti fur cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, dal reclinato
capo de i figli:

se ti fu cara su 'l Palazio eccelso
l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l'evandrio colle, e veleggiando a sera
tra 'l Campidoglio

e l'Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);

Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose;
religioso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.

Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
a l'Appia via.

La vista delle monumentali rovine delle terme di Carcalla diventa in questi versi il simbolo del passato glorioso di Roma oggi dimenticato, come se non fosse un'eredità comune agli uomini, un vanto di cui esser fieri. Le architetture sopravvissute alla furia del tempo e degli uomini si ergono verso il cielo, come ad imporre la loro nobiltà, ma cade su di esse la sconfitta, rappresentata dai corvi, uccelli neri fra le nubi che, rinfrescando nella memoria di ogni lettore e scolaro quelli di San Martino, rappresentano la malinconia che serpeggia nell'animo: inutile che quei costoni si slancino verso l'alto, il passato che essi vogliono evocare è morto. E ce lo fa capire bene il contadino che passa accanto alle vestigia imperiali senza degnarle di uno sguardo, capace di ignorare un timore reverenziale. Per questo Carducci invoca una morìa contro gli uomini contemporanei, profanatori delle antiche glorie, incapaci di rispettare Roma, regina di un passato che oggi se ne sta dimenticata e soffre come se fosse inchiodata ad un crocifisso.
L'indifferenza dei contemporanei nei confronti del passato e la conseguente vanità della poesia delle rovine sono temi che ci toccano da vicino, eppure il vigore che Carducci manifesta nell'evocare la Febbre come una Furia capace di simboleggiare ancora la presenza degli antichi dèi e degli alti valori che in loro onore gli uomini rispettavano è segno di un ripiegamento che mantiene una forte dignità, del baluginare dello spirito dello Scudiero dei Classici nonostante i tempi avversi in cui egli visse. «Un’epoca a cui non sembrasse valer più la pena di occuparsi del passato esprimerebbe in tal modo la sua disperazione» avrebbe dichiarato qualche anno dopo Hugo von Hoffmanstall, e Carducci, in questi versi, lotta contro la disperazione con il suo "religioso orror", la cui legittimità è evidenziata dalla collocazione dell'aggettivo in apertura al v. 35. Lo Scudiero qui è stanco, ma non sconfitto; egli è animato dallo stesso spirito che spingeva i pittori del Settecento a realizzare i capricci colmi di rovine e materiali archeologici: cantare le vestigia di una civiltà caduta e rifiutata non è un segno di pianto fine a se stesso ma un'affermazione della necessità di riscattarne i valori. Una lezione che noi uomini e donne di oggi dovremmo tenere a mente e che mi piace pensare sia a sua volta la preziosa eredità di un passato da celebrare e di un grande poeta che lo ha abitato.
 
Corrado Cagli, Veduta allegorica di Roma (1937)

C.M.

Commenti

  1. Un post molto bello e colto, che trasuda tutta la tua passione per i grandi classici del passato. Complimenti.

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    1. Sono contenta che ti sia piaciuto, anche perché ho lavorato su un terreno praticamente mai battuto all'università e costruito direttamente per l'insegnamento, quando, l'anno scorso, ho dovuto preparare una 5^ all'esame di Stato. Imparare per uno scopo è decisamente più stimolante che farlo per ripetere ad un prof quello che vuole sentirsi dire anno dopo anno.
      Grazie di tutto!

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