Sommersione - Sandro Frizziero


«Non c'è futuro sull'Isola che, a ben vedere, altro non è che una cicatrice del mare.»
È un luogo dove il tempo sembra essersi fermato l'isola di Sandro Frizziero e del suo astioso personaggio. Un ottantenne burbero, rancoroso, misantropo che osserva la laguna e le vite di coloro che si consumano fra le sue terre a tratti coperti dal mare.
Sommersione, uscito la scorsa settimana per Fazi, è un romanzo senza particolari avvenimenti e senza morale, una riflessione di poco più di una giornata che il narratore intesse col protagonista, al quale si rivolge come se lo avesse davanti, ma estrapolando e interpretando i suoi pensieri, dando voce ad una matassa di riflessioni e ricordi e dipanandola poco alla volta, così da rappresentarci la coscienza dell'anziano abitante dell'isola.
Dell'uomo non sappiamo il nome, anche se conosciamo la sua storia familiare: la moglie, la Cinzia, devotissima frequentatrice della parrocchia, è morta per un male incurabile che il suo dio non le ha risparmiato e che non le ha nemmeno concesso di affrontare in modo rapido, la figlia, la Simonetta, ha lasciato l'isola come tutti i giovani, sposandosi e mettendo al mondo una bambina per la quale il nonno è un estraneo. Sembrerebbe la pietosa storia di un uomo solo, se non fosse che quest'uomo sembra meritarsi la solitudine: bastano poche pagine per farsi di lui l'idea di un marito violento, di un fedifrago frequentatore di prostitute, di un provocatore, di un odiatore seriale di chiunque rappresenti il suo prossimo: vicini di casa (e loro animali), amiche della Cinzia, il parroco, la cognata, qualsiasi persona dell'isola che non condivida con lui un tavolo e un mazzo di carte alla Taverna, cadente e sudicio locale che rappresenta il massimo della socialità.
La notte è fredda, a differenza del giorno; e nelle notti fredde, senza luna, quando l’Isola intera è avvolta dalla nebbia come se galleggiasse su una nuvola, a te manca l’aria. Tutto pare lamentarsi: i pesci e le alghe, il mare e il vento. Perfino i massi della diga, che potrebbero essere antiche e dimenticate sepolture, perfino i mattoni delle case, perfino l’erba che cresce ai margini della strada: tutto piange e soffre.
Il protagonista di Sommersione è un personaggio che può rientrare a pieno diritto fra i peggiori esseri umani dipinti dalla letteratura anche solo per gli atti che compie nel presente, ma si guadagna ancor più questo diritto quando il narratore, a forza di apostrofi, gli fa tirar fuori la sua storia, con un linguaggio brutale ma filtrato per rendere un inconscio cupo e inquietante comprensibile a noi lettori. Sandro Frizziero stabilisce il contatto narrativo, si sintonizza col registro basso, gretto e con le bestemmie che costituiscono l'intercalare biografico dell'anziano pescatore, ricorrendo all'artificio di un singolare straniamento per guidarci nel cuore di una storia che non è certo idilliaca e che non ha nulla di eroico o confortante, ma che è pur sempre una storia meritevole di essere raccontata.
Ecco dunque sfilare davanti a noi le esistenze quasi spettrali dell'isola: vite sempre uguali a loro stesse, intrappolate in giornate scandite dalla marea e dal via vai dei bagnanti sul lido come i pesci nelle reti che le hanno a lungo sostentate, vite in decadenza, avvinghiate ai pregiudizi come le cozze agli scogli, vite coperte di fango come i pesci dei fondali, alcune tutte prese dall'ansia di mondarsi sui banchi della chiesa, altre orgogliosamente coerenti nel disprezzo dell'altro. E intanto l'isola è consumata dalle acque che salgono e scendono annunciate dalla sirena, sempre più condizionate dal cambiamento climatico che minaccia la stessa esistenza di questo luogo ammantato dal mare e dalla nebbia.
Apparentemente, dunque, Sommersione non ha una storia. Piuttosto, è la rappresentazione di un simbolo, dell'associazione dell'isola ad un'idea mentale, quella che di essa ha il protagonista, la cui esistenza è rinchiusa nei confini della laguna. L'isola, scrive Frizziero, è una succursale dell'inferno che sta su questa terra, «una filiale dell’Ade per gente di mare». E questo luogo fisico che racchiude tutta la vita del vecchio protagonista diventa un luogo dell'anima, un terribile luogo dell'anima: è qui che lui fa i conti con il proprio passato, con i demoni che lo hanno posseduto e spinto a compiere atti che ora, alla fine della propria esistenza, può solo leggere come il segno di una maledizione che aleggia sugli esseri umani, destinati a soffrire senza speranza di giustizia o salvezza.
L'isola è un inferno laico, un crogiolo di dolore che sopperisce alla mancanza di un oltremondo divino. L'isola e le sue anime perdute, bestemmiatrici, astiose sono i testimoni di un profondo pessimismo che agguanta il mondo, soprattutto un piccolo mondo, un mondo che ha dei confini dentro i quali tutto ricorda il passato e gli spettri, gli incubi e le colpe rimangono spospesi, in un continuao cammino di espiazione, in una vana attesa di assoluzione.

Arnold Böcklin, L'isola dei morti (1883)
Non c’è limite al dolore e all’ingiustizia. E nessuno può far valere il suo serbatoio di sofferenza alla fine della vita. Sperequazione e ingiustizia, questo vuol dire vivere. E allora pensi di dover agire, di dover porre un rimedio. Perché il male, il male vero è fatto di discorsi vuoti, di parole di circostanza, di mezzi sorrisi di compassione, di mani giunte in inutili preghiere, di pacche sulle spalle, di false speranze. Non c’entra nulla il demonio col male vero; ce lo costruiamo da noi l’Inferno.
C.M.

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