Segnalibri #9

Ho fatto appena in tempo a celebrare il decimo compleanno del blog, prima di essere sommersa di impegni che mi hanno poi tenuta lontana per oltre un mese. Fra queste una è stata del tutto gradita, un viaggio a Londra di cui spero di potervi parlare prima che i ricordi sbiadiscano e le sfumature si perdano; le altre sono state le normali incombenze quotidiane, in particolare quelle di un pentamestre che mi vede occupata ad accompagnare due classi quinte all'Esame di Stato e a prepararmi a "migrare" come commissario esterno.
 

Anche le letture ne risentono, sia per il ritmo sia per la precedenza accordata a quei classici della letteratura italiana e latina che devo rispolverare in vista delle lezioni, inoltre, sulla scia delle influenze londinesi, ho ripescato dagli scaffali Harry Potter, cogliendo l'occasione per leggere finalmente (e non più solo sfogliare) le edizioni de La pietra filosofale e La camera dei segreti curate da MinaLima e di riprendere la maratona abbandonata nel 2016.
Mi trovo quindi a parlare delle ultime prime letture in un unico post, riaprendo la rubrica Segnalibri per due romanzi molto diversi, sia per impostazione narrativa che per area di provenienza. Vediamoli in ordine di lettura.
 
Finché non aprirai quel libro di Michiko Aoyama (Garzanti) è, più che un romanzo, una raccolta di brevi racconti innestati sul filo conduttore di uno schema che si riproduce: in ciascuno troviamo un personaggio che sta attraversando un momento critico della propria vita, alla ricerca di una svolta o di una motivazione, che fa il suo ingresso in una biblioteca di quartiere, presso un centro chiamato Community House, e riceve dalla bibliotecaria, la signora Komachi, un libro e un particolare allegato, un oggettino da lei realizzato in lana cardata, che pesca da un contenitore che è stato in passato una scatola di biscotti. I suggerimenti di lettura della signora Komachi, non sempre immediatamente associabili ai loro destinatari, lasciano il segno nella giovane Tomoka, commessa demotivata che si trascina nelle sue giornate sempre uguali, in Ryō, che con la sua compagna vorrebbe avviare un'attività di vendita di antiquariato ma è terrorizzato dal rischio di non poter vivere di una passione, in Natsumi, che fatica a reinserirsi nel lavoro editoriale dopo essere diventata madre, nonostante il suo talento professionale, in Hiroya, che non ha avuto l'opportunità di realizzarsi come disegnatore e soffre di essere un disoccupato a carico della madre, in Masao, che deve adattarsi, dopo anni di lavoro nella stessa azienda, alla vita del pensionato. Per tutti la signora Komachi rappresenta una consulente silenziosa, intuitiva, sensibile ed efficace, pur nelle sue brevissime apparizioni.
Finché non aprirai quel libro è stato una lettura gradevole, non impegnativa, adatta a rapide sortite fra le pagine, con le sue storie autoconclusive. Ho però avuto l'impressione di rivedere lo schema dei romanzi di Kawaguchi, con il canovaccio fisso su cui sono impiantate le vicende dei diversi personaggi, con l'unica differenza che non si coglie lo sviluppo di una storia personale della bibliotecaria che fa da perno narrativo, mentre nella serie del caffé si conoscono i personaggi fissi. Complice il fatto che il libro di Aoyama ha la stessa provenienza geografica e lo stesso editore, ho avuto la sensazione che si stia puntando sulla commercializzazione di format collaudati e, considerando che già da Il primo caffé della giornata ho cominciato a soffrire la ripetitività di Kawguchi, qui l'effetto del già letto si è ripetuto. Considerando anche la similarità delle copertine, non vorrei che l'atmosfera Giappone+libri+caffé+gatti prevalesse sull'effettivo valore narrativo dei libri nipponici che stanno fiorendo nei negozi.
 
È stato invece un atteso e gradito ritorno a Joyce Maynard la lettura di Un giorno di festa (NN). L'autrice racconta ancora una volta, dopo il fenomenale affresco de L'albero della nostra vita, la storia di una famiglia divisa, scegliendo come voce narrante quella dell'adolescente Henry, che dal divorzio dei genitori vive con la madre, Adele. La vicenda prende avvio dall'inusuale incontro, in un negozio, con un uomo zoppicante, al quale i due procurano dei vestiti e che portano a casa con loro, offrendogli aiuto. Lo sconosciuto è Frank, fuggito dall'infermeria del penitenziario dove stava scontando una pena per omicidio, ma la sua condizione sembra non preoccupare minimamente Henry e sua madre, anzi, la naturalezza con cui il latitante, che nel frattempo è oggetto di frenetiche ricerche e compare quotidianamente nei notiziari, si inserisce nella routine familiare lo fa assomigliare sempre di più ad un marito e un padre, colmando un vuoto affettivo nella vita di entrambi. Henry non può evitare di chiedersi se la relazione di sua madre con Frank non sia destinata a separarlo da lei, se l'intimità che li lega, e che lui non può evitare di rapportare all'attrazione che lui stesso inizia a provare per le ragazze, non sia tanto forte da prevalere sulla coesione di quel che resta della sua famiglia. Henry, tuttavia, vede finalmente che Adele, dopo tanto tempo, è felice e spera che la vita che si preparano tutti a iniziare oltre confine possa essere davvero l'opportunità di ricostruire un nucleo di affetti sinceri. Il pericolo che Frank debba fare i conti con la propria condizione, con una pena che, qualora fosse arrestato, si allungherebbe notevolmente rispetto a quella originaria, sembra poco più che una formalità, tanto Adele pare accecata dal sogno in cui l'inaspettato incontro l'ha avvolta.
Sebbene non abbia ritrovato, in Un giorno di festa, la stessa emozione che mi aveva legata a Eleanor, monumentale protagonista de L'albero della nostra vita, il racconto di Maynard si è rivelato comunque coinvolgente, delicato e incisivo nella sua brevità. Ancora una volta l'autrice ha saputo tratteggiare l'incontro, l'incastro e anche la frizione dei sentimenti in un sistema familiare, mettendone in luce tutte le sfumature e sottoponendoli alla prova dell'imprevisto, del cambiamento e delle aspettative. Forse a farmi avvertire la distanza fra i due romanzi è stata anche la scelta del narratore, Henry, rispetto al quale non ho avvertito la stessa vicinanza che mi faceva desiderare di essere lì a sostenere Eleanor. Il romanzo ha però la sua coerenza, un suo valore, una sua capacità di colpire il lettore. Del resto la penna è sempre quella di Joyce Maynard.

Avete letto questi romanzi? Cosa ne pensate?
 
C.M.

Commenti

  1. Mi piace soprattutto l’idea di una donatrice di libri che col suo consiglio può aiutare una persona in difficoltà. Un modo per elevare il mestiere del librario o bibliotecario. Spesso per me i libri sono stati questo, in un dato periodo della mia vita mi sono letteralmente aggrappato a essi e vi ho trovato la salvezza. Joyce Maynard non l’avevo mai sentita, non dev’essere facile raccontare le sfumature della vita famigliare senza annoiare. È un genere che mi attira, terrò presente questo nome.

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    1. Per me Maynard è stata una rivelazione, il suo precedente romanzo mi ha colpita e frastornata di emozioni come pochi titoli eccezionali hanno saputo fare, perciò la consiglio e la consiglierò sempre.

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