Il mio arco riposa muto - Irene Vallejo

Negli ultimi anni ha ritrovato fervore la narrativa di ispiarzione mitologica, che ha offerto ai lettori l'opportunità di conoscere meglio alcune figure, anche poco note, o di avvicinarsi a versioni alternative o del tutto rivisitate delle loro storie. In questo filone di pubblicazioni si inseriscono, con ottimi risultati, i romanzi di Madeline Miller, La canzone di Achille e Circe, che prendono le mosse dai due poemi omerici e incrociano al celebre racconto le informazioni tratte da altri testi letterari.
 
Al mito virgiliano ha pensato invece Irene Vallejo, autrice di Il mio arco riposa muto (Bompiani traduzione di Monica R. Bedana), al quale si adatta solo in parte l'etichetta di romanzo dell'Eneide. La vicenda, infatti si limita all'incontro di Enea e Didone, all'intrecciarsi delle loro esperienze simili di esuli alla ricerca di una nuova terra e di un futuro a cui sia estranea la violenza, e si arricchisce grazie allo spazio concesso alla figura di Anna, sorella della regina di Cartagine, e di Iulo, il figlio di Enea. Irene Vallejo rivisita in chiave laica il mito tramandato da Virgilio, immaginandone anche la genesi nelle intenzioni del poeta, che vive l'incarico di scrivere il poema di Roma come un peso e non riesce a trovare che nella sofferenza dei due personaggi un'idea centrale da perseguire senza servilismi. Enea, allora, diventa un uomo logorato dalla guerra e dalla barbarie del sangue, orientato solo alla ricerca di un'oasi di pace; Didone, invece, soffre dello sfiorire della giovinezza e della privazione della maternità, mentre affronta la difficile condizione di essere una governante sola, oggetto delle mire di pretendenti stranieri che aspirano al suo potere. Alle loro orecchie sussurra Eros, una forza personificata che fa comunicare le loro debolezze e i loro desideri e li fa riconoscere nell'uguale infelicità e nell'identica speranza. Tutto, dunque, si muove per effetto dei sentimenti dei due protagonisti, per l'intreccio delle trame dei collaboratori di Didone, per l'intromissione dei disegni del re africano Iarba: tanto Eros e Anna si impegnano a congiungere le vite dei due amanti, tanto gli eventi intorno a loro trovano il modo di separarli e di produrre la tragica separazione.
Il romanzo che ne risulta è avvincente, interessante per l'intreccio di spunti mitico-fantastici e la capacità di ricondurli al verosimile di un racconto storico. Ben riusciti i personaggi di Enea, Didone e di Anna, quest'ultima una rivelazione rispetto allo spazio, limitato, di cui gode nell'Eneide: lo scavo nei loro sentimenti, nel loro passato e nelle loro paure è efficace e appassionante. In partcolare Vallejo ha il merito di ricordare ai lettori che la pena di Didone non è, banalmente, il dolore di una donna innamorata, la il dramma lacerante di una regina. Quello che non funziona è la sintesi di alcuni passaggi, la forte prevalenza del dialogo rispetto a qualche sequenza di ampio respiro che avrebbe reso memorabile la costruzione narrativa e contribuito alla patina antica.
C'è poi l'effetto di dispersione dato dall'intrusione della figura di Virgilio, che vaga per Roma interrogandosi sull'opportunità di servire Augusto e di piegarsi al ruolo di propagandista e sul modo di rendere accettabile prima di tutto a sé stesso la storia che sta componendo. Il racconto della genesi del racconto appare estraneo, un po' forzato, oltre che poco originale: ai dubbi di Virgilio aveva già dedicato un mirabile spazio Sebastiano Vassalli con Un infinito numero, risolvendoli in un'interpretazione decisamente più interessante. Vallejo opta per una scelta diversa: valida, se solo si fosse estesa alla seconda parte del poema (dove altri sventurati, dopo Didone, si confrontano con Enea), ma debole per l'abbandono in cui cade subito dopo essere stata esibita. C'è poi qualche imprecisione, che non so se sia da imputare alla penna o alla traduzione (la confusione fra i personaggi di Proteo e Prometeo o l'insistenza nel definire augusto imperatore, in luogo del più corretto principe).
Nel complesso Il mio arco riposa muto si fa leggere (l'ho scorso quasi d'un fiato), ma forse risente del limite dato proprio dal momentaneo successo del filone narrativo cui si ascrive: la necessità di produrre una storia breve e stimolante, che tocchi delle corde che vibrano facilmente ma la cui eco viene poi lasciata sfumare. Ci sarebbe stato, a mio avviso, materiale per produrre una storia ancora più accattivante e profonda, che scavasse ancor più nella figura di Enea attraverso il confronto con gli altri vinti del poema di cui è protagonista.

Gli umani mi chiamano dio dell'amore, ma a me piace di più dire che sono quello che tenta di colmare i cuori disabitati. L'amore non dipende da me, perché i vivi hanno piegoline interne che mi è possibile raggiungere. Io muovo i fili, creo l'occasione, favorisco gli incontri e il tornare a incontrarsi, costruisco le casualità; io instillo l'impazienza del desiderio. Non è poco: gli uomini e le donne non sanno quanto i loro amori siano legati alle occasioni che sorgono. In realtà, non esiste amore senza il caso. Non è sufficiente, però. Rimane il mistero della loro umana libertà, ce l'hanno dentro e a custodiscono in luoghi a me inaccessibili.
C'è di più: io, di tutto questo, sono solo testimone, perché a me non è mai successo Io tocco la nuca ai vivi e sento all'istante come freme la loro pelle. Li ascolto parlare dei piaceri che provano, delle gioie e delle nostalgie, ma io non le sperimenterò mai. Agli dèi sono negati due eventi: l'amore e la morte. Inutile dire che la nostra curiosità per entrambi è smisurata.

C.M.

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