Il romanzo che ne risulta è avvincente, interessante per l'intreccio di spunti mitico-fantastici e la capacità di ricondurli al verosimile di un racconto storico. Ben riusciti i personaggi di Enea, Didone e di Anna, quest'ultima una rivelazione rispetto allo spazio, limitato, di cui gode nell'Eneide: lo scavo nei loro sentimenti, nel loro passato e nelle loro paure è efficace e appassionante. In partcolare Vallejo ha il merito di ricordare ai lettori che la pena di Didone non è, banalmente, il dolore di una donna innamorata, la il dramma lacerante di una regina. Quello che non funziona è la sintesi di alcuni passaggi, la forte prevalenza del dialogo rispetto a qualche sequenza di ampio respiro che avrebbe reso memorabile la costruzione narrativa e contribuito alla patina antica.
C'è poi l'effetto di dispersione dato dall'intrusione della figura di Virgilio, che vaga per Roma interrogandosi sull'opportunità di servire Augusto e di piegarsi al ruolo di propagandista e sul modo di rendere accettabile prima di tutto a sé stesso la storia che sta componendo. Il racconto della genesi del racconto appare estraneo, un po' forzato, oltre che poco originale: ai dubbi di Virgilio aveva già dedicato un mirabile spazio Sebastiano Vassalli con Un infinito numero, risolvendoli in un'interpretazione decisamente più interessante. Vallejo opta per una scelta diversa: valida, se solo si fosse estesa alla seconda parte del poema (dove altri sventurati, dopo Didone, si confrontano con Enea), ma debole per l'abbandono in cui cade subito dopo essere stata esibita. C'è poi qualche imprecisione, che non so se sia da imputare alla penna o alla traduzione (la confusione fra i personaggi di Proteo e Prometeo o l'insistenza nel definire augusto imperatore, in luogo del più corretto principe).
Nel complesso Il mio arco riposa muto si fa leggere (l'ho scorso quasi d'un fiato), ma forse risente del limite dato proprio dal momentaneo successo del filone narrativo cui si ascrive: la necessità di produrre una storia breve e stimolante, che tocchi delle corde che vibrano facilmente ma la cui eco viene poi lasciata sfumare. Ci sarebbe stato, a mio avviso, materiale per produrre una storia ancora più accattivante e profonda, che scavasse ancor più nella figura di Enea attraverso il confronto con gli altri vinti del poema di cui è protagonista.
C.M.Gli umani mi chiamano dio dell'amore, ma a me piace di più dire che sono quello che tenta di colmare i cuori disabitati. L'amore non dipende da me, perché i vivi hanno piegoline interne che mi è possibile raggiungere. Io muovo i fili, creo l'occasione, favorisco gli incontri e il tornare a incontrarsi, costruisco le casualità; io instillo l'impazienza del desiderio. Non è poco: gli uomini e le donne non sanno quanto i loro amori siano legati alle occasioni che sorgono. In realtà, non esiste amore senza il caso. Non è sufficiente, però. Rimane il mistero della loro umana libertà, ce l'hanno dentro e a custodiscono in luoghi a me inaccessibili.
C'è di più: io, di tutto questo, sono solo testimone, perché a me non è mai successo Io tocco la nuca ai vivi e sento all'istante come freme la loro pelle. Li ascolto parlare dei piaceri che provano, delle gioie e delle nostalgie, ma io non le sperimenterò mai. Agli dèi sono negati due eventi: l'amore e la morte. Inutile dire che la nostra curiosità per entrambi è smisurata.
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