L'eredità delle dee - Kateřina Tučková

Chi mi segue da tempo ricorderà forse che la mia tesi di laurea magistrale verteva sugli episodi di magia nel mito greco e che dal mio studio ho ricavato una miniserie di post con Circe, Medea, Fedra, Deianira ed Elena come protagoniste. La questione del rapporto fra donne e magia mi è diventata quindi molto cara, soprattutto da quando ho colto alcune costanti nel modo di vedere la magia nella cultura indoeuropea e nelle tradizioni con cui è venuta in contatto, oltre e nella credenza che ad accedere all'energia naturale e a poterla manipolare siano, di preferenza, donne che, per le loro capacità (e spesso in virtù delle loro ascendenze) vengono considerate delle dee.
Ecco perché, quando ho letto la sinossi de L'eredità delle dee della scrittrice ceca Kateřina Tučková (Keller), sono rimasta colpita. In poche righe veniva prospettata una storia, ispirata a fatti e personaggi reali seppur trasformata attraverso l'arte narrativa, nella quale l'attenzione era posta su delle figure femminili che avevano molto in comune con la mia Circe, la mia Medea e le altre incantatrici più o meno consapevoli della mia ricerca. Donne oggetto di venerazione, rispetto, timore, pregiudizi, ostilità. Donne le cui esistenze sono state immerse in profondi drammi e hanno forse interagito con la grande storia. Donne che sono diventate oggetto di racconti leggendari.


Il romanzo di Kateřina Tučková è una sorta di thriller a sfondo storico-etnografico, che muove dal lavoro della ricercatrice Dora Idesová, originaria dei Carpazi Bianchi, la quale, intenzionata ad ampliare la sua tesi, si immerge negli archivi della polizia segreta non appena la conquista di totale indipendenza dall'Unione sovietica, negli anni '90, li rende accessibili. Qui, fra un documento e l'altro, Dora si imbatte in un fascicolo riguardante la zia Surmena, che ha cresciuto lei e suo fratello dopo che il padre ha ucciso la madre, ma che, improvvisamente e senza spiegazioni, è stata internata in un istituto psichiatrico, dove è poi morta. Per Dora la ricerca passa dunque da un lavoro accademico ad una battaglia personale: è determinata a ricostruire gli eventi che hanno condotto la zia alla reclusione, consapevole che, forse, se non è custode del dono che la zia e la madre condividevano con le loro antenate, il suo ruolo è forse quello di riabilitarne la memoria, di far conoscere lo stradordinario mondo delle dee. Surmena, infatti, era nota nella comunità di Žitková, a cavallo dell'attuale confine ceco-slovacco, come una delle bohyně, donne esperte nell'uso delle erbe, guaritrici, indovine, incantatrici secondo alcuni. Gli abitanti di Žitková si rivolgono a loro per conoscere il loro destino, per curare malattie, per cercare la realizzazione dei un desiderio di maternità, per essere protetti dal malocchio; qualcuna particolarmente spregiudicata offre forse la possibilità di liberarsi di un marito, di un parente scomodo o di una persona ostile. Sono figure che manipolano l'energia delle forze naturali, eredi di una tradizione pagana ma che sono riuscite a fondere con forme di cristianità popolare. Sono coloro che, negli anni dell'Inquisizione, finivano nelle prigioni, al patibolo o sul rogo. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, richiesta dopo richiesta, Dora ricostruisce pezzi della storia delle dee di Žitková e, con esse, della zia e scopre che quell'insieme di credenze folkloristiche che nel XVII secolo erano bollate come eresia o atti diabolici sono state oggetto dell'interesse dei nazisti nell'epoca dell'annessione delle terre sudete, perché le dee potevano rappresentare le discendenti della cultura indoeuropea e, quindi, il retaggio ariano che Himmler puntava a ricostituire e riaffermare. Nella loro storia, però, gli interessi dei nazisti si sono intrecciati con le successive indagini della polizia filosvietica, così su Žitková si è stesa la minaccia delle accuse di collaborazionismo, su molti personaggi e sulle attività di alcuni di loro si sono aperte indagini e, in qualche modo, Dora intuisce che Surmena è stata vittima di un gioco atroce e, forse, di una maledizione lanciata da un'altra dea.

L'eredità delle dee si è rivelata una delle migliori letture del 2019: coinvolgente, in grado di mescolare stimoli diversi, dall'interesse storico-etnografico al thriller, scritto e tradotto in modo chiaro e scorrevole, nonostante l'intreccio di piani temporali anche lontani e i continui passaggi dal presente di Dora al passato di Surmena o addirittura a quello delle sue antenate cacciate come streghe. Il romanzo è una preziosa occasione per immergersi nella storia di una parte d'Europa di cui normalmente si sa poco, di comprendere i motivi dell'interesse nazista per i territori sudeti e la brama dei Sovietici di controllarli durante la Guerra fredda, ma anche il significato che una stessa tradizione culturale ha assunto nel tempo, passando da un insieme di pratiche ancestrali a eresia, da patrimonio folklorico a vessillo culturale, infine a materia di mito incompatibile con il materialismo e la razionalità moderni, se non come temi di antropologia culturale. 
Al di là di questa pregnanza storica, il libro della Tučková ha la suspense di una narrazione ben riuscita e orchestrata, la forza di un personaggio motivato all'azione dall'esigenza di far luce sul proprio passato, insieme a quello di Žitková, la vibrazione che nasce nel lettore che, pagina dopo pagina, non può che chiedersi come andrà a finire e temere allo stesso tempo di scoprirlo.
Per tutti questi motivi ho ritrovato fra le pagine de L'eredità delle dee quei punti interrogativi e quelle spinte che mi hanno fatta appassionare al lavoro sulle mie dee greche, precorritrici di quell'arte che le maghe di Žitková hanno praticato fino a pochi decenni fa (e che, chissà, forse si conservano ancora in qualche casupola sperduta), despositarie di una sapienza antica, misteriosa quanto pericolosa. Ma anche se di Circe e delle altre non vi importa molto, nel romanzo Kateřina Tučková potrete trovare una misteriosa e appassionante storia dai Carpazi Bianchi.
Fissava il soffitto della stanza buia, chiedendosi perché la sua fantasia esacerbata non la lasciasse dormire. E mentre rifletteva di colpo pensò che quei sogni erano troppo pieni di dettagli per essere semplici fantasie, che sentiva troppo precisamente quello che avevano vissuto persone morte già da secoli. Allora per la prima volta si chiese – e se non fossero normali sogni? Se non fossero solo il prodotto di un’immaginazione esuberante, e fosse invece l’eredità di coloro che l’avevano preceduta, piccoli frammenti dell’arte delle dee? Se anche in lei risuonasse quel comune retaggio, quella comune sapienza che nei secoli, a partire da Kateřina Shánělka e attraverso Surmena e sua madre, era arrivata fino a lei? Dal momento in cui lo pensò ebbe la sensazione di aver trovato la chiave per quegli anni di porte serrate. E appena si aprirono cominciò a emergere davanti ai suoi occhi quale fosse il suo vero ruolo e capì cosa le si richiedeva, in che modo poteva contribuire. Lei, che sola si trovava al confine di quei mondi separati, con un piede nella scienza e l’altro radicato profondamente nella sostanza della vita delle dee. Il suo scopo, si disse, era scoprire i destini di tutte le donne della sua stirpe, far emergere le loro storie dall’oscurità del passato, e, soprattutto, informare il mondo dell’eccezionalità della loro arte, che i nemici, per secoli, avevano cercato di estirpare da Kopanice. Il suo compito era impedire che il loro lascito svanisse.
C.M.

Commenti

  1. Già da qualche tempo vedo con piacere che alcune figure del mito, alcune da te citate: Circe, Medea, Cassandra, negli ultimi anni sono state riprese, analizzate e rivalutate ai nostri occhi, passando da donne pazze e pericolose a personaggi femminili moderni, con una profonda coscienza e coraggio.

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    1. Anche se in questo romanzo non c'è una effettiva ripresa, mi ha davvero fatto pensare alle "mie" incantatrici: attraverso il racconto si risale a delle pratiche che, forse, non sono così diverse da quelle che ai Greci ispirarono quelle figure: anche il fatto che siano chiamate "dee" la dice lunga, e io ho lottato nella mia tesi per affermare che definire Circe o Medea delle "maghe" è sbagliato, perché la prima è esplicitamente chiamata "dea" da Omero e la seconda le assomiglia molto. Ritrovare questo stesso appellativo riferito alle donne dei Carpazi Bianchi è stato molto suggestivo e trasmette quanto sia forte la tradizione, anche se si rivela così, inaspettatamente e piacevolmente. Immagino, dunque, che figure di grande fascino (giustamente hai citato anche Cassandra) non smetteranno mai di avere qualcosa da dirci.

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