Quando, nel 2017, ho letto Anime baltiche mi sono ripromessa di leggere
un po'alla volta tutti i libri di Jan Brokken e ogni piccolo passo verso
questo autore mi ha sempre più radicata nella convinzione che sia un
grande maestro del racconto e della ricostruzione storica, che riesce a
condurre con l'accuratezza richiesta a quest'ultima e il grande piacere
che porta ad apprezzare la buona narrativa. Infatti non si capisce mai
davvero quando Brokken ci stia offrendo un romanzo e quando ci istruisca
alla storia, talmente è abile nel muoversi in queste due dimensioni. Ne
deriva che ogni biografia di Brokken ha il fascino di un romanzo e i romanzi hanno la forza delle esperienze realmente vissute dai protagonisti.
Se
prima dell'autunno avevo conosciuto solo il Brokken biografo, anche
grazie a Bagliori a San Pietroburgo e a I giusti, con Il giardino dei
cosacchi ne ho gustato anche l'ammirevole talento di romanziere che non perde mai di vista la documentazione sulla
quale costruisce il proprio racconto.
Il giardino dei cosacchi
si rivela eccezionale fin dalla scelta dei suoi protagonisti: il
narratore è il barone baltico Alexander von Wrangel, il quale ricopre anche
il ruolo di protagonista accanto a Fëdor Dostoevskij, che conosce mentre
svolge le sue mansioni governative in Siberia, dove lo scrittore sconta
la condanna seguita all'accusa di attentato contro lo zar. Graziato all'ultimo momento
dall'esecuzione, Dostoevskij soffre l'esilio, l'impossibilità di
pubblicare i propri testi, il tormento di non poter ricevere il perdono e
uno stato di miseria e povertà che lo porta ad accumulare debiti. Fra
Alexander e Fëdor nasce una profonda e sincera amicizia, che fa sì che il primo riconosca in ogni pagina dei libri del secondo i riferimenti a
personaggi e vicende ben noti a entrambi, ma che, soprattutto, li porta
a condividere la tensione, lo struggimento e le delusioni dell'amore.
Evolvono infatti in modo parallelo la passione di Alexander per la
volubile Katija e quello di Fëdor per la sfuggente Marija, mentre,
giorno dopo giorno, i due amici si ritrovano a conversare nella dacia
chiamata "Il giardino dei cosacchi".
Fra le pagine di questo romanzo, edito come i precedenti da Iperborea, Jan Brokken ricostruisce due biografie imponenti, offrendo alla figura di Alexander von Wrangel una visibilità equivalente a quella del più noto compagno d'avventure. Alexander diventa il mezzo per adentrarsi nei disagi e nelle traversie del grande scrittore, ma rimane un personaggio a tutto tondo, con le proprie aspirazioni, i propri dubbi, i propri sentimenti, attraverso i quali si delinea il profilo di un giovane uomo che cerca la propria posizione nella società russa, scontrandosi con difficoltà, invidie e condizionamenti di vario genere.
La documentazione storica, fatta di lettere, diari, note e contributi critici, scivola fuori dal dettato narrativo, eppure è in esso sempre presente: il lettore non ne avverte il peso, ma può contare sulle note conclusive per cercare conferme e approfondimenti ed è certo che quanto sta leggendo sia una storia in gran parte reale che, però, ha la vivacità e l'intensità di un appassionante romanzo.
Fra le pagine di questo romanzo, edito come i precedenti da Iperborea, Jan Brokken ricostruisce due biografie imponenti, offrendo alla figura di Alexander von Wrangel una visibilità equivalente a quella del più noto compagno d'avventure. Alexander diventa il mezzo per adentrarsi nei disagi e nelle traversie del grande scrittore, ma rimane un personaggio a tutto tondo, con le proprie aspirazioni, i propri dubbi, i propri sentimenti, attraverso i quali si delinea il profilo di un giovane uomo che cerca la propria posizione nella società russa, scontrandosi con difficoltà, invidie e condizionamenti di vario genere.
La documentazione storica, fatta di lettere, diari, note e contributi critici, scivola fuori dal dettato narrativo, eppure è in esso sempre presente: il lettore non ne avverte il peso, ma può contare sulle note conclusive per cercare conferme e approfondimenti ed è certo che quanto sta leggendo sia una storia in gran parte reale che, però, ha la vivacità e l'intensità di un appassionante romanzo.
C.M.Ciò che mi stupiva di Fëdor Michajlovič era la sua indifferenza davanti ai fenomeni naturali; non lo toccavano, lo lasciavano freddo. Era completamente assorbito dallo studio dell'uomo con tutte le sue qualità, debolezze e passioni. Il resto per lui era d'importanza secondaria. Cercava e investigava fino a percepire la più piccola piega dell'animo umano. Sezionava come un anatomista, incideva sempre più a fondo, non era contento finché non metteva a nudo il cuore e l'anima.
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