Il titolo è inquietante ma esercita anche una malia fortissima: Cucinare un orso, opera dello scrittore svedese Mikael Niemi pubblicata alla fine del 2018 da Iperborea (traduzione di Alessandra Albertari e Alessandra Scali), è, in effetti, un romanzo che ha dell'inquietante e in cui storia e folklore creano una trama così intricata che è difficile dire dove termini l'una e inizi l'altra.
L’uomo può vivere così, senza saccheggiare o distruggere. Senza esistere davvero. Semplicemente come il bosco, come il fogliame estivo e lo strame autunnale, come la neve d’inverno e le distese di boccioli che a primavera si schiudono al sole. Quando alla fine scompare è come se non fosse mai esistito.

Quella di Cucinare un orso è una storia cruda, violenta, impietosa, ma anche stimolante, capace di suscitare curiosità e speranza, anche se procedendo nella lettura il quadro si fa sempre più cupo e intricato. La figura di Læstadius è rassicurante, con quel suo essere un po'predicatore, un po'esorcista e un po'Sherlock Holmes, ma anche Jussi ha una sua forza, data dal tenace attaccamento al desiderio di riscattarsi e dall'ammirazione per la sua guida, una cieca fiducia che non cessa nemmeno nei momenti più difficili.Nella vita reale il tempo procede sempre nella stessa direzione, ma in un libro le cose possono andare diversamente. È quasi inquietante. Nella libreria del pastore vedo file e file di copertine, una accanto all’altra, e tutte contengono tempi di tipo diverso. Il tempo che ci è voluto a scrivere il libro, il tempo in cui si svolge la storia, il tempo che ci vuole per leggerla. E mi manca la terra sotto i piedi quando mi rendo conto che in un misero pezzetto di scaffale è racchiuso più tempo di quanto possa contenerne una vita intera. Le esperienze descritte sono così vaste che nessun individuo potrà mai comprenderle tutte dentro di sé, i pensieri così numerosi che nessuna mente riuscirà mai a formularli tutti nel corso di una sola esistenza, nemmeno se passassimo ogni singolo giorno della nostra vita a divorare libri. Mi immagino grandi case piene zeppe di libri, così tanti che nessuno riuscirebbe mai a leggerli tutti, e al solo pensiero mi vengono le vertigini.
Il romanzo ha anche un forte valore informativo, perché dipinge la vita quotidiana e la mentalità delle comunità svedesi dell'estremo nord, i difficili rapporti con il gruppo lappone, le superstizioni, le difficoltà di un'esistenza isolata, in mezzo ad una natura che a volte abbraccia e altre minaccia, fra periodi di luce e tepore e lunghe notti gelate. C'è poi la storicità di Læstadius a dare al racconto quel tocco di realtà che riverbera su tutta la vicenda un'aura di realismo che, intrecciandosi con elementi surreali caricati di valore simbolico e religioso, fanno dubitare al lettore di essere di fronte ad una storia verosimile e insinuano in lui il sospetto del fantastico.
Insomma, Mikael Nemi ha firmato un romanzo originale, dalla prosa equilibrata, che non perde mai ritmo e uniformità nonostante la lunghezza e l'articolazione della storia: lo stile è semplice ma ogni pagina ha tantissimo da comunicare e lo fa con efficacia, offrendo la giusta voce ad una storia emozionante, a tratti spaventosa e in altri commovente.
Insomma, Mikael Nemi ha firmato un romanzo originale, dalla prosa equilibrata, che non perde mai ritmo e uniformità nonostante la lunghezza e l'articolazione della storia: lo stile è semplice ma ogni pagina ha tantissimo da comunicare e lo fa con efficacia, offrendo la giusta voce ad una storia emozionante, a tratti spaventosa e in altri commovente.
C.M.Il fiume porta via con sé ogni bruttura. In equilibrio sulle pietre faccio scorrere via la mia angoscia. Mi abbandono, lascio che i miei pensieri più intimi vengano trascinati lontano, fino a scomparire. Forse il fiume è l’immagine più bella della vita. Un’anima che non nasce né muore mai, esiste e basta. Il fiume pensa al posto mio. Mi aiuta a resistere. Se qualcosa mi paralizza, lui mi risponde che è tutto in movimento, che niente è immutabile. Se rimango a osservarlo abbastanza a lungo mi trasformo in acqua. È un’esperienza potente. Quando divento fiume sono io ad acquietarmi, mentre le rive cominciano a muoversi. Sdraiato in tutta la mia lunghezza vedo il paesaggio scorrere da ambo i lati, con le sue paludi e le sue foreste. Io lascio che sia, e abbraccio il mio cielo estivo.
È questa l’immagine che cerco di evocare la sera, quando mi sento attanagliare dall’angoscia. Soffici nuvole mi passano sopra mentre sto disteso con gli occhi chiusi. È il sonno buono del fiume, un sonno che guarisce e ristora, sovrastando con il suo pacato sussurro il ronzio delle zanzare notturne.
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