Gli orrori del Novecento secondo Omero: ponti fra l'epica e le memorie di guerra

La storia dell'umanità è costellata fin dalle origini di episodi di violenza e prevaricazione. «La Storia è tutta un’oscenità fin dal principio» scriveva Elsa Morante nel suo più celebre e ambizioso romanzo, sottolineando però, per bocca di uno dei suoi personaggi, come le violenze del XX secolo siano state ben più oscene di quelle sperimentate in precedenza.
Le due guerre mondiali con le loro agghiaccianti successioni di carneficine, i totalitarismi, le bombe atomiche e la Shoah hanno indubbiamente impresso alle imprese degli uomini del Secolo breve una tonalità ben diversa da quella di qualunque conflitto dei secoli precedenti. Per quanto anche nella storia dei Romani o nelle Crociate ci siano state diverse manifestazioni di violenza che, osservate attraverso la lente etica odierna, possono portare alla luce vicende disumane e condannabili, è il Novecento che, comunemente, associamo alla barbarie, al crimine di guerra, all'orrore e al compianto delle vittime di guerre e stermini di massa. Sono le tragedie vissute dal 1914 in avanti ad aver cambiato radicalmente il nostro modo di guardare alla guerra e alla violenza e ad averci instillato il pudore per atti sanguinari, determinando il nostro giudizio di fronte alle barbarie di cui veniamo a conoscenza attraverso i media.
Gli orrori del Novecento sono agli antipodi dell'epos, eppure con l'epos molta parte della letteratura tende a metterli in comunicazione. Quanto è elevato il tono della celebrazione, dell'eroismo e del canto di una missione divina nei poemi omerici, in particolare nell'Iliade, tanto si distacca dal trionfalismo ogni singolo atto della tragedia mondiale. Non che mancassero, nella poesia greca, momenti di riflessione sulle catastrofi della guerra (alle Troiane cadute in miseria e schiavitù dopo la caduta della città Euripide dedicò più di un dramma), ma è al ciclo omerico e ai suoi protagonisti che attingono diversi autori del XX secolo nel momento in cui prestano la loro penna alla descrizione delle guerre mondiali e dei campi di sterminio.La letteratura sulla guerra e sugli stermini di massa, infatti scomoda spesso Achille, Ettore e Ulisse, scegliendoli di volta in volta per motivi diversi, ma sempre in relazione al loro essere i guerrieri protagonisti del più grande conflitto dell'antichità. Di questi exempla tendono a servirsi soprattutto gli autori italiani, ma non mancano casi in cui scrittori stranieri avvertono questa sintonia (o il contrasto) con le imprese dei guerrieri achei e troiani, come accade per Ben Pastor, che nel romanzo La strada per Itaca reinterpreta l'indagine di Martin Bora e gli ostacoli che egli incontra sul proprio cammino come le peregrinazioni di Ulisse, secondo un'associazione ispirata dall'ambientazione egea del racconto.
La medesima motivazione spinge Giulio Bedeschi a richiamare la vicenda del sovrano di Itaca in Centomila gavette di ghiaccio: l'ARMIR è di stanza in Grecia e alcuni soldati, non conoscendo il greco moderno, ricorrono agli studi liceali per chiedere da mangiare, ed è commovente il brano (Tempo secondo, cap. VI) in cui l'autore, nella figura di Italo Serri, rievoca la sua richiesta di una ciotola di latte ad un vecchio pastore:

Forse il vecchio sdegnava una diversa vita, ignaro d'ogni sorte estranea alle cure del pastore; forse dai più remoti tempi gli erano venuti intatti gli usi e i modi d'altri pastori, vissuti su quella terra allorché Odisseo navigava, quando ancora il nemico brandiva l'arma in campo aperto e l'amico giammai tradiva; forse il vecchio intendeva le antiche voci sepolte, l'originario linguaggio degli eroi d'Omero...
- Hai del latte? Ekeis gala?
Il vegliardo rimase immobile per qualche attimo, sorpreso: parve intento a condensare in un concetto inerte parole presenti e risonanze disperse nei tempi; sorrise, infine, trasse una ciotola, s'abbassò a un vicino animale e la ritrasse pesante e spumosa, offrendola.
Fu allora che il giovane portò alle labbra la conca di legno; e si sentì esultare, come se per prodigio d'antichi iddii pagani bevesse in quel punto il latte degli armenti d'Ulisse.

L'episodio pare sospeso fra un rovesciamento dell'incontro fra Ulisse e Polifemo (qui l'interlocutore è, a dispetto di quanto potrebbe aspettarsi un soldato dell'esercito che gli occupa la patria, generoso e ben disposto, mentre il ciclope sfoga la propria violenza su chi ha chiesto ospitalità e non muove alcuna minaccia) e un comunissimo riferimento alle terre abitate dal re di un'isola di pastori capaci, però, di trasformarsi in guerrieri.
 

L'utilizzo più celebre dell'eroe acheo è però quello proposto da Primo Levi in Se questo è un uomo, nel celeberrimo Canto d'Ulisse, che si rifà indirettamente ad Omero, prediligendo l'influenza dantesca. Levi e il suo compagno di prigionia Jean escono dalle camerate per andare a recuperare il rancio e, lungo il tragitto, il primo si ricorda improvvisamente dei versi del canto XXVI dell'Inferno. Li rievoca, seppur con grande fatica, tentando di tradurli in francese e di spiegarli al compagno nella precaria situazione in cui si ritrovano. Il brano non si fonde nella storia, non c'è alcuna associazione fra Ulisse e i prigionieri (sebbene la tragedia della nave inghiottita dal gorgo possa essere accostata al grande naufragio dell'umanità nella guerra, punto d'arrivo di un progresso contro natura), quello che conta è lo sforzo mentale e linguistico di Levi, che ricorre all'ermeneutica del mito e della sua evoluzione perché in questa operazione ravvisa il permanere inaspettato della lucidità, della memoria, del senso della bellezza che il lager tenta di portare via. Il canto d'Ulisse è un momento di cauto ottimismo, che rimette in comunicazione l'uomo travolto dal processo di disumanizzazione e le vette dell'arte di cui l'essere umano è capace.
Ulisse diventa, invece, un vero e proprio alter ego dell'autore in La tregua, la narrazione del durissimo viaggio di ritorno e delle paure del prigioniero di non saper tornare alla vita di tutti i giorni e di dover affrontare un mondo completamente cambiato anche nei suoi aspetti più intimi. Del resto le peregrinazioni che intercorrono fra la liberazione della Buna nel gennaio del 1945 e il rientro a Torino nell'ottobre dello stesso anno appaiono come un'Odissea estremamente drammatica, con tanto di deviazioni che, anziché avvicinare Levi a casa, lo spingono ancor più lontano, dal momento che l'autore è sospinto prima verso il confine orientale della Polonia e poi quasi fino a Minsk, trovandosi obbligato a rientrare attraverso la Romania e l'Ungheria.
Allargano lo sguardo ad altri eroi Emilio Lussu e Wu Ming per illuminare alcuni comportamenti dei soldati italiani durante la prima guerra mondiale. Emilio Lussu, nel descrivere i militari alle prese con il cognac, immagina il loro ricordo delle numerose coppe di vino bevute dagli eroi di Omero fra una battaglia e l'altra; l'autore usa una formula efficace per costruire un ponte fra l'epica e il suo tempo, scrivendo che lui e il tenente Mastini avevano un piede su Troia e l'altro sull'Altipiano di Asiago. Nel brevissimo episodio e nel suo amaro finale si condensa tutto il paradosso dell'accostamento mitologico: il cognac serve a rinvigorire a riscaldare e a stordire i soldati e, nella condizione del tutto antieroica del primo conflitto mondiale non è la bevanda che consacra la vittoria, ma quella che fa presagire la carneficina.
Più recente è l'ultimo esempio di queste acrobazie epiche. Nell'ultimo libro del collettivo Wu Ming, L'invisibile ovunque, è contenuto un racconto il cui protagonista, Giovanni, osserva la sua partecipazione alla guerra attraverso la lente del mito, che gli si rivela utile per cercare una via di fuga, un modo per rendersi invisibile alla guerra. Decide di imitare un conoscente e fingersi pazzo, di attuare dunque un mascheramento simile a quello cui aveva fatto ricorso la madre di Achille per tenere il figlio lontano dalla battaglia; il ragazzino era stato affidato al sovrano di Sciro e vestito come una delle sue figlie, salvo poi essere smascherato da Ulisse. Giovanni ricorda le lezioni scolastiche, ricorda i diversi miti associati alla Guerra di Troia e ricorda le astuzie di Ulisse. Ricorda anche distintamente che lo stesso Ulisse aveva tentato di sottrarsi alla guerra:

Ulisse, che s'era appena sposato e aveva un figlio piccolo, decise allora di fingersi pazzo, per evitare la guerra. Quando Agamennone e gli altri eroi si presentarono per arruolarlo, egli indossò un berretto da contadino e attaccò all'aratro un cavallo a fianco del bue. Palamede, appena lo vide, capì che stava fingendo. Prese il piccolo Telemaco dalla culla e lo depositò davanti al vomere, dicendo: "Smetti di prenderci in giro e unisciti agli alleati". Allora Ulisse fermò le bestie, diede la sua parola che sarebbe partito e da quel momento fu in collera con Palamede.
Mentre preparava la cartella per tornare a casa, Giovanni pensò che quella storia aveva un che di sbagliato. Lo stratagemma di Ulisse gli sembrava poca cosa, in confronto al Cavallo di legno o all'inganno del Ciclope, eppure l'autore era lo stesso. Il re di Itaca sapeva mentire molto meglio di così. perché non s'era inventato una follia all'altezza della sua fama?

 
La guerra di Troia, gli eroi, i viaggi di ritorno (nòstoi) e i loro rituali vengono dunque presi e reinterpretati in una chiave completamente diversa, addirittura opposta a quella dell'epos. Vien da chiedersi se si tratti puramente di un divario culturale o se Omero avrebbe mutato il suo modo di guardare alla guerra se solo avesse assistito agli orrori del Novecento. Sarebbe stato un poeta di sventure, avrebbe anticipato la tragedia e le riflessioni di Euripide, oppure sarebbe rimasto fedele al suo ruolo di celebratore del valore e avrebbe rivestito la narrazione della guerra e delle sue atrocità con una patina eroica conforme a quella che tentarono di imporre i nazionalismi di inizio secolo ma che il progredire del disastro provvide a sgretolare?

C.M.

Commenti

  1. Articolo molto interessante. Credo che tutto si basi sulla diversa concezione che si aveva della guerra - e, indirettamente, della società - all'epoca e ora. Mentre nell'antichità gli eroi omerici erano tali per le loro capacità guerresche, rispettosi dei riti e delle convenzioni ma pur sempre spietati (questo era il ruolo dell'uomo greco nell'immaginario), il Novecento vede un tipo diverso di uomo, di società, di scrittore. Il Novecento è stato il secolo del dubbio e della psicanalisi, dunque l'antichità non poteva non essere rivisitata in chiave più ambigua (basta poi pensare a L'ultimo viaggio di Ulisse di Pascoli. Non c'entra la guerra, ma si vede bene come la figura dell'eroe omerico perda quella saldezza e si sfumi, ponendo interrogativo su interrogativo). Se Omero fosse stato presente non avrebbe potuto sottrarsi alla nuova corrente di pensiero, perchè l'uomo è pur sempre figlio del suo tempo. Questo secondo me, certo. Insomma, spero di aver scritto cose sensate:)

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    1. Sensatissime, direi! Vero, il Novecento ha rielaborato in modo del tutto inedito la mitologia: non secondo dettami classicisti o di maniera, ma insinuando il dubbio e la debolezza umana nel sistema composto dei miti antichi. Non a caso Ulisse, così ambiguo e così ricco di sfaccettature, ha saputo evolversi prima in modo tale da rispondere alle esigenze di un pubblico cristiano come era quello di Dante, poi è diventato il simbolo di una generazione disorientata ed esposta a mille minacce. Quello che mi colpisce della rivisitazione da parte di Lussu e Bedeschi è la capacità di armonizzare la loro narrazione con quella, ben diversa, di Omero... significa che il mondo classico ha offerto un patrimonio inesauribile di significati, toni e temi e che anche ai nostri tempi non sono mancati e non mancano grandi autori capaci di farne rivivere i fasti.

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  2. L'antichità classica è una delle più vaste e complesse fonti d'ispirazione ed è bellissimo vedere cosa gli artisti vi hanno, di volta in volta, visto. Ogni figura classica è poi stata riscoperta e modernizzata, ed è una vera goduria per noi lettori:)

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