Palomar - Italo Calvino

Il mio rapporto con Italo Calvino è strano. Nessuno dei suoi libri può dirsi il mio preferito, sebbene quelli della trilogia degli Antenati si avvicinino molto a questo titolo; eppure avverto costantemente un richiamo verso di essi, sicché almeno una lettura o rilettura all'anno mi riporta a questo nostro grandissimo autore. Il fatto è che anche quando manca un filo narrativo chiaro o proprio la narrazione si arresta per lungo tempo (come nelle Città invisibili), situazioni che di norma mi fanno andare un libro di traverso, Calvino riesce a tenermi avvinta, a non farmi neanche pensare alla possibilità di abbandonare la lettura in favore di qualcosa di meno impegnativo.
Nelle parole di Italo Calvino trovo sempre almeno un pezzettino delle mie sensazioni sul mondo, almeno una descrizione che sembra messa lì apposta per me, per catturare le mie esatte impressioni, una sfumatura di analisi letteraria o filosofica che mi porta a dire: «To’, guarda, è proprio quello che avrei voluto scrivere io (ma che non avrei mai scritto altrettanto bene)».


Anche con Palomar, uno degli ultimi libri dell'autore, pubblicato nel 1983, questa magia si è ripetuta. Il romanzo, che è poi improprio definire tale, è costruito da una serie di suggestioni e stimoli prodotti nel signor Palomar dalla visione di alcuni elementi naturali, di persone, animali o anche dall'entrata in un negozio di alimentari. Palomar, che, significativamente, porta il nome di un osservatorio californiano, è un uomo ossessivamente impegnato nell'indagine di ciò che lo circonda, si tratti del fluire delle onde sulla spiaggia, dello scambio del cinguettio fra i merli del suo giardino, del corpo dinoccolato e maculato delle giraffe o del seno nudo di una bagnante.
L’io nuotante del signor Palomar è immerso in un mondo scorporato, intersezioni di campi di forze, diagrammi vettoriali, fasci di rette che convergono, divergono, si rifrangono. Ma dentro di lui resta un punto in cui tutto esiste in un altro modo, come un groppo, come un grumo, come un ingorgo: la sensazione che sei qui ma potresti non esserci, in un mondo che potrebbe non esserci ma c’è.
Qualsiasi immagine stimola in Palomar una profonda ricerca filosofico-matematica, interrogativi sull'armonia e la disarmonia, sul rapporto fra l'io e il mondo, su cosa sarebbe tutto ciò che egli maniacalmente osserva se lui maniacalmente non lo osservasse. Quanto il più piccolo e apparentemente insignificante filo d'erba può comunicare della conformazione di spazi più grandi o dell'intero universo? E quanto di ciò che l'io percepisce esisterebbe, senza quella percezione? E, dunque, quel sistema di relazioni e simmetrie che collega un granello di sabbia all'immensità della Via Lattea è reale o è il frutto di una elucubrazione che potrebbe cessare o essere radicalmente trasformato da un istante all'altro?
Attraverso il proprio sguardo e la propria mente, Palomar acquisisce una serie di dati e continua ad elaborarli, declinandoli in infinite ipotesi destinate, naturalmente, a non trovare una risposta, in un gioco di rimandi e amplificazioni che assume quella struttura labirintica e delle innumerevoli e inafferrabili e imprevedibili possibilità sperimentate nel racconto del Castello dei destini incrociati.
Eppure sa che non potrebbe mai soffocare in sé il bisogno di tradurre, di passare da un linguaggio all’altro, da figure concrete a parole astratte, da simboli astratti a esperienze concrete, di tessere e ritessere una rete d’analogie. Non interpretare è impossibile, come è impossibile trattenersi dal pensare.
Ciò che, viaggio dopo viaggio, passeggiata dopo passeggiata, Palomar realizza è che la realtà è destinata a mutare di continuo, perché sottoporre al dubbio un suo minimo aspetto produce un'alterazione di ciò che circonda l'individuo e, quindi, dell'individuo stesso che, da quel momento in poi, si troverà ad interrogare una realtà diversa, nuova, precedentemente non prevista.
Se Palomar riflette sul moto di un'onda e improvvisamente a quello se ne interseca un altro non calcolato, la fenomenologia di quell'onda si trasforma, si trasformano i pensieri e, in qualche modo, la stessa essenza dell'onda diventa qualcos'altro. Anche il linguaggio ha questo potere di modificare la realtà, sia che venga espresso sia che si rinunci ad esso (è il significato del silenzio, che i merli forse conoscono meglio dell'uomo) e, quando Palomar si morde la lingua, sa di dover pensare che ciò che dice o non dice avrà implicazioni su ciò che sarà detto o non detto da altri.
Esistere, dunque, diventa per Palomar sinonimo di interpretare e interpretare, a sua volta, imprime delle inevitabili svolte all'esistenza. Nulla è e nulla è lo stesso finché l'io che lo percepisce è vivo, e allora l'unica soluzione, molto pirandelliana, al mutamento e, quindi, l'unico modo per ottenere una risposta sicura, è morire.
Palomar non è una lettura facile, confortante o risolutiva, anzi, come spesso accade con i libri che costituiscono i mattoncini della storia letteraria, è tutto il contrario. Fra le pagine non accade nulla, solo minimi incontri o dialoghi che non sono altro che il pretesto per innescare una riflessione. Talvolta risulta astruso, difficile da seguire, come del resto accade col ragionamento di ogni altro da noi e, non di rado, col nostro stesso flusso di pensieri. Palomar è però una raffinata e cordiale provocazione, e tanto basta agli appassionati della penna di Calvino.
La vita d’una persona consiste in un insieme d’avvenimenti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché una volta inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico ma corrisponde a un’architettura interna. Uno per esempio legge un libro importante per lui, che gli fa dire: «Come potevo vivere senza averlo letto!» e anche: «Che peccato che non l’ho letto da giovane!» Ebbene, queste affermazioni non hanno molto senso, soprattutto la seconda, perché dal momento che lui ha letto quel libro, la sua vita diventa la vita di uno che ha letto quel libro, e poco importa che l’abbia letto presto o tardi, perché anche la vita precedente alla lettura ora assume una forma segnata da quella lettura.
C.M.

Commenti

  1. Grazie Cristina per questa tua recensione, soprattutto le ultime righe che hai trascritto qui sopra sono di una bellezza e verità infinite. Comunque si sente molto "la diversità" tra un primo Calvino e un secondo più maturo... Forse è lo stesso Calvino ma portato ad uno stile e una ricerca più sopraffina e acuta.

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    1. Ho l'impressione che Calvino sia partito da storie narrativamente ben definite e "visualizzabili" solo per riflettere a poco a poco sulle possibilità di indagine, analisi e decostruzione. In un certo senso, è come un atista che dagli studi accademici convenzionali (anche se di convenzionale gli Antenati hanno ben poco) arrivi a soluzioni astratte, di concetto. Calvino si dimostra sempre, oltre che un abile narratore, un instancabile indagatore dello stile, della filosofia sottesa alla comunicazione e al pensiero. Per questo anche una rilettura delle sue pagine non appare mai superflua e stancante, ma ha sempre qualcosa di graffiante.

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  2. Buongiorno, Cristina, arrivo qui dopo aver letto del premio da parte di Luana Petrucci, ma in realtà mi ero già imbattuta in un tuo articolo sul vescovo Raterio da Verona. Innanzitutto complimenti per il blog, che già a una prima occhiata mi piace ma che mi riprometto di visitare a fondo. :) Ho letto con molto interesse il tuo articolo su "Palomar" di Calvino, e condivido ciò che dici nella tua introduzione a proposito dei suoi libri. Anch'io non lo sento del tutto nelle mie corde, pur riconoscendone il valore. L'anno scorso ho letto "Il castello dei destini incrociati", lo trovo geniale, tuttavia preferisco il classico romanzo con una trama da seguire. Avevo letto anche "Le città invisibili" e ho provato la stessa cosa. Ora, sulla scorta della mia visita a Palazzo Reale della collezione di gioielli e accessori Van Cleef&Arpels, ho comprato "Lezioni americane" in quanto nella spiegazione di ogni sala era inserito un passaggio tratto da quel libro che mi aveva incuriosito.

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    1. Benvenuta, Cristina, e grazie per l'interesse manifestato. Anch'io ho avvistato più volte il tuo blog e mi sono ripromessa di ripercorrere tutti i suggerimenti di Luana al più presto.
      Trovo che "geniale" sia la parola perfetta per descrivere Calvino: anche se un lettore non condivide le sue scelte, gli deve riconoscere la grande abilità compositiva, l'originalità, lo sperimentalismo ardito e la profonda riflessione sulla letteratura. Curioso questo abbinamento degli stralci delle meravigliose Lezioni americane alla mostra di Palazzo Reale: mi piacerebbe saperne di più!

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    2. Rispondo volentieri alla tua domanda: ogni sala era dedicata a un particolare aspetto del gioiello, collegato al tema presentato nelle pagine del libro di Calvino. Per esempio la prima sala presentava"la leggerezza", un'altra "l'esattezza" ecc. Ho trovato fantastica l'idea... e tra l'altro mi piacerebbe rivedere la mostra, anche per scattare delle foto da caricare sul blog! :)

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    3. Non conoscevo la mostra e anche ora che me l'hai nominata devo rivelare la mia ignoranza a proposito della collezione, ma trovo fantastico che un evento di questo tipo riveli uno studio così raffinato a livello progettuale. Fra l'altro leggo che l'ingresso è gratuito, quindi, potendo, un salto (o ri-salto) a Milano va fatto! :)

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  3. Ti dico solo che è il mio libro preferito in assoluto di Calvino, forse lo costeggia Il barone rampante.

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    1. Due testi quasi agli antipodi della vita letteraria di Calvino (per cronologia e per contenuto), eppure mi sembra che quell'ultima citazione che ho riportato relativa alla lettura possa valere anche per la scrittura: dal momento che Calvino ha scritto Palomar anche la sua precedente produzione è segnata da quella scrittura. Abbiamo di fronte un grande autore che ha avuto una lucida visione del proprio progetto e che avrebbe avuto ancora molto da darci e molte prove cui sottoporci.

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