Nel 1293 Dante predispone la versione definitiva della Vita nuova, opera dominata dall'amore per Beatrice; fra il 1216 e il 1320 si dedica alla composizione del Paradiso, l'ultima cantica della Commedia, in cui Beatrice torna ad essere centralissima (dopo la sua apparizione già nel canto XXX del Purgatorio) e che si conclude con la comparsa di colei che per prima si è mobilitata affinché Dante affrontasse il viaggio di purificazione che in esso è descritto: la vergine Maria.
Già Guinizzelli ha espresso la centralità della visione nel rapporto fra la donna-angelo e il suo ammiratore, non solo per l'abbondanza di immagini profuse nelle sue poesie, ma anche per la prevalenza dell'area semantica del parere (nel senso di apparire), del mirare e del del mostrarsi, che, naturalmente, si connette al ricorrere degli occhi stessi fra gli elementi maggiormente descritti nella creatura femminile. Nelle due terzine del sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare si scorgono già i prodromi di Tanto gentile e tanto onesta pare:
Il testo, infatti, echeggia i versi 5-8 del noto brano dantesco, dove si sottolinea l'atteggiamento umile della dona, capace di rivelare il miracolo divino, al punto che, secondo Guinizzelli, ella ha un tale potere da rendere credente chi non lo sia (piega l'orgoglio ci colui cui dona la salvezza / e lo rende seguace della nostra fede, se già non lo è):Passa per via adorna, e sì gentile
ch'abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa'l de nostra fé se non la crede;
e no lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c'ha maggior vertute:
null'om pò mal pensar fin che la vede.
Ma il seguito del sonetto dell'Alighieri specifica da cosa nasce quella grazia e in che modo arriva all'uomo (vv. 89-11):Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
L'atto miracoloso della donna emana dagli occhi, che infondono dolcezza, bontà e desiderio di purificazione, a già dai primi versi della poesia scopriamo che nello sguardo ch'ella regala a chi l'ammira mentre incede per strada è compreso un atto di salvezza. La parola salute del v. 2 (Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia, quand'ella altrui saluta recita il brano in apertura) è infatti pregna di significato escatologico: essa deriva dal latino salus, salutis, che significa salvezza, e non tanto, nel senso riduttivo che le attribuiamo noi, salute; salutem dicere o salutem dare assume, in maggior misura rispetto al significato di salutare, quello di trasmettere la salvezza.Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova.
In queste terzine è centrale lo sguardo di Maria: ella è innanzitutto nominata attraverso una perifrasi colma di dolcezza e devozione, che si focalizza proprio sui suoi occhi, la meraviglia più amata da Dio; questo passo è stato giustamente paragonato da Roberto Benigni all'espressione d'amore di un uomo per la sua amata, ma, aggiungerei, trova una corresponsione anche nell'amore con cui un figlio guarda alla madre... e, del resto, Maria è la Vergine madre, figlia del <suo> figlio, la sintesi di tutte le opposizioni, l'ossimoro vivente che testimonia il mistero divino. I suoi occhi, appagati dalla lode che san Bernardo («l'orator») ha pronunciato nei vv. 1-39, si spostano verso la luce di Dio («l'etterno lume»), ch'ella sola può ammirare senza soffrirne la potenza. In maniera speculare a quanto fa Beatrice nel canto I, permettendo a Dante di penetrare la dimensione terrena e di potenziare le proprie facoltà visive, anche qui la Vergine concede a Dante di arrivare laddove nessun essere umano sia mai giunto. Grazie al tramite di quegli occhi, anche quelli del poeta si spostano verso la luce e riescono a poco a poco ad entrarvi così profondamente da scorgere l'unità di tutto il creato in Dio e il mistero della sua Trinità: dagli occhi di Beatrice a quelli di Maria slitta e si trasmette al pellegrino errante la Grazia di Dio.Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
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