L'utilitarismo è il cancro della conoscenza

Grottesco, gretto, ottuso e irrispettoso. Sono solo alcune delle definizioni più raffinate che sto cercando di evocare per classificare l'inclassificabile intervento di Stefano Feltri su Il fatto quotidiano del 13 agosto, che si duole perché «purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell’arte». Già, in fondo «i ragazzi più svegli e intraprendenti si sentono sicuri abbastanza da buttarsi su Ingegneria, Matematica, Fisica, Finanza. Studi difficili e competitivi» e le facoltà umanistiche sono per studenti che «hanno voti bassi e non si sentono competitivi».

Immagine di Gert Altmann da Pixabay

Ah, che bella ventata di generalizzazioni gratuite, tanto per riempire pagine e pagine nel vuoto di Ferragosto. Ci mancava proprio una pillola di intelligenza pura, eh? Ecco, proprio no. Siamo stanchi di discorsi vuoti finalizzati a misurare il presunto livello delle persone in base alla loro attitudine culturale. Siamo arrivati al punto che è preferibile essere dei tappi di sughero senza un briciolo di consapevolezza di sé che dei letterati, filosofi, storici dell'arte. Lo abbiamo già visto, il gusto per il sapere e la stima per chi desidera conoscere sempre di più è in via di estinzione, tutto ha valore esclusivamente se misurato in denaro, se inserito nella classe A delle attività umane e sottratto alla brodaglia indegna di tutti quanti deviano da una tendenza o da una moda.
L'umanista, dunque, è un individuo di serie Z per il fatto che viviamo in un'epoca di decandenza culturale, e poco importa che un giornalista preferisca sfoderare dati sulla scarsa occupazione di questa categoria di esperti (sarebbe stato bello che questo termine emergesse in luogo dello strisciante 'sfigati' che si percepisce leggendo l'articolo) anziché mettere sotto accusa un sistema che non riconosce il valore di una cultura che per secoli ha permesso il progresso, la crescita e il funzionamento di intere nazioni. Ma chiedersi come dovrebbero funzionare le cose e impegnarsi a farlo sapere a tutti è molto più impegnativo che scrivere una sequela di sentenze irrispettose.
Sì, perché, in quanto laureata in Lettere e orgogliosa di esserlo, mi sento offesa da un giornalista che, godendo di un seguito di milioni di lettori, mi presenta a loro, attraverso le sue generalizzazioni, come una persona sprovveduta, con poca attitudine allo studio, con voti bassi e scarse ambizioni. Ho solo, come molti altri, preso un diploma, due lauree e un'abilitazione all'insegnamento con il massimo dei voti e affrontato tutti gli ostacoli che i vari governi mi hanno messo davanti per avere tutti i titoli necessari a diventare una docente, con la speranza di istruire ragazzi che amino usare la testa per essere autonomi, critici e responsabili, indipendentemente dal loro destino di studi o lavorativo e dal marciume che si troveranno intorno. Mi sembra che la speranza di sfruttare una cultura (anche umanistica) per formare cittadini rispettosi sia più che mai un'alta ambizione di questi tempi, esattamente come potrebbe essere per uno storico dell'arte esporre a chiunque lo desideri il valore di un'opera d'arte nel Paese che in assoluto ne detiene la maggior parte nel mondo.
Il problema, semmai, è nella secchezza culturale che non permette a chi ha una simile istruzione di sfruttarla a dovere, ma questo accade proprio per la diffusione dell'ottica utilitaristica cui Feltri dà voce senza prenderne le distanze. I suoi dati possono anche essere corretti, si sa che la formazione umanistica non paga, ma i toni, anziché stigmatizzare la stortura del sistema in cui viviamo e degli errati investimenti che hanno negli anni logorato la cultura, cadono nell'offensivo, e quel «purtroppo» la dice lunga. Nel suo secondo pezzo, publicato il 14 agosto in risposta alle polemiche (alcune anche di tono personale, che minano la validità delle altre con argomenti che nel dibattito non dovrebbero entrare), Feltri parla di letterati che vogliono fare gli «intellettuali bohemien» e usa formule come «studiate pure quello che vi pare [...] ma nessuno ha il dovere di pagarci per il resto della vita uno stipendio se quello che piace a noi a lui non interessa». Il che è come dire che se oggi la produzione industriale danneggia le eccellenze artigianali e agroalimentari, chi sceglie di coltivare le tradizioni è un perdente che non ha capito come va il mondo. Vero, gli idealismi crollano di fronte all'analisi della cruda verità, ma la stortura è in chi si ancora ai propri valori, talenti, passioni e alle proprie competenze o nel sistema che calpesta tutto ciò. Sarebbe stato bello che Feltri, nel fare il Nostradamus del XXI secolo, spendesse una parola al riguardo, invece che definire «poco svegli» gli umanisti.
Dal suo primo articolo emerge che lo studente intelligente non studia Lettere o Filosofia, studia Economia, Ingegneria, Fisica. La conseguenza prodotta nella mente di chi segue questo pensiero non può che accentuare la deriva culturale, portando a chiedersi: «E allora perché dovremmo pagare un insegnante di Lettere o Filosofia, finanziare la ricerca in questi settori, tenere aperti i musei, puntellare i muri di Pompei prima che vengano giù fino all'ultimo mattone?» Che gli studenti si riversino in massa entro le mura delle facoltà tecniche ed economiche (contro le quali, sia ben chiaro, non ho nulla, non essendo io una persona abituata a stilare classifiche di ruoli e lavori) anche senza un briciolo di attitudine e interesse a questi studi: meglio un mediocre economista che un eccellente filologo, ci dicono gli utilitaristi. Faccio solo notare che tutta la sapienza economica accumulata nell'ultimo secolo non ha evitato (per non dire 'ha provocato') la successione di almeno tre enormi crisi mondiali e che fior fior di colleghi di Feltri saliti al governo sono stati totalmente incapaci di prevedere quella attuale e di farvi fronte... forse non sono queste le uniche conoscenze utili alla società contemporanea, e un po'di bilanciamento umanistico della questione (in termini storici, per esempio) avrebbe forse aiutato.
Anche se la normativa scolastica non solo italiana ma europea non facesse riferimento alla costante necessità di una formazione che tenga conto delle attitudini e delle capacità dei singoli studenti, ritenere auspicabile l'omologazione delle conoscenze attorno a poche discipline e l'eliminazione degli scarti di ciò che è percepito come inutile è a dir poco spaventoso. Appiattiamoci, diventiamo tutti uguali, abbandoniamo le peculiarità di un sapere che, nel suo essere umanistico, riflette ciò che è proprio dell'uomo: il bisogno di avere una visione completa della realtà, di dialogare e costruire una comunicazione di qualità, di spiegare i fenomeni nel tempo e nello spazio, al di là del momentaneo impennarsi di un indice di borsa.
Cosa autorizza Feltri o le sue fonti a dire che le facoltà umanistiche sono più facili delle altre? Vengano a seguire corsi di filologia greca, grammatica latina, glottologia e linguistica, letteratura in lingua straniera e filosofia, perdano gli occhi su testi antichi che vanno interpretati nella loro complessità, nella ricostruzione dei rapporti storici fra le popolazioni in base ad una o due parole, scrivano tesi che incrocino gli studi ermeneutici e antropologici di secoli e secoli e mi dicano se è così facile. E poi leggano Dante senza una nota, imparino e comprendano la successione degli avvenimenti storici dal 3000 a.C. ad oggi e con queste conoscenze superino un concorso ad accesso più che selettivo. Solo dopo tutto questo si permettano di dire che la vita dell'umanista è una pacchia per studenti svogliati.
Voglio forse dire che tutti gli studenti di Lettere, Filosofia, Storia dell'arte siano dei geni talentuosi? No, perché cadrei in una generalizzazione uguale e contraria a quella di Feltri: persone che si impegnano e si sacrificano per la loro carriera di studio o di lavoro si incontrano in ogni settore, esattamente come studenti e lavoratori svogliati. I muri di una facoltà non bastano a discriminare talento e fatica da mediocrità e indolenza. E, dato che ci sono, esprimo pubblicamente anche il mio sdegno di fronte a coloro che si sentono costantemente autorizzati a minimizzare i successi di un letterato dicendo che «beh, in fondo fa Lettere, mica Ingegneria», ma poi lo studente di Ingegneria è giustificato anche se rimane fuori corso dieci anni. Entrambe le casistiche e i pregiudizi (la facilità del percorso umanistico e la legittimità del procrastinare le lauree 'difficili') vanno a vantaggio unicamente delle Università e dei suoi baroni, che, comunque, fanno soldi sugli svogliati che scelgono una presunta scorciatoia o si accampano in pianta stabile in quello che i più considerano il Cocito degli studenti. Generalizzare fa bene solo all'istruzione peggiore.
Vogliamo risolvere ogni problema e mettere a tacere queste discriminazioni? Test di ingresso con sbarramento per tutte le facoltà e durata massima degli studi (con tutte le eccezioni del caso per studenti-lavoratori e simili, per evitare altre derive imbarazzanti come quella di Michel Martone nel 2012). Solo così avremo la certezza che ogni studente, umanista o economista che sia, si veda riconosciuti sacrifici e risultati in maniera inattaccabile, oltre che garantire una corrispondenza col fabbisogno del mondo del lavoro. Tengo, però, a precisare che non è solo il lavoro il motivo per cui si studia: sarebbe bello cominciare a pensare anche all'amore per la propria formazione, in conseguenza del quale si dovrebbe trovare una congrua professione.
Quanto al discorso sulle opportunità lavorative, ci sarebbero ancora due cose da dire. Innanzitutto, nei tre anni trascorsi dalla mia Laurea magistrale, non ho avuto né minori né maggiori opportunità rispetto a tanti colleghi economisti o ingegneri. Nel 2013 ho partecipato ad un campus organizzato da AlmaLaurea per l'orientamento dei neolaureati nel mondo del lavoro o della specializzazione post-universitaria e, udite udite, assieme a me, povera letterata, c'erano anche dottori in Economia e Ingegneria che sentivano i problemi della crisi occupazionale quanto me. Aggiungo che, dopo un corso in Comunicazione degli eventi, ho avuto una proposta di stage presso un'importante azienda locale che mi ha preferita a laureati in marketing proprio in virtù della mia formazione (io poi scelsi uno stage in una fondazione teatrale, che abbandonai per iniziare ad insegnare, ma questa è altra storia). Ho poi iniziato a fare, saltuariamente, il lavoro che desideravo, in condizioni precarie esattamente come quelle di molti dottori in economia e, anzi, ho iniziato a lavorare anche prima di alcuni di loro. Il mondo del lavoro richiede una buona dose di fortuna e la capacità di cogliere occasioni, la lungimiranza nelle scelte... non è il solo titolo a fare la differenza. In secondo luogo si vedono ogni giorno ingegneri contesi dalle aziende metalmeccaniche per fare il lavoro di operai con o senza qualifica tecnica, il che non vuol certo dire che siano scelti per il loro titolo di studio: molti datori di lavoro bramano i laureati per assegnare loro le mansioni di chi non ha titoli specifici. Ripeto ancora una volta che non sto distinguendo i meriti di diverse categorie di lavoratori, ma cerco di dimostrare che anche il valore dato a specifici diplomi o lauree è, in molti casi, poco più che uno specchietto per le allodole.
Il punto è che il «purtroppo» di Feltri sbaglia bersaglio. L'errore non è di coloro che decidono di seguire il proprio talento e la propria passione, ma della realtà culturale distorta in cui costoro vivono e con la quale ci si aspetta debbano scendere a patti, rinunciando alle proprie ambizioni (che non sono necessariamente piccole e insignificanti come crede il vicedirettore de Il fatto quotidiano) e prendendo una strada che li porterà ad essere uguali a tutti gli altri e ad ottenere risultati mediocri. 
Il punto è anche un altro, però. Mancano il rispetto e la capacità di vedere nelle persone qualcosa più che un'alterità da contrastare, giudicare, annientare, sminuire. Perché assumere ogni volta un punto di vista superiore dal quale sentirci in diritto di dire chi sbaglia e chi no nel condurre la propria vita? Meglio per gli ingegneri, se non ci saranno filosofi pentiti a soffiare loro il posto!
Distinzioni fra studenti o lavoratori di serie A e di serie B non dovrebbero esistere: ciascun individuo deve essere valutato per il suo impegno e per i suoi risultati, quale che sia l'ambito in cui è chiamato ad operare o che sceglie di fare suo. Quest'ottica generalista è solo un filtro dannoso nella costruzione dei rapporti interpersonali e sociali. In più è proprio da prese di posizioni così rigide che si origina la tendenza all'accettazione costante di ogni stato di cose e si soffoca la possibilità di ristrutturare ciò che si è perso.
Mettersi a disquisire su presunti abissi fra il valore della cultura tecnico-scientifica e quella umanistica è un pessimo vizio dell'era contemporanea, che, purtroppo, sta entrando anche nelle scuole. L'articolo scritto da Feltri in risposta alle polemiche scatenate dal primo intervento dimostra questa convinzione: le critiche, a  detta di Feltri, sarebbero dovute al fatto che in Italia non accettiamo il sapere scientifico dei numeri e identifichiamo la cultura solo con il sapere umanistico. Feltri, evidentemente, dimentica ancora una volta non solo che gli Umanisti si occupano da sempre anche di scienza, bastino come esempi Democrito, che ha ipotizzato l'esistenza degli atomi nel V-IV secolo a.C., Plinio, che, per conoscere la natura, ha addirittura lacrificato la vita, l'impatto filosofico delle tesi di Galileo, per non parlare del Nobel per la letteratura Quasimodo, che aveva intrapreso una carriera da ingegnere. Feltri sembra inoltre non notare che è stato lui il primo a mettere la questione su un piano scienza vs letteratura.
Il vero umanista accoglie ogni forma di sapere con entusiasmo e passione, mentre chi si preoccupa di definire conoscenze di maggiore o minore valore fa un torto alla cultura stessa. Si dimentica che la cultura non è fatta di compartimenti stagni, ma di incontri e scambi.
Sarebbe troppo facile usare con Feltri e altri utilitaristi la carta dell'imprescindibilità degli studi umanistici in alcuni settori oggi considerati vincenti, spiegando loro che se oggi le 'persone di successo' studiano la fisica è anche perché qualche latinista ha continuato a tradurre e pubblicare gli scritti di Newton e Galileo o che, se si riescono a ottenere milioni di euro dagli ingressi ai musei e ai siti greco-romani è perché storici dell'arte e archeologi hanno restituito grandi capolavori al mondo. E questo non significa deprezzare gli studi scientifici, anzi.
O è forse la consapevolezza dell'irrinunciabilità di tutto questo che spaventa chi non riesce a capirne il valore al punto di tollerarne e incoraggiarne il declino?

C.M.

NOTE: Per ampliare e godere di una lettura alternativa dell'intervento di Feltri, suggerisco l'appassionato post di Valentina su Criticissimamente e quello più puntuale e rigoroso di Hamilton Santià, dal titolo La cultura qui aveva molto valore, che contiene un pregevolissimo riferimento a Olivetti, che di umanisti ne conosceva tanti e capiva l'importanza della cultura anche nella propria impresa.

Commenti

  1. ti sei data anche troppa pena per il personaggio, ma hai fatto bene a ribadire il punto. sorprende però che sia il fatto a dar spazio a queste ristrettezze.

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    1. Ne sono rimasta sorpresa anch'io: solo la settimana scorsa usavo un altro pezzo della stessa testata perché è stata fra le poche a promuovere delle riflessioni ponderate e fondate sulla cosiddetta "educazione di genere", mentre oggi mi trovo a doverne stigmatizzare le generalizzazioni.

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  2. Sono già intervenuta sulla questione nel blog di Valentina.
    La mia ulteriore sorpresa riguarda i successivi tentativi dell'autore del disgustoso articolo di manipolare idee e lettori, "rispondendo" alle polemiche scaturite dal suo primo pezzo (articolo è termine eccessivo, in questo caso).
    Mi ripeto: non si evidenzia come nel nostro paese la cultura abbia un ruolo marginale, sia bistrattata, come si potrebbe investire su di essa e via così. No, si dice che è accessoria, superflua e che chi se ne vuole occupare, beh tanto sveglio non è.
    Ho paura che l'idea (dura definirla tale, eh!) di fondo sia piuttosto diffusa, purtroppo.

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    1. Ho già letto e apprezzato il tuo intervento su Criticissimamente e sono contenta che tu abbia partecipato anche alla nostra riflessione. E purtroppo devo convenire con te a proposito di questa percezione: Feltri incarna una posizione che sta guadagnando sempre più terreno, con la conseguente svalutazione della nostra cultura e del rispetto per chi ancora la rappresenta. Se tutta questa grettezza fosse stata confinata al primo pezzo si sarebbe potuto liquidare con un'alzata di spalle, ma la perseveranza nel tentativo di giustificare delle posizioni così offensive (anche nei toni, come se Feltri si ergesse in cattedra) è a dir poco vergognosa.

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  3. Perché? Perché sento in cuor mio che questo mirabile "bocconiano" sia perfettamente al passo dei tempi, di questa deriva culturale, politica, sociale? Ha ragione chi ha scritto che troppo peso sono state date alle sue parole - pure mal scritte - perché questi sedicenti cronisti dell'era post modern cercano la notorietà a basso costo e puntano su termini come quel "purtroppo" e "poi sono affari vostri". Un linguaggio immediato e necessariamente non-umanistico, anzi "anti". "Anti" tutto ciò che può fare pensare alla cultura umanistica.
    I miei polpastrelli fremono, vorrei continuare, ma ho ahimè poco tempo.
    Dico grazie a te, per aver difeso strenuamente questa nostra formazione, con un articolo da leggere e rileggere.

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    1. Ahi, Luz, immagino la tua rabbia, pari alla mia, se non ancora più forte. Hai fatto benissimo ad aggiungere le tue considerazioni sulle espressioni usate da Feltri, veramente "anti" tutto: sono la negazione di una comunicazione curata e mirante ad uno scopo che non sia quello di smuovere un po'di polvere. Ed è questo che Feltri ha fatto, gettanola nelle bocche di chi respira la cultura per far divertire qualche mente di orizzonti limitati. Ha usato gli umanisti (ma più in generale coloro che alla letteratura, al pensiero e alle arti danno ancora qualche valore) come marionette da agitare davanti ad un pubblico che si accontenta di poco.

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  4. "Faccio solo notare che tutta la sapienza economica accumulata nell'ultimo secolo non ha evitato (per non dire 'ha provocato') la successione di almeno tre enormi crisi mondiali e che fior fior di colleghi di Feltri saliti al governo sono stati totalmente incapaci di prevedere quella attuale e di farvi fronte... forse non sono queste le uniche conoscenze utili alla società contemporanea, e un po'di bilanciamento umanistico della questione (in termini storici, per esempio) avrebbe forse aiutato".

    Chapeau!

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    1. Peccato che questa considerazione non sfiori minimamente Feltri, che, anzi, butta la questione della disoccupazione sul piano del folle idealismo degli umanisti. Bel modo di analizzare i problemi quello di invertire cause e conseguenze.

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  5. Feltri è l'ultimo arrivato in questa piccola caccia alle streghe classiche che vedo portare avanti già da una decina di anni almeno.
    Quando mi iscrissi a Lettere moltissime persone mi fecero dei sarcastici auguri, con un pessimo sorriso amaro sulle labbra, e durante gli anni in tanti hanno insistito sul tasto della presunta inutilità degli studi umanistici.
    Eppure un Paese che rinuncia alla propria cultura classica (che nel nostro caso è veramente basilare) è un Paese che non cresce, che si chiude su se stesso in nome di logiche di mercato e di utilitarismo.
    Sono convinta che ogni ramo di studio abbia la sua importanza e che, come tante fettine di una grande torta, sia da considerarsi come parte di un tutto.
    Svilire così la cultura classica che è la nostra culla è irrispettoso e triste; mi dà l'impressione di un tentativo di "fingere" quel che non si è in nome dello stare al passo con i tempi.
    Una cosa che poi non serve, visto che non è certo per il numero di laureati in discipline umanistiche che siamo indietro rispetto ad altri Paesi!
    Se non ci crediamo noi nei nostri punti di forza, nell'importanza della cultura umanistica, chi dovrebbe farlo?

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    1. Sono più che d'accordo con ogni tua parola, anche se in questo Feltri ci giudicherebbe, secondo quanto scritto nel suo terzo pezzo (adesso si è esaltato e le spara sempre più grosse), dei conservatori di destra o renziani convinti che l'Italia sia solo il Rinascimento. Per lui il mondo è diviso in due: da un lato gli illuminati del progresso misurabile e dall'altro gli incompetenti da classificare secondo categorie politiche (ma perché, poi?!).
      Le sue uscite sono imbarazzanti, non si rende nemmeno conto che è stato lui a lanciare una presunta guerra fra saperi e che comunque è solo nel settore culturale che il nostro Paese può essere competitivo, per non dire insuperabile. La sua "legge del mercato" dovrebbe farglielo capire, al di là del fatto che la cultura è auspicabile già in sé e per sé.

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  6. Quanto sono odiose le generalizzazioni. Che poi non si capisce se nascono da un’ignoranza di fondo, ossia dalla fretta di scrivere su un determinato argomento senza indagarne bene tutte le cause e i vari aspetti, oppure dal desiderio di suscitare polemiche per attirare maggiormente l’attenzione su di sé. Purtroppo oggigiorno c’è una superficialità sempre più dilagante nell’affrontare certe tematiche, come del resto si moltiplicano anche gli errori di sintassi e ortografia, che guarda caso sono tipici (senza voler generalizzare!) di molti giornalisti.
    L'articolo che hai scritto è molto intelligente e ben calibrato, e le immagini che hai scelto non potevano essere più significative.

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    1. Mi sembra che "superficialità" sia la parola più calzante e allo stesso tempo educata che si possa usare per classificare gli interventi di Feltri, che ha pure l'aggravante della perseveranza.
      Sono sempre più convinta che i due aspetti cui riconduci il problema, cioè la fretta di sfornare un pezzo, quale che sia, e volontà di suscitare polemiche, siano sempre più legati in un modello di "giornalismo" degradato e per nulla orientato ad informare e nutrire il pensiero critico. E qui mi fermo, perché sulla degenerazione della comunicazione si dovrebbe aprire un dibattito a parte.
      È comunque indubbio che tanta insistenza da parte di Feltri stia tenendo attive le pagine del quotidiano online e sui social: basta aver letto solo un link ad uno dei pezzi per essere infestato da suggerimenti di altri articoli. Sarà umiliato dalla consapevolezza che "purtroppo" gli umanisti leggono il suo giornale o sarà, piuttosto, soddisfatto di averli stuzzicati? In ogni caso è un comportamento gretto e superficiale.

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  7. Anche io sono rimasta scandalizzata da questo articolo. Poveri umanisti!

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    1. Valivi, ma tu come hai potuto abbandonare la strada degli studenti svegli e imboccare quella di noi parassiti umanisti?!? :P

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  8. Ecco presente l'ennesima, inutile laureata in materie umanistiche! Gli "articoli" di Feltri sono giunti proprio nel momento più appropriato: la scorsa settimana ho affrontato un colloquio di lavoro durante il quale, benché fossi stata scelta proprio perché laureata in materie umanistiche, la mia formazione è stata sottoposta alle considerazioni più scriteriate del datore di lavoro. Della serie "Eh, ma se volete tutti insegnare... Per forza non trovate lavoro", "Dovrai scrivere molto per questo lavoro, ma mi raccomando non in maniera creativa come fate voi laureati in Lettere", "Ah? ti piace leggere? Si vede che hai il tempo per farlo, io di certo non ne ho". E nemmeno continuo perché potrei continuare in eterno. Anzi pensaavo di usarlo come spunto per un articolo sul blog prima o poi.

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    1. Credo che in un eventuale articolo, che non voglio certo perdermi, avresti molto da raccontare, poiché suppongo, immaginando esperienze comuni, che non sia stato l'unico incontro di questo tipo. Mi domando perché siano tutti lì a giudicare le scelte di noi umanisti (all'economista senza lavoro non si permetterebbero di rinfacciare la disoccupazione, anche fosse il più sfaticato e menefreghista studente di questo mondo), quando poi, con certi atteggiamenti, dimostrano di avere sempre più bisogno delle nostre competenze. Pare che il nostro sapere sia una sorta di dono caduto dal cielo, non conquistato con fatica, anzi, quasi un handicap e, francamente, sono proprio stufa di tanta ottusità e credo sia ora, quando possibile (ma temo che un colloquio non rientri in questa casistica), di iniziare a distribuire ombrelli e biglietti di sola andata per Quel Paese.

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  9. Stenderei un velo pietoso sulle argomentazioni di un personaggio che ha basato la sua carriera sulla denigrazione del nemico di turno dei suoi vari padroni. Il discorso è risolto nel momento in cui il concetto di cultura e di conoscenza diventano una condizione sine qua non nella formazione dei giovani. Un valore. Indispensabile. Irrinunciabile. Poi, la specializzazione e l'indirizzo professionale diventano un completamento del cursus del giovane. Oggi tutto ciò non esiste, se non in sacche privilegiate o in segmenti di società animate da individui di buona volontà. La cultura e il sapere non sono un lusso o un orpello inutile, sono libertà. crescita, sviluppo. E' essere umani anziché semplicemente esseri viventi.

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    1. Non aggiungo altro, le tue ultime righe hanno espresso alla perfezione un concetto essenziale.

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  10. Ti ringrazio, alle volte penso di essere eccessivo da risultare persino supponente, è che ho figli adolescenti così pieni di sogni e aspettative da provare un dolore fisico nell'ascoltare certe imbecillità accreditate dal solo fatto di avere rilevanza mediatica grazie alla patente di "giornalista".

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    1. Tutto quello che dici ti fa onore, i supponenti sono quelli come Feltri.

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  11. Il mio buon ferragosto sul blog parla anche di questo, gli auguri sono ovviamente uno spunto.

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  12. Lo chiamavano "Il profeta" a Feltri...
    http://alessiapizzi.blogspot.it/2015/08/addio-colleghi-umanisti-siamo-giraffe.html

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    1. Grazie per il link, sono andata a leggermi il tuo intervento e mi rammarico insieme a te per la situazione, che hai riassunto in modo molto efficace. Ora vengo a commentare anche da te.

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  13. Feltri sbaglia argomentazione, ma il problema è reale. Ci sono corsi di laurea con pochissimi studenti (qualche anno fa Fisica era considerata una "laurea panda", credo anche adesso) che offrono un più facile inserimento nel mondo del lavoro. Nel nostro Paese è la cultura scientifica a essere snobbata, fino al punto di vantarsi di non saper fare 2 + 2. E una delle cause è anche il percorso scolastico, almeno secondo la mia esperienza. Questo è un problema ed è reale, come dicevo in apertura, perché ci sono tante eccellenze che sopravvivono a stento e non si sognano neanche di imbastire una polemica vecchia e sterile.

    Poi, a dirla tutta, non avrei messo "Finanza" fra i corsi di laurea da proteggere, perché credo che Economia sia ovunque tra le facoltà più affollate (nella mia università era così).

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    1. In merito al sovraffollamento dei corsi di Economia non posso che confermare quanto dici e credo che nessun dato ufficiale potrebbe smentirci. Il mercato del lavoro è saturo o si sta saturando anche di dottori in Economia, che presto saranno trattati come i letterati di oggi, dato che, periodicamente, la lista delle facoltà "utili" si modifica (ai miei tempi sembrava esistere solo informatica, adesso gli informatici sono troppi).

      Come scrivevo nel post, il problema dell'elevato tasso di disoccupazione degli umanisti messo in luce da Feltri esiste, quello che non tollero è il trattamento da cretini e fannulloni che costui ha riservato a letterati, filosofi ecc, peraltro ignorando gli argomenti che dovrebbero fargli correggere il tiro e che non sto a ripetere.

      Quanto alla scarsa considerazione per la cultura scientifica in Italia, posso solo portare la mia esperienza di osservatrice, dicendo che ho sempre visto attribuire maggiore stima agli studenti di fisica o medicina, più che ai miei colleghi e che, pur avendo studiato in un liceo classico, nel triennio ho avuto una bella immersione scientifica (in 3^ più chimica che greco, tanto per fare un esempio, e poi c'erano la biologia, la chimica, la fisica e, naturalmente, la matematica). Esistono, guardando ai quadri nazionali, indirizzi di studio che non fanno mancare la possibilità di approfondimento scientifico e tecnico, il problema è che, forse, molti insegnanti non gestiscono adeguatamente l'autonomia (un docente di latino può benissimo selezionare autori e opere accentuandone la componente scientifica, per esempio, o si può proporre la filosofia della scienza, anziché il solito programmino di storia della disciplina da Platone a Heidegger - problema che nasce da un altro problema, come scrivevo - in modo molto riduttivo, mi accorgo ora - qui).
      In merito alla questione, però, tu che sei del settore puoi avvertire in modo più intenso i problemi, lo snobismo nei confronti delle discipline scientifiche e i pregiudizi che le investono, di cui non nego certo l'esistenza. Però non credo di allontanarmi molto dalla realtà se dico che questa scarsa considerazione che tu testimoni nasce dalla stessa che io percepisco nei confronti del mio ambito di studi: la cultura è disprezzata in ogni sua forma, l'istruzione è presentata come un orpello di cui si può fare a meno. Il problema di fondo è l'ignoranza, che produce il qualunquista che pensa sia inutile restaurare un dipinto quanto quello che ritiene inutili le ricerche sull'Universo. A tal proposito, credo potrebbe interessarti leggere il post La straordinaria importanza di fare cose inutili.

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    2. Ciao Salomon, le opinioni sono tutte rispettabili, l'essere più o meno concordi fa parte della normale dialettica. L'errore di feltri, grave a mio parere, è stato di mettere in contrapposizione due tipi di impostazione. Se a disquisire sono le due mie vicine di casa preoccupate per il futuro dei figli lo accetto, ma se a farlo è un giornalista che ha credito e che potrebbe, volendo, influenzare una corretta e soddisfacente riforma della scuola... bè è inammissibile. Per non parlare dell'influenza che potrebbero avere i suoi articoli nel favorire un terreno fertile affinché i giovani possano trovare un lavoro serio, altro che jobs act delle mie palle. Tutto lì. Non può essere che in una nazione come l'Italia si facciano distinzioni tra cultura di serie A e di serie B. Il problema è reale, come dici tu, ma è un problema creato dalle classi dirigenti, è lì che bisogna cambiare rotta. Ho sempre detto che andiamo incontro a una società di "manovali evoluti", senza cultura e senza senso critico, attenti alle esigenze di mercato. Con questo sistema un popolo non va avanti, al massimo si può dedicare al terziario avanzato.

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    3. Non sono un grande esperto di mondo del lavoro, ma mi sento di dire che in molti casi uno l'università se la potrebbe risparmiare, se proprio vogliamo parlare di utilitarismo. Feltri non considera che in molti casi la qualifica non serve, leggo persino di casi in cui è un ostacolo all'assunzione. Il mio contributo non voleva essere un supporto a Feltri. Penso che qui si sia limitato a prendere due fenomeni (la cultura umanistica, da lui considerata poco utile, e le difficoltà dei giovani a entrare nel mondo del lavoro) e metterli insieme, senza che vi sia necessariamente una correlazione, ravvivando una antica contrapposizione. Divide et impera. Dal mio contributo si può facilmente creare un parallelismo, per dire che, in un modo o nell'altro, tutte le forme di cultura andrebbero tutelate, anche in questo momento storico.

      @Cristina: grazie, andrò a leggere!
      Io ho fatto il classico, poi Fisica, quindi ho vissuto i due mondi. Oggi i miei interessi sono perlopiù umanistici, ma lavoro in un ambito dove le le competenze scientifiche più o meno mi sono utili. Non credo nella separazione della conoscenza e proprio per questo mi danno fastidio entrambi gli estremi... ma non dico che tu stia agli estremo, mi riferisco piuttosto ad altri, come quel filosofo che imbrattò muri qualche tempo fa contro le "forze gravitazionali".

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    4. Gli estremisti non dovrebbero mai avere voce. Se si comprendesse l'importanza di tutelare tutte le forme di cultura (e quindi di formazione), come dici tu, avremmo risolto molti dei nostri problemi in termini di qualità delle professionalità in ogni settore che richiede un'alta formazione e di riconoscimento della stessa. Vedremo mai quel giorno?

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    5. @Salomon, non fraintendermi, non era una critica a te, ho solo preso l'abbrivio dal tuo commento per continuare il discorso su Feltri. Se ti sei sentito criticato me ne scuso, non era mia intenzione. Sono io che come al solito, preso dall'entusiasmo, parto in quarta.

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    6. @Massimiliano, nessun fraintendimento. Non l'ho presa come una critica. E' umano lasciarsi prendere dall'entusiasmo!

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  14. Cara Cristina, ti ringrazio per aver citato il mio post e il mio disappunto, sentito e appassionato, come lo hai definito anche tu. Non posso dunque che ribadire quanto hai scritto, non posso che inorridire di fronte a certe assurdità, figlie di un'ignoranza che straripa da ogni dove e sempre più annacqua il nostro paese. Ma le cose cambieranno, e noi ce la faremo. Ne sono certa. Un abbraccio!

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    1. Spero tanto nel tuo ottimismo, dobbiamo lottare per affermare il nostro diritto al rispetto e al riconoscimento del valore della cultura!

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  15. Su un tema molto vicino a questo è intervenuto Paolo Giordano (scrittore e laureato in fisica) con un'intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 20 agosto scorso a Jean Marc Lèvy-Leblond, professore emerito all'Università di Nizza, dove ha insegnato fisica e filosofia. Ne riporto integralmente un passaggio interessante:
    "Nel secolo scorso, con l'avanzamento sfrenato di molte discipline scientifiche, si è prodotta la ben nota separazione fra le due <>. Si è parlato parecchio del disinteresse (misto a incomprensione) che il mondo umanistico ha nutrito a lungo nei confronti delle scienze, della cultura-senza-scienza insomma, ma Lévy Leblond denuncia altresì il fenomeno opposto, la scienza-senza-cultura, una scienza senza memoria di sè, senza capacità di autoanalisi. <>"
    <>, dice Leévy-Leblond, << un'epoca iniziata poco prima del 1900, e durane la quale la comprensione del mondo è andata di pari passo con la possibilità di trasformarlo. Il successo stesso delle tecniche fondate sulle conoscenze scientifiche ha portato, in una società dove le prime sono sviluppate più in funzione dei vantaggi economici che dei benefici umani, ad assoggettare sempre più le ricerche scientifiche a esigenze di rendimento e di produttività a breve termine. Tutto ciò è andato a detrimento del loro contributo concettuale e culturale.>>

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    1. Molto interessante, grazie di averlo segnalato. Trovo che nelle ultime riche sia riassunto un concetto importante e decisamente fondato: andrò a leggermi l'intera intervista, credo ne valga la pena!

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    1. Non sto dicendo che si debba necessariamente seguire una passione ed evitare i "calcoli" sull'opportunità (lavorativa o d'altro tipo) di una determinata scelta, né sto a sindacare sulle decisioni degli studenti. Semmai, ho cercato di smontare gli argomenti di Feltri, che denotano un'analisi indegna di tale nome, basata su elementi parziali e con conclusioni del tutto personali che non derivano dai dati, ma sull'idea che l'autore si è fatto della condizione che descrivono. Toni e tesi non funzionano, né dal punto di vista della costruzione del testo (ah, il vezzo umanistico di far le pezze tecniche), né, soprattutto, sul lato etico. Feltri è stato irrispettoso e superficiale, cosa imperdonabile per la categoria professionale cui appartiene.

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    3. Proprio questo è il punto, anzi, questi sono i punti, tutti e due riassumibili in un grande errore: Feltri ha costruito il suo pezzo su luoghi comuni e travisamenti (a questo punto aggiungo "voluti"), cosa che non è spacciabile per informazione. Credo che ogni città, facoltà, dipartimento abbiano le loro leggende metropolitane, spauracchi e specchietti per le allodole, ma è molto delicato, a mio parere, infiltrarsi in questo sistema e pensare di trovare il profilo stantard dello studente per sbatterlo su un giornale. Ripeto: è innegabile che un umanista abbia una strada molto circoscritta in termini di sbocchi lavorativi (sempre che non sia disposto a "riciclarsi" in settori solo indirettamente umanistici, tipo le risorse umane e company), tanto più se mediocre, ma Feltri ha sbagliato prospettiva ed è caduto nel cossiddetto "effetto alone", per cui un giudizio abbastanza vago si applica in modo indiscriminato, per il suo forte condizionamento.

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    1. Io ne sono sicura, fa parte di quella decadenza del giornalismo che porta a basare la comunicazione sul clamore, anziché sulla realtà e la concretezza dei fatti.

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