Il più virgiliano: l'omaggio poetico del canto III

Perché Dante sceglie di avere proprio Virgilio come guida nella prima tappa del suo viaggio oltremondano? Perché il poeta mantovano simboleggia la Ragione. Questa è la risposta che tutti abbiamo appreso a scuola e che siamo abituati a completare con l'osservazione secondo cui Beatrice rappresenta la Fede (o la Teologia). Una simbologia valida e motivata, ma, a ben guardare, un po'riduttiva: l'interpretazione figurale inaugurata da Auerbach, come spesso accade quando una teoria diventa vulgata, ha subito un'impropria generalizzazione in alcuni contesti, facendo passare in secondo piano scelte molto meno spirituali di quanto possano apparire.
Vero è che Dante entra nella selva perché disorientato dal peccato, che deve essere affrontato a mente lucida per comprendere l'errore e solo successivamente letto attraverso l'anelito alla purificazione possibile solo attraverso la fede in Dio; vero è anche che le tre fiere da cui Dante viene salvato proprio grazie all'intervento dell'autore dell'Eneide rappresentano tre forme di devianza da cui la ragione può tenere lontano l'uomo.

William Blake, Dante e Virgilio nella selva

Ma Virgilio è, prima di tutto, un poeta, un grande autore della tradizione latina e maestro di lingua e stile per gli studiosi medievali come l'Alighieri. L'omaggio di Dante a Virgilio non è pertanto meramente simbolico, non è l'elogio del presunto profeta dell'arrivo di Cristo (come Virgilio è apparso agli interpreti medievali per i contenuti dell'egloga IV) elevato a simbolo della capacità razionale dell'uomo, non fosse altro che, con la Ragione e senza la Fede, ben poco di ciò che accade nell'Inferno sarebbe spieganile. Del resto, quando Dante riconosce l'ombra che gli si è avvicinata, cacciando le fiere, la saluta in termini tutt'altro che religiosi, precisando che il suo legame con Virgilio è di carattere letterario (Inf. I, 85-87):

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Virgilio è, prima di tutto, una guida letteraria per Dante che, scrivendo la Commedia, si confronta consapevolmente con i registri stilistici comico/basso, elegiaco/medio, sublime/elevato riscontrabili, rispettivamente, nelle Bucoliche, nelle Georgiche e nell'Eneide, ma che, allo stesso tempo, sa di essere un novello Virgilio nel regalare alla propria tradizione letteraria del proprio popolo un'epopea in cui si rispecchia un'intera civiltà. La Commedia, insomma, è una nuova Eneide, e il suo protagonista un nuovo Enea. Dante ed Enea sono, del resto, accomunati proprio dalla missione della catabasi, ed è ben noto che le rappresentazioni letterarie e artistiche dei viaggi oltremondani nell'occidente latinizzato derivano dalla lettura del canto VI dell'Eneide, e non dall'XI dell'Odissea, modello di Virgilio.

Andrea del Castagno, La sibilla cumana (1450)
Il libro VI dell'Eneide, infatti, presenta il viaggio di Enea nell'oltretomba, dove, secondo quanto gli ha confidato la Sibilla Cumana, gli verrà rivelato il destino del popolo che i suoi discendenti fonderanno nel Lazio. Si tratta del canto maggiormente celebrativo del poema virgiliano, orientato a tessere le lodi della grandezza di Roma e dei suoi condottieri, fino ad Augusto. Come Dante, Enea incontra qui persone che ha conosciuto in vita (il nocchiero Palinuro, il padre Anchise e la regina Didone), ma scorge anche tanti altri personaggi di grande fama nell'antichità; come Dante, egli si imbatte in Caronte, Minosse e le figure che dominano gli Inferi. 
L'aspetto politico del canto virgiliano si riverbera nella scelta di Dante di fare di tutti i canti sesti della Commedia dei luoghi di riflessione sulla vita civile di Firenze, dell'Italia e dell'Impero di cui auspica la costruzione, ma è nel canto III dell'Inferno che l'influenza del viaggio di Enea si esplicita attraverso riferimenti contenutistici e lessicali. Per questo motivo, sebbene le allusioni e le citazioni all'Eneide siano presenti un po'in tutta l'opera dantesca (per esempio, la pena del suicida Pier della Vigna in Inf. XIII è una chiara allusione alla trasformazione di Polidoro in arbusto stillante sangue), con un'elevatissima concentrazione nei primissimi, Alessandro Ronconi ha definito il canto III dell'Inferno «il più virgiliano di tutti».
Vediamo dunque di capire il perché di questa definizione, premettendo che, in ogni parte della Commedia, l'insegnamento antico (che sia di Virgilio, Stazio o altri autori) si intreccia in maniera continua con citazioni bibliche, a segnalare la duplice ispirazione del poema. I rimandi a Virgilio si colgono già nel canto I, poiché anche l'ingresso nell'Averno si colloca presso una selva, e in essa si inoltra anche Enea. 
Scorrendo i parallelismi, mi avvalgo di una divisione in movimenti, corrispondenti ai tre nuclei fondamentali del canto III: la porta dell'Inferno, l'Antinferno e Caronte.

Nicolò dell'Abate, Enea scende all'Averno (1543)
Movimento 1 (vv. 1-21). Il canto si apre con la lettura, da parte di Dante, dell'iscrizione posta sulla porta dell'Inferno, elemento già presente nell'Eneide, sia nel momento in cui l'eroe chiede di scendere nell'oltretomba (Aen. VI, v. 106 sgg.: «inferni ianua regis»), sia nei vv. 127-129, dove la Sibilla avverte: «Facile la discesa all'Averno: notte e giorno la porta del nero Dite sta aperta: a riportare su il passo, uscire all'aria di sopra, questo è l'impegno, è qui la fatica.» (trad. di Rosa Calzecchi Onesti), parole riecheggiate dalla proverbiale «Lasciate ogni speranza voi ch'intrate» (Inf. III, 9) e l'insistente ritorno sul concetto di eternità che, nelle terzine dantesche, rende spaventosa l'entrata nella voragine delle pene. 
E se è il terrore che accompagna l'accesso agli Inferi, comune è però, per Enea e per Dante, la presenza di una figura rassicuratrice, rispettivamente quella della Sibilla e quella di Virgilio stesso: «Qui si convien lasciare ogne sospetto; / ogne viltà convien che qui sia morta» annuncia Virgilio al suo discepolo (vv. 14-15), mentre la profetessa dell'Eneide dice, un attimo prima che Enea superi la soglia: «Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo» (v. 261, «Audacia t'occorre, ora, Enea, ora t'occorre cuor saldo»).

Movimento 2 (vv. 22-81). Appena oltre la porta infernale, Dante si imbatte in una schiera di dannati talmente vergognosa da non avere neppure accesso all'Inferno, poiché le è negato l'attraversamento dell'Acheronte. Sono i pusillanimi, coloro che in vita non scelsero né il Bene né il Male e che, dunque, sono rifiutati anche da Lucifero. Ciò che di loro si manifesta in primo luogo al poeta, tuttavia, non è il loro sembiante o il contrappasso cui sono sottoposte, bensì lo strepito che esse levano, un rumore assordante in cui si mescolano pianto, grida, bestemmie e rantoli (vv. 22-33):

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

La descrizione del clamore dell'Antinferno e la richiesta di Dante sono chiaramente ricalcate sui vv. 557-561 del canto VI dell'Eneide:

Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
verbera, tum stridor ferri tractaeque catenae.
Constitit Aeneas strepituque exterritus haesit:
«Quae scelerume facies? O virgo, effare; quibusve
urguentur poenis? Quis tantus plangor ad auras?»

Di qui s'udivano gemiti, e fruste fischiare
feroci, e stridore di ferro e trascinate catene.
Enea s'arrestò, esitava, sgomento allo strepito:
«Che delitti laggiù? Dimmi, o vergine, e quali
pene li straziano? Perché tanti gemiti nell'aria?»

Dante, tuttavia, asporta i versi virgiliani nell'Antinferno, mentre il poeta mantovano li colloca oltre l'Acheronte, dopo il passaggio attraverso i Campi del Pianto dove Enea ha incontrato lo spirito inquieto di Didone; questa scelta è dovuta ad una diversa caratterizzazione dell'Antinferno, che in Dante ospita i pusillanimi, mentre per Virgilio è dimora degli spiriti dei morti insepolti, come Palinuro, che non subiscono strazio alcuno.
Come sappiamo, sui pusillanimi, per volere di Virgilio, cade una pesante censura: essi vengono descritti rapidamente, ma il poeta intima «non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (v. 51), e i due viandanti, dopo uno sguardo pietoso, si appressano ben presto ad un altro gruppo di anime che si assiepa lungo le rive dell'Acheronte. Qui Dante non può trattenere l'ennesima domanda: «Maestro, or mi concedi / ch’i’ sappia quali sono, e qual costume / le fa di trapassar parer sì pronte, / com’io discerno per lo fioco lume», citando ancora una volta l'interrogativo posto da Enea alla Sibilla «Dic, ait, o virgo, quid volt concursus ad amnem? / Qudve petunt animae?» (vv. 318-319, «Dimmi, vergine, chiese, perché questo correre al fiume? / Che cercano l'anime?»).

Priamo della Quercia, Dante e Virgilio trasportati da Caronte (1444-1450)

Movimento 3. È la parte più nota del canto dantesco, quella con il personaggio più particolare, Caronte. Figura in gran parte ripresa da Virgilio, si presenta come un vecchio pronto a minacciare Dante, rifiutandosi di portarlo con la propria barca oltre l'Acheronte. Egli è un «traghettatore orrendo» («portitor horrendus» in Aen. VI, 298), con la barba incolta che gli scende dal mento («cui plurima mento / canities incluta iacet» di Aen. VI 300 e «un vecchio bianco per antico pelo» e con «lanose gote» in Inf. III, 83 e 97) e gli occhi fiammeggianti («stant lumina flamma» di Aen. VI, 300 e «che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote» in Inf. III, 99).
Caronte ha il compito di far salire le anime sulla sua barca, sicché queste si accalcano addosso al legno con una foga che porta Virgilio a descriverle con una similitudine molto particolare (Aen. VI, vv. 309-314):

Quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris inmittit apricis.
Stabant orantes primi transmittere cursus
tendebantque manus ripae ulterioris amore.

Tante così nei boschi, al primo freddo d'autunno,
volteggiano e cadono foglie, o a terra dal cielo profondo
tanti uccelli s'addensano, quando, freddo ormai, l'anno
di là dal mare li spige verso le terre del sole.
Stavano là, pregando sì'essere i primi a passare,
e tendevan, pre brama dell'altra riva, le mani.

E tali versi non mancano di affascinare Dante (Inf. III, vv. 112-120):

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.

Oltre alla similarità della descrizione delle anime volte al passaggio dell'Acheronte e alla descrizione fisica di Caronte, analogo è il comportamento dei due traghettatori, entrambi riottosi a trasportare i vivi sulla loro barca, come si evince dal confronto di Eneide VI, vv. 387-391 e Inferno III, vv. 88-93:

«Quisquis es, armatus qui nostra ad flumina tendis,
fare age, quid venias, iam istinc, et comprime gressum.
Umbrarum hic locus est, Somni Noctisque soporae;
corpora viva nefas stygia vectare carina»

«Chiunque tu sia, che tendi armato alle nostre correnti,
parla subito, e di'perché vieni, e ferma il tuo passo.
Dell'Ombre qui è il luogo, del Sonno e della soporifera Notte;
vietato è portar corpi vivi sullo stigio traghetto.»

«E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».

E proprio questa opposizione di Caronte ha generato grossi dubbi sul modo in cui Dante oltrepassa l'Acheronte: in entrambi i poemi alle minacce del traghettatore segue l'ordine perentorio delle guide oltremondane (la Sibilla e Virgilio rispettivamente) affinché egli non si opponga a ciò che altre divinità hanno stabilito, ma, mentre assistiamo alla salita di Enea sulla zattera, che imbarca acqua per il peso di un vivo come farà quella di Flegias in Inf. VIII, quella di Dante non è descritta. Questa discrepanza ha indotto alcuni critici, come Bosco e Reggio, Chiavacci Leonardi e Ronconi stesso, a ipotizzare una diversa modalità di passaggio di Dante dall'Antinferno al Cerchio I e altri, fra cui R. Hollander, a proseguire nel parallelismo, sostenendo che tante consonanze fra i due canti non possono ammettere uno sviluppo troppo diverso, che forse Dante avrebbe omesso per non riempire l'Inferno di scene di attraversamenti fluviali; inoltre, a sostenere questa seconda osservazione, c'è la perentoria chiusa di Virgilio, che fa ammutolire Caronte invocando Dio con la formula «Caron, non ti crucciare: / vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (vv. 94-96): pensare che chiamare in causa la Giustizia che domina anche sugli Inferi non basti a far desistere il traghettatore dalla sua ostilità sarebbe quasi sacrilego nell'economia dell'oltretomba dantesco.

Michelangelo Buonarroti, Giudizio Universale

Tanti rimandi, dunque, e particolarmente concentrati in questo canto, come se Dante avesse avuto l'urgenza di celebrare colui che due canti prima ha chiamato maestro. Ma la materia del canto VI dell'Eneide è troppo vasta per essere compressa in uno dantesco, perciò molte citazioni travalicano i limiti dell'Acheronte e si raggrumano all'inizio del canto V e VI, dove appaiono Minosse e Cerbero, guardiani dei cerchi II e III. L'eco dell'Eneide, comunque, riemerge costantemente nell'Inferno, lasciando percepire l'importanza del magistero virgiliano nella costruzione della Commedia e la necessità di vedere nel poeta mantovano qualcosa più che un'allegoria, tanto più che l'unico canto in cui la sua presenza è adombrata è il XV, dove Dante incontra Brunetto Latini, il suo altro maestro.

C.M.

Commenti

  1. Ho fatto un salto nel tempo di circa 20 anni, quando studiavo al liceo (classico). Il termine catabasi mi ha fatto sobbalzare!
    Mi viene voglia di riprendere tutti gli studi classici, per riammorbidire la mia vena ingegneristica...

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    1. Alla catabasi (o, meglio, alle catabasi) vorrei dedicare presto un articolo specifico, quindi ti darò l'occasione di una nuova immersione nel vissuto liceale! :)

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  2. Esiste, in tutta la storia dell'umanità, poeta più immenso di Dante? La mia riposta è: assolutamente no. Tra qualche giorno l'università della mia città riprenderà, come ogni anno, La settimana degli studi danteschi, dedicata quest'anno al V canto dell'Inferno. Non vedo l'ora.

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    1. Anche nella mia Verona si organizzano spesso manifestazioni dedicate a Dante, in particolare quest'anno per i 750 anni dalla nascita. Peccato che siano sempre in orario di lavoro!

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  3. Pensa che io mi porto dietro la definizione di Enea come "figlio d'Anchise" fin da quando avevo forse sei anni. In quell'epoca lontana mio zio mi recitava a memoria parti dell'Inferno.

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