Scompartimento n.6 - Rosa Liksom

Fra i viaggi più affascinanti e capaci di stimolare l'immaginazione c'è sempre stato, ai miei occhi, quello lungo la Transiberiana: un lunghissimo percorso su rotaie attraverso due continenti, fra luoghi abbandonati, snodi industriali, immensi scenari ghiacciati e punti di incontro fra culture diverse. Al tempo stesso, pensare di trascorrere tante ore in uno spazio chiuso, con la necessità di condividere uno scompartimento e i servizi con degli sconosciuti è quanto di più spaventoso possa esistere per me.
Ecco perchè Scompartimento n°6 della scrittrice finlandese Rosa Liksom (edito da Iperborea, traduzione di Delfina sessa) mi ha attirata fin da quando ne ho sentito parlare, sebbene poi sia finito in un angolino della lista dei desideri, da cui l'ho estratto qualche tempo fa.
 
 
Il romanzo è quasi interamente ambientato nell'angusto spazio che gli dà il titolo. Siamo alla fine degli anni '80, nel momento in cui le campane battono le ultime ore del'Unione Sovietica. Nello stesso spazio angusto si ritrovano due incompatibili compagni di un viaggio marzolino da Mosca a Ulan Bator. La prima è una studentessa di archeologia estremamente riservata, finlandese ma catturata dal fascino della Russia, attratta in Mongolia da alcune incisioni rupestri e dal bisogno di riordinare una vita stravolta dall'internamento in manicomio del fidanzato, che si è finto pazzo per evitare di essere mandato a combattere in Afghanistan; il secondo è Vadim, un manovale russo chiassoso, violento, misogino, xenofobo e volgare, nostalgico del prestigio della Grande Madre Russia, che riempie il tempo dei suoi luoghi comuni, del suo alcol e delle sue provviste alimentari. Le giornate intere in compagnia di Vadim risultano esasperanti e la sua compagna cerca il più possibile di svagarsi nelle pause del viaggio, anche per trovare il tempo di cui necessita per riflettere e abbandonarsi ai ricordi e al tentativo di dare ai frammenti del suo passato un ordine e delle spiegazioni sostenibili.
Nei dialoghi fra i due viaggiatori, che in realtà sono sproloqui a senso unico di Vadim, nei momenti che condividono durante la pause, spostandosi dalla stazione agli alberghi per turisti si mostrano due atteggiamenti complementari rispetto alla vita: quello contemplativo, riflessivo, pacato di lei e quello vitalistico, energico, irruente di lui; l'esigenza di ricavare nella storia uno spazio per la propria intimità da un lato, dall'altro l'incapacità di arrendersi all'evidenza che qualcosa della storia è passato, addirittura anacronistico e non si può più recuperare. I paesaggi desolati e degradati che il treno attraversa rispecchiano le diverse solitudini e il diverso disorientamento dell'anonima protagonista e del suo inevitabile accompagnatore.
Scompartimento n°6 non ha una vera e propria trama, ed è bene saperlo nel momento in cui ci si accosta al romanzo: fra le pagine si alternano descrizioni dai toni più vari, dal fiabesco di una natura estrema al crudo realismo delle baracche e delle città industriali fatiscenti, riflessioni malinconiche che spesso si traducono in analessi le cui pieghe vanno attentamente distese, dialoghi che sembrano non avere né capo né coda, perché diretti dall'indole passionale di Vadim. Gli avvenimenti sfumano in questa nuvola, riducendosi a qualche tappa di un viaggio la cui interiorità finisce, capitolo dopo capitolo, per rivelarsi preponderante sul percorso fisico. Il cammino dell'archeologa è l'esplorazione di un passato che si rivela sempre più il suo e sempre meno quello della Mongolia, un esperimento che deve provare la propria validità e la propria funzione nel contesto spiazzante di un incontro sgradevole, minaccioso all'inizio, rassicurante alla fine, in una regione e in una città sconosciute, solo perchè una giovane donna possa arrivare consapevolmente alla decisione di tornare indietro.

Questa non è più Mosca: una casa crollata sotto la neve, una pineta che ondeggia selvaggia nella morsa del gelo, una radura coperta da un manto ovattato, un tiepido vapore intrappolato tra cumuli nevosi, il buio, una piccola isba sperduta in un deserto bianco, nel giardino un melo incolto, una foresta imbacuccata di brina, palizzate intorno alle ville, una baracca di legno fatiscente. Davanti si apre una Russia sconosciuta, cristallizzata dal gelo, il treno fila sotto un firmamento stremato su cui spiccano astri luminosi e si precipita a capofitto nel profondo della natura, verso l'opprimente oscurità di un cielo plumbeo senza stelle. Tutto è in movimento: la neve, l'acqua, l'aria, gli alberi, le nuvole, il vento, le città, i villaggi, gli uomini e i pensieri. Il treno avanza pulsando attraverso il paese innevato.

C.M.

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