Lo sguardo di Maria: la "salute" dallo Stilnovo alla "Commedia"

Fra la fine del Duecento e l'inizio del XIV secolo si afferma in Toscana il movimento del Dolce Stil Novo, che annovera fra i suoi maggiori rappresentanti Guido Guinizzelli (che ne è considerato l'iniziatore), Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. L'aspetto tematico-simbolico più significativo è l'apparizione, nella poesia dello Stilnovo, della donna-angelo, una creatura terrena che, con l'emanazione della Grazia, fa da mediatrice fra l'uomo e Dio, assicurando a chi si bea della sua visione un'elevazione spirituale che è promessa della somma felicità.
Nel 1293 Dante predispone la versione definitiva della Vita nuova, opera dominata dall'amore per Beatrice; fra il 1216 e il 1320 si dedica alla composizione del Paradiso, l'ultima cantica della Commedia, in cui Beatrice torna ad essere centralissima (dopo la sua apparizione già nel canto XXX del Purgatorio) e che si conclude con la comparsa di colei che per prima si è mobilitata affinché Dante affrontasse il viaggio di purificazione che in esso è descritto: la vergine Maria.
Un solido legame intercorre fra le apparizioni di Beatrice nei versi dell'opera giovanile e il suo svanire per lasciar il posto alla Madonna nel finale della Commedia. Un legame che risiede in uno sguardo.

Dante Gabriel Rossetti, Saluto a Beatrice (1859)

Già Guinizzelli ha espresso la centralità della visione nel rapporto fra la donna-angelo e il suo ammiratore, non solo per l'abbondanza di immagini profuse nelle sue poesie, ma anche per la prevalenza dell'area semantica del parere (nel senso di apparire), del mirare e del del mostrarsi, che, naturalmente, si connette al ricorrere degli occhi stessi fra gli elementi maggiormente descritti nella creatura femminile. Nelle due terzine del sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare si scorgono già i prodromi di Tanto gentile e tanto onesta pare:

Passa per via adorna, e sì gentile
ch'abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa'l de nostra fé se non la crede;

e no lle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c'ha maggior vertute:
null'om pò mal pensar fin che la vede.

Il testo, infatti, echeggia i versi 5-8 del noto brano dantesco, dove si sottolinea l'atteggiamento umile della dona, capace di rivelare il miracolo divino, al punto che, secondo Guinizzelli, ella ha un tale potere da rendere credente chi non lo sia (piega l'orgoglio ci colui cui dona la salvezza / e lo rende seguace della nostra fede, se già non lo è):

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Ma il seguito del sonetto dell'Alighieri specifica da cosa nasce quella grazia e in che modo arriva all'uomo (vv. 89-11):

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova.

L'atto miracoloso della donna emana dagli occhi, che infondono dolcezza, bontà e desiderio di purificazione, a già dai primi versi della poesia scopriamo che nello sguardo ch'ella regala a chi l'ammira mentre incede per strada è compreso un atto di salvezza. La parola salute del v. 2 (Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia, quand'ella altrui saluta recita il brano in apertura) è infatti pregna di significato escatologico: essa deriva dal latino salus, salutis, che significa salvezza, e non tanto, nel senso riduttivo che le attribuiamo noi, salute; salutem dicere o salutem dare assume, in maggior misura rispetto al significato di salutare, quello di trasmettere la salvezza.

 
La donna, dunque, affida al suo sguardo un vero e proprio lasciapassare per il paradiso, e in questo è angelo: lungi dal rappresentare una minaccia carnale, ella è per i poeti stilnovisti il simbolo della Grazia divina. Nel nome Beatrice, del resto, si nasconde il significato di portatrice di beatitudine, e la sua figura è, nella Commedia, il reale anello di congiunzione fra il paradiso e la selva oscura, in quanto, ricevuto dalla Vergine (attaverso Santa Lucia) l'ordine di salvare il pellegrino smarrito nel peccato, è lei stessa a pregare Virgilio affinché accorra in suo aiuto e lo conduca fino a lei, nel Paradiso terrestre. Un ruolo che, come abbiamo già visto, è anticipato in chiusura alla Vita nuova, col sonetto Oltre la spera che più larga gira; in quell'occasione abbiamo avuto modo di sottolineare come il 'potenziamento angelico' di Beatrice ne abbia permesso il salvataggio, anche dopo la riflessione metaletteraria sulla poesia amorosa, che ha prodotto il peccato di Paolo e Francesca.
Ebbene, grazie a questa scelta quasi divinizzatrice di Dante non solo viene stornata la minaccia della sensualità di Beatrice (quello che tenterà di fare Petrarca con le poesie in morte di Laura), ma il poeta sfuma gradualmente la figura della donna-angelo in quella della Vergine Maria, portando i due ruoli alla sovrapposizione nel canto XXXIII del Paradiso. Beatrice è certamente presente nel canto, dato che, come scopriamo dalle parole di San Bernardo (la cui lode alla Madonna apre il canto), ella ha assunto il suo posto nella Rosa dei Beati (vv. 38-39), ma è ora la Vergine a sostituirsi a lei in quanto medium per arrivare a Dio. Dall'apertura del canto conclusivo della Commedia, infatti, non sono più gli occhi angelicati di Beatrice a guidare l'essere, l'agire e il sentire di Dante, che dallo sguardo di lei ha fino a qui attinto istruzioni e delicati rimproveri (come nel fatidico superamento della Sfera del Fuoco nel canto I, che avviene proprio nel tempo di un battito di ciglia di Beatrice). Ora la vera donna-angelo è la Vergine, colei che ha permesso il viaggio di Dante e l'unica che può convincere l'Altissimo a svelare ad un mortale il mistero della sua essenza (vv. 40-48).

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.

E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com’io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.

In queste terzine è centrale lo sguardo di Maria: ella è innanzitutto nominata attraverso una perifrasi colma di dolcezza e devozione, che si focalizza proprio sui suoi occhi, la meraviglia più amata da Dio; questo passo è stato giustamente paragonato da Roberto Benigni all'espressione d'amore di un uomo per la sua amata, ma, aggiungerei, trova una corresponsione anche nell'amore con cui un figlio guarda alla madre... e, del resto, Maria è la Vergine madre, figlia del <suo> figlio, la sintesi di tutte le opposizioni, l'ossimoro vivente che testimonia il mistero divino. I suoi occhi, appagati dalla lode che san Bernardo («l'orator») ha pronunciato nei vv. 1-39, si spostano verso la luce di Dio («l'etterno lume»), ch'ella sola può ammirare senza soffrirne la potenza. In maniera speculare a quanto fa Beatrice nel canto I, permettendo a Dante di penetrare la dimensione terrena e di potenziare le proprie facoltà visive, anche qui la Vergine concede a Dante di arrivare laddove nessun essere umano sia mai giunto. Grazie al tramite di quegli occhi, anche quelli del poeta si spostano verso la luce e riescono a poco a poco ad entrarvi così profondamente da scorgere l'unità di tutto il creato in Dio e il mistero della sua Trinità: dagli occhi di Beatrice a quelli di Maria slitta e si trasmette al pellegrino errante la Grazia di Dio.
Gustave Doré, La Vergine nell'Empireo

C.M.

Commenti