La banalità del male - Hannah Arendt

La violenza e la prevaricazione hanno sempre fatto parte dell'esistenza dell'uomo, nella quale si sono distinte costantemente le parti degli oppressori e delle vittime, eppure fino alla metà del XX secolo non si è manifestato quel senso di sdegno, orrore e condanna nei confronti di chi ha versato il sangue di un suo simile. I motivi sono molteplici, ma, per isolarne alcuni, possiamo dire che, se fino all'Illuminismo non esisteva nemmeno il barlume di un'idea egualitaria che riconoscesse a tutti gli esseri umani pari dignità e pari diritti, si sono dovuti verificare le enormi catastrofi umane del Novecento, dalle due guerre mondiali ai genocidi, perché la situazione cambiasse e svanisse qualsiasi connotazione catartica della morte.

Il vero cambiamento prodotto dal disastro del Novecento è connaturato all'idea stessa di crimine contro l'umanità che si è affermato in seguito a questi eventi, che hanno obbligato tutti gli esseri umani o, per meglio dire, tutti coloro che vollero farsi sostenitori della libertà, della democrazia e della sicurezza di ogni individuo ad un profondo esame di coscienza. Dopo le due guerre mondiali si è resa necessaria una difficile riflessione in merito a questioni che la fiducia nel progresso sorta nel secolo precedente aveva reso, nella percezione dei più, superflua. L'Occidente si è trovato di fronte all'evidenza del fallimento di interi sistemi politici, delle ideologie di massa e degli accordi internazionali che, lungi dall'impedire nuovi conflitti, avevano in parte agevolato l'affermazione del Totalitarismo, favorendo l'annegamento dell'individualità.
Come è stato possibile che intere nazioni si siano piegate al giogo nazi-fascista? Come classificare e condannare azioni che andavano ben oltre il crimine di guerra? Come individuare i responsabili di stermini e torture di massa aritmeticamente programmati e inseriti in veri e propri programmi di governo? Qual è il confine fra la colpa individuale e la ragione di Stato? Dopo milioni e milioni di morti, non si poteva più rimandare la risoluzione di alcune questioni fondamentali, se si voleva ancora pretendere di farsi difensori della vita umana: era in discussione un intero sistema etico e c'erano non poche zone d'ombra da illuminare.
Nel mezzo della crisi di coscienza dell'Occidente sono piombati prima il processo di Norimberga (1945-1946), che ha fatto emergere la particolarità del crimine contro l'umanità rispetto al semplice crimine di guerra, e poi quello contro Adolf Eichmann (1961), tenutosi non di fronte ad un tribunale internazionale ma nel giovane stato di Israele.
Le vicende processuali sono note per la massiccia presenza di giornalisti che hanno documentato gli ultimi mesi di vita di colui che è stato ritenuto il principale responsabile del genocidio del popolo ebraico. Ma è soprattutto grazie alla filosofa e giornalista Hannah Arendt (1906-1975) che ne conosciamo i risvolti, le contraddizioni e gli aspetti eticamente meno confortanti per chi ha pensato di aver trovato, ad oltre vent'anni dall'inizio delle persecuzioni e delle deportazioni, un mostro cui imputare ogni colpa. La ricostruzione della Arendt, non limitata al processo ma allargata ad una vera e propria inchiesta finalizzata non certo all'assoluzione dell'imputato, bensì alla messa in evidenza della sconcertante normalità di Eichmann, è confluita fra le pagine del libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.
Il resoconto della Arendt ricostruisce con perizia ogni fase del processo, dalla cattura del latitante in Argentina (eseguita in palese violazione delle norme internazionali), fino all'esecuzione e alle critiche molto accese scatenate dalla pubblicazione degli articoli sul quotidiano The New Yorker, con una serie di approfondimenti e analessi che restituiscono un quadro complesso dello sviluppo storico degli eventi che hanno condotto alla soluzione finale.
Alla base del processo e degli aspetti critici che Hannah Arendt rileva nel suo studio c'è un dilemma che ancora oggi è difficile affrontare con quella mente lucida e impersonale che richiede la giustizia: da un lato c'è la necessità di riconoscere e punire una crudeltà enorme in assenza di leggi specifiche al momento dei fatti, ovvero di capire con quale formula condannare i gerarchi nazisti che, formalmente, non avevano violato alcuna legge e, anzi, avevano eseguito gli ordini del loro governatore; dall'altro c'è il problema di garantire un processo equo ad un imputato accusato dei peggiori crimini immaginabili.
La Arendt è ben consapevole che ai giudici si presenta questa difficile situazione al momento del processo e vuole proprio dimostrare come il senso etico del mondo intero sia stato messo in crisi di fronte ad essa: la fretta di condannare Eichmann era certamente la reazione all'impellente bisogno di punire un crimine e tutelare l'umanità violata, ma, allo stesso tempo, un istinto che poteva facilmente portare a tralasciare il rispetto dei diritti di un imputato, anch'essi frutto di una riflessione sulla dignità umana e a giustificare qualsiasi eventuale irregolarità nei suoi confronti.
Sia chiaro: non c'è nell'autrice alcun desiderio di scagionare Eichmann (del resto lei stessa ha origini ebraiche ed è stata costretta ad abbandonare la Germania per evitare ritorsioni), ma solo la volontà di far emergere quelle contraddizioni che hanno caratterizzato il processo all'ufficiale nazista, minando l'esercizio stesso della giustizia nell'ambito dei diritti umani in favore di una connotazione fortemente etnica degli eccidi consumatisi nell'Europa ubriaca di Hitler.
Ma quali perplessità nutre la Arendt? Solo la lettura integrale de La banalità del male può farne capire la ricchezza e la complessità, ma proviamo qui a riassumerle.

Adolf Eichmann depone al processo di Gerusalemme

Innanzitutto il processo ad Eichmann è apparso più uno spettacolo teso ad esibire pubblicamente il grande nemico del popolo ebraico, facendolo apparire più come un processo all'Antisemitismo che come un'azione di giustizia finalizzata a punire un crimine contro l'umanità. Questa impostazione etnica delle colpe di Eichmann si riconduce alla precisa volontà del primo ministro israeliano Ben Gurion di «rafforzare la 'coscienza ebraica'» ed è significativamente riassunta dall'accusa sostenuta dal procuratore Gideon Hausner: «In questo storico processo, al banco degli imputati non siede un individuo, e neppure il solo regime nazista, bensì l'antisemitismo nel corso di tutta la storia». Con una simile premessa, è facile comprendere come il desiderio di abbattere il Golia che ha sterminato gli Ebrei abbia prevalso su quello di sanzionare un crimine contro l'umanità tutta. Di qui il rifiuto di far processare Eichmann da un tribunale internazionale non solo più competente, in quanto già messo alla prova a Norimberga sullo stesso terreno, ma anche legittimato ad esprimere una sentenza che andasse oltre la connotazione etnica, decretando un sistema di colpa e pena valido universalmente per qualsiasi violazione giudicata crimine contro l'umanità. Solo questa internazionalizzazione del problema avrebbe permesso di attuare, come a Norimberga, una condanna inoppugnabile eseguita in nome di una coscienza universale e aggirare il problema dell'impossibilità di punire un reato secondo una legge non esistente al momento in cui è stato commesso (secondo il principio Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali).
Dal momento che il processo è stato svolto nel tribunale di uno Stato sovrano, le azioni illegittime o di scarsa responsabilità e limpidezza si sono moltiplicate: l'arresto, per quanto non eseguibile in altro modo, è stato svolto illegalmente, in quanto i termini per la richiesta di estradizione all'Argentina erano scaduti e non vi era stato alcun accordo per permetterne l'attuazione; le scarse prove attenuanti presentate da una difesa dimostratasi inetta già a Norimberga sono state ignorate, i testimoni da essa scelti esclusi dal processo; le carte processuali e i documenti su cui si basava l'accusa non sono stati presentati all'avvocato di Eichmann in tempo utile per la loro valutazione. Ancora, questo obiettivo assoluto dell'uccisione del mostro ha portato l'accusa a tralasciare non solo il fatto che Eichmann, assunto nel reparto delle SS come 'esperto in questioni ebraiche', dipendeva sempre dalle direttive di altri personaggi, in primis l'architetto della soluzione finale Heinrich Himmler, ma anche che un contributo non indifferente allo svolgimento delle deportazioni e delle confische dei beni degli Ebrei è arrivato sia dai capi delle comunità ebraiche disseminate in tutta Europa (investite della possibilità di stilare le liste di chi doveva essere salvato e chi, invece, sarebbe finito nei lager) sia da interi popoli che hanno colto l'occasione per disfarsi dei connazionali di origine semita o hanno applicato analoghe forme di selezione, come nella Francia occupata, dove non vi fu opposizione alla deportazione degli Ebrei polacchi, ma furono difesi strenuamente quelli francesi. Queste forme di grazia, estese anche agli «Ebrei illustri» (fra i quali viene citato Einstein), che sono state ammesse all'interno della soluzione finale avrebbero ridotto le accuse di antisemitismo, facendo emergere la più profonda radice del male, che ammetteva persino questo genere di collaborazioni pur di potersi perpetuare.
Poco importa se Eichmann fosse davvero l'individuo inetto, ignorante, incapace di parlare se non attraverso slogan preconfezionati dal regime che Hannah Arendt descrive o se, come sostiene Bettina Stagneth nel suo libro Eichmann prima di Gerusalemme, fosse realmente un individuo spietato. Ritengo che il 'profilo psicologico' tracciato dalla Arendt sia perfettamente coerente con l'epoca e il contesto socio-culturale in chi è vissuto Eichmann, che ha subito né più né meno di tanti altri il sortilegio mortifero della dittatura e ne ha assorbito gli strumenti, rinunciando a coltivare un pensiero e una coscienza autonomi e capaci di discriminare il bene dal male, il dovere di obbedienza alla nazione e l'orrore di fronte alla richiesta di perpetrare una violenza; ma, a ben pensarci, non è questo il principale problema che emerge dalle pagine di Hannah Arendt: la filosofa non vuole semplicemente dirci che il male incarnato da Eichmann è banale, ma che le giustificazioni da lui addotte hanno una natura tale che affondando le radici nel quotidiano, in una realtà imbottita della necessità di obbedire ai comandi, di sacrificare la propria coscienza all'ideologia della nazione e dalla scarsa volontà di portare avanti una concreta opposizione nei confronti di situazioni in cui non si è direttamente coinvolti. Insomma, nel favorire, più o meno consapevolmente, le ingiustizie e le violenze del regime, Eichmann non si è comportato diversamente da migliaia di altri uomini e donne di tutta Europa, molti dei quali parte della stessa comunità semita così duramente colpita dal nazismo. In questo senso il male è banale: è l'abdicazione all'esercizio della coscienza, della giustizia e della pietà umana che si cela ovunque, senza barriere di nazione, persino fra le vittime dei massacri, senza che si possa trovare un mostro isolato, che non abbia intorno a sé altri carnefici. Di conseguenza, il pericolo del male non ha tempo e può ripresentarsi in ogni momento, del resto sappiamo bene che massacri di massa non sono circoscrivibili all'esperienza nazista né si sono interrotti dopo la seconda guerra mondiale.

Hannah Arendt (1906-1975)

Nella Giornata della Memoria, come ho scritto in passato, tengo a ribadire la necessità di coltivare il ricordo non solo come un dovere nei confronti delle vittime di ogni crimine contro l'umanità, ma anche come esercizio di coscienza, per mantenerci in grado di riconoscere i pericoli di questo male che serpeggia nella banalità e che si nutre anche dell'indifferenza, come è accaduto negli anni della Shoah. Non mi stancherò mai di ripetere che il genocidio inizia quando l'individualità viene annientata, sia l'individualità della vittima che quella di chi potrebbe prestarle soccorso opponendosi ad un ordine, tendendo una mano, permettendole la fuga.
E, di nuovo, a costo di risultare ripetitiva, voglio sottolineare l'importanza di andare oltre la connotazione etnica dello sterminio perpetrato dai nazisti, cessando di identificare la Shoah con un'esperienza solamente ebraica. Anche per questo il caso Eichmann risulta significativo.
C'è infatti un'ultima irregolarità nella gestione del processo che va considerata fra quelle sollevate da Hannah Arendt. Al momento della sentenza, le uniche testimonianze rese da Eichmann che sono state prese in considerazione erano quelle che accentuavano il suo antisemitismo, mentre sono state ignorate quelle che avrebbero avvalorato l'accusa di crimine contro l'umanità intera. Eichmann, infatti, ha ammesso nel corso del processo di essere stato sempre pienamente consapevole che quanto accadeva agli Ebrei (i fatti di cui era accusato), coinvolgeva anche altre minoranze, come gli zingari, i disabili, gli omosessuali, gli immigrati Polacchi e qualsiasi altro 'indesiderabile'. Per questo la Arendt riporta i dubbi di un testimone: «La morte degli ebrei sarebbe stata meno grave se si fosse trattato di un popolo senza una civiltà, come gli zingari, che furono anch'essi sterminati? Eichmann è processato come sterminatore di esseri umani o forse come distruttore di civiltà?». Eichmann, insomma, non era colpevole nei confronti del popolo ebraico, ma era hostis generis humani e come tale doveva essere processato. 
E anche oggi, nel ricordare gli orrori portati in Terra dal nazismo, dovremmo ricordare le vittime di ogni manifestazione di simile crudeltà contro gli esseri umani, cessando di utilizzare connotazioni etniche o di circoscrivere le violenze ad un arco di pochi anni o ad un determinato territorio. Le vittime del male non hanno nazionalità, colore politico, ascendenza culturale, appartenenza religiosa: sono vittime del male e basta. Ed è bene che le ricordiamo tutte, senza alcuna distinzione.

C.M.

Commenti

  1. Ciao! Non ho mai letto questo romanzo, anche se in tanti me ne hanno parlato. Grazie per la tua recensione così dettagliata. :-)

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    1. Più che una recensione, mi accorgo di aver preso la cronaca della Arendt più come uno spunto, tante sono state le riflessioni e le domande che ne sono scaturite: è stata una lettura spiazzante, nonostante sapessi già di che cosa trattava, perché addentrarsi nelle pieghe dell'azione nazista e dei processi successivi è un'impresa veramente dura.

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  2. Questo libro mi ha sempre attratta, ma temevo fosse particolarmente complesso o denso di concetti filosofici non accessibili a qualunque lettore. Ti ringrazio per questo post che mi ha dato un'idea più precisa di cosa ci sia tra le pagine della Arendt, che ora mi interessa ancora di più: ho letto molto del prima e del durante il genocidio ma nulla del dopo. Direi che devo recuperare.

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    1. Lo è di certo, ma la Arendt, forse proprio perché scriveva per un giornale, sa esprimere con chiarezza concetti, informazioni e riflessioni molto complesse. Nonostante la pesantezza e la durezza del tema, la lettura mi ha coinvolta molto.

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  3. Sono contenta che l'hai letto. Anche perché hai saputo rendere in modo semplice e chiaro molti concetti. E’ un libro che tutti dovrebbero leggere e su cui sarebbe importante riflettere a più riprese, anche nelle scuole. Oggi più che mai, viste le continue discriminazioni che accadono in molti posti del mondo, e la sempre presente indifferenza che tende a sottovalutarle.

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    1. Concordo. Questa, poi, è una di quelle letture importanti anche per riflettere sulle prospettive storiche e storiografiche, praticolarmente importanti per capire il Novecento e il modo in cui è stato raccontato.

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  4. Hai fatto un'analisi encomiabile.
    La Giornata della memoria è un evento importante nella scuola in cui lavoro e il processo ad Eichmann rappresenta il perno attorno al quale si sviluppano i diversi temi dell'incontro con le terze classi.
    Quest'anno è stato proiettato un documentario andato in onda su Raitre in cui si analizza la visione di Arendt e il processo in sé. Anna Foa sostiene che piuttosto che "banalità" del male si dovrebbe parlare di "familiarità" o "quotidianità" del male, partendo dal fatto che Eichmann in fondo solo apparentemente parrebbe un appannato impiegato qualunque. Dietro ogni suo gesto si rivela un "personaggio" che sapeva assai bene quel che faceva e che addirittura ispirò lo stesso Hitler durante la fase finale dell'orribile Shoah.

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  5. Bellissima ricostruzione Cristina! Non avevo la minima idea di quanto questo testo fosse così potente e moderno! Grazie!

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    1. Nemmeno io lo immaginavo... ho cominciato a sospettare che fosse ancor più potente di quanto mi aspettassi dai miei studi liceali quando, lo scorso anno, ho visto il film che racconta l'esprienza della Arendt a Gerusalemme, la scrittura del libro e le polemiche... ora vorrei rivederlo, forte della lettura.

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