Morire, dormire: il panegirico letterario del sonno

La letteratura è fatta di universali: ciascun autore modella la propria strada, crea il proprio bagaglio tematico e, se è particolarmente raffinato, costruisce attorno all'opera un vero e proprio sistema filosofico. Eppure, al di là della personalizzazione, esiste una trama intertestuale che parla per topoi, motivi ricorrenti che non conoscono i confini del tempo e sono comuni a svariate culture. La consistenza di questi universali è, infatti, diacronica e diatopica e fa sì che pensieri ed espressioni simili o coincidenti si riverberino nella produzione di autori lontani nello spazio e nel tempo che, attraverso quei temi, manifestano esigenze e riflessioni capaci di annullare qualsiasi distanza.
Pochi mesi fa abbiamo svolto la trama intertestuale fra Haruki Murakami a Giacomo Leopardi. Oggi, sempre partendo da questo insospettabile legame, allargo il campo alla letteratura inglese, chiamando in causa William Shakespeare, e al Novecento italiano, ispirata da Cesare Pavese, anima molto affine a quella del poeta di Recanati.

Edward Burne-Jones, The Rose Bower (1880)

Ad unire la produzione di questi personaggi è un tema strettamente correlato alla natura umana e ai bisogni biologici più elementari, ma, allo stesso tempo, largamente produttivo nella riflessione sulla condizione esistenziale: il sonno.
In questo caso la ricerca o, per meglio dire, l'emergere delle consonanze è partito dalla lettura parallela dell'impegnativo e voluminoso Zibaldone, che sto centellinando dall'anno scorso, e del racconto Sonno. Proprio grazie ad un passo brevissimo di Murakami si è attivata la connessione al poeta, a sua volta tramite per il recupero della precedente lettura de Il mestiere di vivere (di cui abbiamo già rilevato la consonanza rispetto allo Zibaldone). La lettura di febbraio dell'Amleto shakespeariano ha poi chiuso il cerchio, costruendo una rete di rimandi innegabili.

Fino a questo momento, ho sempre considerato il sonno come un abbozzo della morte. Supponevo che la morte fosse un’estensione del sonno, un’assenza di coscienza molto più profonda del solito… un riposo che dura per sempre, un distacco definitivo. Questa era la mia convinzione.

Il sonno è, per Murakami come per Leopardi, una sorta di morte temporanea e, per contro, la morte non è che un'estensione del sonno: lo stesso stato di incoscienza, la stessa capacità di porre fine alle sofferenze umane, una metafora già usata da Ugo Foscolo nella poesia Alla Sera, dove l'avanzare della notte, tempo del sonno, prelude alla dissoluzione delle angosce esistenziali grazie alla promessa della «fatal quiete».
Ma leggiamo il passo cruciale dello Zibaldone relativo al sonno (193):

Gran magistero della natura fu quello d'interrompere, per modo di dire, la vita col sonno. Questa interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come un rinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù. Oltre alla gran varietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno di una vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall'altra è un sommo rimedio contro la monotonia dell'esistenza. Né questa si poteva diversificare e variare maggiormente, che componendola in gran parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte.

Questo pensiero affonda le radici nella convinzione di Giacomo Leopardi che la vita sia piacevole e felice soltanto nel momento in cui nutre le aspettative dell'uomo, mentre diventa grama e pesante quando quelle stesse speranze svaniscono. È dunque fondamentale credere nel principio del giorno come del nuovo anno (lo si legge chiaramente nelle Operette morali, specificamente nel Canto del gallo silvestre e nel Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere), vale a dire in quei momenti in cui le esperienze deludenti e sferzanti di un precedente giorno o di un anno infausto lasciano sorgere il miraggio di un futuro migliore semplicemente attraverso il passaggio di una soglia simbolica. Il sonno rappresenta per eccellenza quella soglia, e non a caso già la mitologia antica lo rappresentava come un dio abitante una dimora dalle cui porte escono i sogni e collocata nei pressi dell'Ade o della nebbiosa terra dei Cimmeri.

Hypnos e Thanatos trasportano il corpo di Sarpedonte - cratere di Eufronio (515 a.C. ca.)

Il sonno è un obnubilamento temporaneo che anticipa quello eterno della morte, motivo per cui le due divinità, Hynos e Thanatos, sono state sempre rappresentate insieme, in quanto fratelli generati da Erebo e Notte, a loro volta un dio e una dea simbiotici che rappresentano le tenebre e la previsione del regno dei morti (con il termine Erebo i latini indicavano l'Ade).
Il sonno, dunque, come ci insegnano anche le fiabe, è una sospensione della vita, uno stato di grazia durante il quale la stanchezza, il dolore, la frustrazione del tempo passato vengono a poco a poco abrase dall'animo, mitigate, avvolte nelle tenebre e nelle nebbie dei ricordi lontani. Il sonno rende sopportabile un'esistenza gravata da esperienze troppo forti che, se non fossero rimosse, schiaccerebbero l'essere umano. Sarà poi la morte, Thanatos, a purificare definitivamente lo spirito.
Non è forse lo stesso il rapporto che il Bardo di Stratford istituisce fra il Sonno e la Morte? Leggiamo il passo più celebre e amato di Amleto:

Morire, dormire.
Null’altro; e in un sonno dire che soffochiamo
il dolore del cuore e i mille naturali dolori,
retaggio della carne, questa è una dissoluzione
per cui pregare. Morire, dormire;
dormire, sognare, magari: ecco il problema.
Perché in quel sonno di morte, quali sogni possano giungere
una volta che avremo sciolto questo mortal fato,
dovremo trovar pace: questa la considerazione
che rende sventurata una vita tanto lunga.

Il sonno annega le angosce e, come tale, è una condizione gradita e invocata con piacere dal principe di Danimarca che si vede braccato fra l'opportunità di un'azione eroica ma distruttiva e una lunga esistenza di sopportazione delle ingiustizie. Hypnos, ancora una volta, nel magistrale progredire del verso shakespeariano, si confonde con Thanatos, il dio che, anche dovesse recare un eterno sonno di incubi, tuttavia non potrebbe più danneggiare l'uomo, anche se i più temono che nell'aldilà un'anima peccatrice sia destinata ad ulteriori tormenti. Ma la visione di Amleto, come quella di Leopardi, è intrisa di ateismo, e relega a superstizione qualsiasi scrupolo di coscienza che possa nascere dal timore della condizione dell'anima dopo il suo distacco dal corpo.
È singolare rintracciare una simile consonanza fra le parole di Leopardi, irremovibile classicista, e Shakespeare, il mito dei romantici a proposito del quale Giacomo ha avuto un'accesa polemica con Madame De Staël. Ma è ben noto che il poeta italiano, pur radicato nel suo retroterra di studi classici ed estremamente attento ad osservare la lezione poetica e filosofica degli antichi, ha saputo creare una poesia fatta di fermenti moderni e ancora attualissimi, che lo pongono in un elegante e ammirevole equilibrio fra il neoclassicismo e il romanticismo.

Gaetano Previati, Notturno (1909)

Del resto, come abbiamo visto e come già nell'excursus intertestuale dedicato alla luna, l'immagine archetipica è ancora una volta radicata nel mito antico, che anche Murakami conosce bene. E il mito è anche la costante della letteratura di Pavese, che permette di chiudere il cerchio: nel suo diario filosofico-letterario, l'autore piemontese manifesta numerose affinità con Leopardi. Anche la visione del sonno, con la sua promessa di un risveglio più lieto del momento in cui ci si è coricati, appare rassicurante in quel 5 marzo 1947 in cui l'autore l'affida al diario, come un punto di luce in una vita segnata da un profondo disagio interiore.

È notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani, sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose.
È bello andare a dormire, perché ci si sveglierà. È il mezzo più rapido di fare il mattino.

C.M.

Commenti

  1. Ottima analisi. Tema ricorrente, è vero. Al sonno vengono attribuite valenze che vanno oltre la fisiologia umana. Una sorta di medium che ci permette la comunicazione con l'ultraterreno, con la parte di noi che alcuni chiamano anima piuttosto che mente. Viene associato alla "sospensione", alla morte, alla fuga oppure al "ritrovarsi". Davvero un bellissimo articolo, sei brava.

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    1. Grazie di aver apprezzato e arricchito questa analisi su un tema che, a volerlo sviluppare completamente, meriterebbe un blog dedicato.

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  2. Interessanti le analogie che sei riuscita a scovare tra un autore e l’altro. In effetti è fin dai tempi più antichi che il sonno viene paragonato a una piccola morte, e anche nella mitologia greca (come giustamente hai fatto notare) Hypnos, dio del sonno, era considerato il fratello gemello di Thanatos, dio delle tenebre. L’idea che dormire sia un po’ come morire è anche diffusa da sempre tra gli spiritualisti di ogni genere ed epoca, che credono appunto che durante il sonno l’anima si stacchi temporaneamente dal corpo, vagando nell’aldilà, per poi rientrarvi al risveglio.

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    1. Esatto, il viaggio dell'anima nel sogno è elemento comune a molte culture. Mi torna in mente l'analisi dell'oniromanzia che caratterizza alcuni brani della letteratura antica che ho analizzato per la tesi, ma anche l'intera Commedia muove da analoghe considerazioni, e nessun viaggio più ci quello di Dante unisce il sonno e le sue tenebre alla morte.

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  3. Bello questo excursus sulla tematica del sonno, bravissima. Come dici tu è una parola che spazierebbe in tantissimi campi, come pure la medicina, la psicologia... E anche noi possiamo viverlo, interpretarlo secondo i nostri sentimenti o pensieri. Un tema dagli infiniti spazi, ancora brava.

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    1. Sono contenta che questa divagazione di sia piaciuta, in effetti è una rassegna ampliabile forse all'infinito, ma ho preferito basarmi su suggestioni fresche e vivide piuttosto che buttarmi su una ricerca troppo precisa e comunque inadeguata a completare l'analisi di un tema tanto complesso, che unisce, come hai giustamente detto, campi diversi di esperienza umana e di studio...

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  4. E dove lasci il famoso: All'ombra de' cipressi e dentro l'urne/ confortate di pianto è forse il sonno/ della morte men duro?
    Mentre leggevo m’è sfuggito un sorriso; a parte la citazione dai Sepolcri, Neurino-Mio ha pensato bene di svegliarsi un attimo con uno sbuffo saccente: ma ‘sti poeti sapevano che in realtà il cervello non dorme mai?
    Il pensiero successivo, molto allegro: allora può solo morire?
    Dunque il sonno, oltre le naturali funzioni fisiologiche, può essere una via di fuga tra l’essere e il non essere?
    Un excursus davvero interessante; mi resta da capire “l’essere in quanto tale”, ma forse è meglio tornare a dormire ;-)…

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    1. Credo di sì, considerando che il sonno è anestesia, nel senso etimologico del non-percepire: se l'essere umano è, in senso cartesiano, in quanto essere pensante e soggetto di percezione, il sonno lo proietta effettivamente in uno stato temporaneo di non essere, e qui torniamo a Shakespeare, solo pochi versi prima di quelli citati... :)

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