Negli anni '30 e '40 il problema di iniziare, di affacciarsi al lavoro letterario, è particolarmente sentito dagli autori italiani: innanzitutto c'è da decidere se scrivere per sé o per dare uno scossone alla società, cioè se rifugiarsi nella 'Cittadella delle Lettere' (scelta ovviamente più facile e tollerabile da parte del regime) o diventare intellettuali militanti, aderendo anche alla lotta politica; dalla prima scelta sono nati movimenti di restaurazione letteraria, dal secondo esperienze confluite con varie tonalità all'interno del Neorealismo. Un secondo dilemma nasce dalla svolta percepita come necessaria conseguenza del poggiare la penna sul foglio o le dita sulla macchina da scrivere: il primo segno che appare sulla carta genera un'opera che, una volta avviata e terminata, avrà prodotto una trasformazione irreversibile nell'autore.
Su questo aspetto dell'attività letteraria sembrano dialogare sulla carta due autori che hanno compiuto il loro cammino professionale a stretto contatto, addirittura nella stessa casa editrice: Cesare Pavese e Italo Calvino. Basta infatti soffermarsi su alcuni brani de Il mestiere di vivere e sulla premessa a Il sentiero dei nidi di ragno (esordio e unico prodotto neorealista di Calvino) per cogliere importanti affinità, segno di un dibattito probabilmente diffuso fra gli intellettuali del tempo.
Parrebbe una dichiarazione generica, in cui si mescola quello stato di fibrillazione, curiosità e slancio che coglie qualsiasi persona inizi una qualsiasi attività. Che, però, Pavese riferisca nello specifico questa idea di un principio carico di entusiasmo anche all'attività della scrittura è evidente dal richiamo ad un precedente aforisma, datato al 17 ottobre 1935:L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca questo senso – prigione, malattia, abitudine, stupidità –, si vorrebbe morire.
Abituati come siamo, nel nostro tempo, a considerare l'apprendista una persona svantaggiata, emarginata e spesso sottovalutata (condizione, ahinoi, valida sia in campo lavorativo che nello studio), una simile frase sembra incredibile. Siamo poco propensi a ritenere che chi intraprende una qualsiasi opera sia privilegiato rispetto a chi ha avviato da tempo il suo cammino o, addirittura, è diventato un esperto in un certo campo. Nell'era del «Cercasi figura x con esperienza pluriennale» e in cui anche l'autore emergente è guardato con diffidenza, l'elogio dell'inesperienza che si può estrapolare da questo breve pensiero di Pavese sembra vecchio di secoli.Una cosa sola (tra le molte) mi pare insopportabile all’artista: non sentirsi più all’inizio.
È quanto afferma anche Italo Calvino, riflettendo su un esordio dal quale, come è noto, ha poi preso le distanze, preferendo una narrativa fiabesca e sperimentale all'esperienza del Neorealismo (comunque affrontata in modo originale nel primo romanzo):
Se ci pensiamo, di ogni artista o scrittore studiato abbiamo sempre incontrato fantomatiche suddivisioni di diverse fasi di produzioni, da quella giovanile a quella tarda, dividendo le opere in correnti e individuandone le variazioni di influenza. Una simile visione, di impostazione sequenziale, avvalora l'idea, comune ai due autori, di un cammino che, dal momento in cui è iniziato, va definendo colui che lo intraprende e lungo il quale l'esordio appare sempre come un necessario termine di paragone: l'Alighieri che scrive la Commedia è continuamente riportato agli esordi della Vita Nuova e all'esperienza stilnovista poi ripudiata, il Parini che chiude la propria esistenza con odi malinconiche è percepito in uno stato di decadenza accentuato dal confronto con la verve satirica de Il Giorno e lo stesso Calvino è sempre presentato come colui che ha avvertito come un pentimento dopo la pubblicazione de Il sentiero dei nidi di ragno.Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito; e questa definizione dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.
Appare dunque evidente che la prima opera va già cristallizzando, quasi in ottica pirandelliana, le forme assunte dallo slancio artistico: tutto quanto viene dopo è un confronto e non può essere analizzato di per sé, perché tutto quanto prende vita viene ingabbiato nel meccanismo temporale dell'evoluzione, che non ammette riavvolgimenti.
Lo stesso Calvino, nell'ultimo capitolo delle Lezioni americane, spiega questo sostanziarsi del lavoro letterario nel suo passaggio dall'idea all'opera o, per scomodare Aristotele, dalla potenza all'atto:
Sebbene Calvino si riferisca qui all'incipit della singola opera (quello di cui parlavamo in apertura), il concetto dell'ingresso nel mondo verbale può essere rapportato anche all'intera carriera autoriale, segnando un distacco tra un prima e un dopo.L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso: un mondo verbale. Fuori, prima dell’inizio c’è o si suppone che ci sia un modo completamente diverso, il mondo non scritto, il mondo vissuto o vivibile. Passata questa soglia si entra in un altro mondo, che può intrattenere col primo rapporti decisi volta per volta, o nessun rapporto. L’inizio è il luogo letterario per eccellenza perché il mondo di fuori per definizione è continuo, non ha limiti visibili. […] Gli antichi avevano una chiara coscienza dell’importanza di questo momento, e aprivano i loro poemi con l’invocazione alla Musa, giusto omaggio alla dea che custodisce e amministra il grande tesoro della memoria, di cui ogni mito, ogni epopea, ogni racconto fanno parte.
E' difficile dire la propria se dall'altra parte ci sono personalità come Pavese o Calvino, soprattutto quando non al si pensa come loro.
RispondiEliminaIndubbiamente se un autore diventa celebra si metteranno a confronto le prime opere con le ultime, seguendo passo a passo la sua maturazione. E' così, è inevitabile.
Tuttavia non penso che questo debba scoraggiare un autore, perché se anche si 'pentisse' di aver pubblicato un primo libro nel quale non crede più con l'andare avanti degli anni, ciò che gli darà nuova energia sarà la volontà di dimostrare al pubblico di essere più di quel che era nel suo primo romanzo - spero di essermi spiegata, per quanto la frase sia ingarbugliata.
Sta nell'autore vedere il nuovo e la possibilità dove gli altri vedono un processo meccanico.
Infatti è straordinario notare i diversi atteggiamenti degli scrittori: da una parte chi vuole sfuggire ad un "passato scomodo", dall'altra chi vede ogni progresso come positivo, senza per questo rinnegare i primi passi. Credo che l'instancabile sperimentalismo di Calvino spieghi anche la sua fuga da qualsiasi cristallizzazione, mentre un personaggio rigoroso come Pavese può aver sentito maggiormente l'insofferenza per qualche aspetto della letteratura cui non riusciva a dare la forma della vita.
EliminaLa parte più interessante di questo post per me è stata quella contenente la riflessione su come oggi "l'inizio" sia visto negativamente. Non ci avevo mai riflettuto ma è vero e lo trovo terribilmente triste: l'inizio di qualcosa è la parte che più dovremmo goderci, che dovremmo vedere come un'avventura che chissà come andrà. Invece la associamo a contratti sottopagati da stagisti, a situazioni di stallo che non è in nostro potere far evolvere. Questo è il lato più dannoso dell'epoca che stiamo attraversando, un inasprimento delle emozioni e un mancato interesse o curiosità di quel che verrà domani.
RispondiEliminaIn campo letterario - così come nella vita poi, per come la vedo io - un autore non dovrebbe pentirsi del proprio esordio: quello era il primo passo, necessario come tutti i successivi ad arrivare al dopo. Capisco che ci si possa allontanare dalle idee di gioventù, che crescendo si cambi modo di guardare alla vita e al mondo, ma non per questo si deve rinnegare il prima. Chissà, se si andasse al contrario nel tempo magari sarebbe il giovane a rinnegare le posizioni del sé più maturo.
Accadrebbe sicuramente, e ci sarebbe altrettanto da riflettere, anche se, purtroppo, possiamo solo fantasticare su un possibile dialogo di un autore esordiente con il suo alter-ego adulto.
EliminaAnch'io sono dell'idea che un primo passo, anche fosse totalmente diverso dai successivi, vada fatto, ma, da perfezionista quale sono, non riesco a non pensare a quanto, una volta intrapresa un'attività, questa possa liberarsi, sfuggendo al controllo (che non è detto sia sempre un male, anzi). Ma è naturale che, per il fatto stesso di iniziare e voler arrivare, inevitabilmente bisogna correre dei rischi, investire energie e essere disposti a stupirsi dei risultati.
Io credo che l'esito dipenda dall'artista stesso (allargo il campo e penso anche ai musicisti, ai cantanti, ai pittori): la maturazione è necessaria e inevitabile, ma forse, per come è la mia sensibilità, un vero Artista è chi conserva un po' dell'ingenuità degli inizi, un toccasana per non ripiegarsi troppo su di sé, verso pericolose chiusure e ripetizioni ossessive e vuote, ahimè :P Ovviamente non ci sono percorsi univoci per tutti (e dunque meno male!), la mia è una considerazione assai generica!
RispondiEliminaCiao Cristina (passo in consistente ritardo, ma ci sono eh! :D) a presto!
Sono d'accordo sull'importanza di mantenersi ingenui, cosa che la maturazione e l'esperienza, tuttavia, rendono molto difficile. Probabilmente, anche qui, come per tanti altri aspetti della vita e dell'arte, la virtù sta nel mezzo, e l'artista sa equilibrare le scelte più ragionate con gli slanci più spontanei... :)
EliminaL'inizio è uno stato di grazia. Ogni inizio ha in sé qualcosa di irripetibile in ciò che segue. L'inizio ha il sapore di qualcosa cui ancora non si è dato una forma ma che agli occhi di chi esordisce appare già perfetto. L'inizio, concordo, ha in sé qualcosa di teneramente ingenuo, è come uno spazio nel quale ferve tutto l'ottimismo di cui si è capaci.
RispondiEliminaI migliori incipit sono quelli che sono rimasti memorabili e nei quali si concentra lo spirito, l'essenza di ciò che verrà dopo.
Bellissima questa tua definizione dell'inizio come "stato di grazia", trovo che renda molto bene l'essenza del messaggio di Calvino e Pavese.
EliminaCiò che Calvino dice dell'inizio "Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall’esser definito;...];" mi trova solo parzialmente d'accordo. La sua (di Calvino) esperienza stessa di scrittura lo dimostra nel momento in cui le sue opere sono ognuna per sé "unica" e non ripetizioni di temi, di stili, di scrittura. In realtà l'inizio dello scrittore che scrive la prima opera non necessariamente lo definisce. Sono gli altri ( critici letterari, lettori...) che lo definiscono. Che Calvino abbia voluto sperimentare e sperimentarsi nelle diverse forme di scrittura è stata una precisa scelta volta ad esprimere con più efficacia possibile i contenuti che poi ha sviluppato. Parimenti Pavese ha ritenuto più efficace per la sua scrittura mantenere stili e temi già definiti nella prima opera. E' pur vero che a leggere diverse opere di scrittori vi si ritrova sempre qualcosa del nucleo del primo inizio, ma questo, credo, non dipenda dalla mancanza di libertà o di ingenuità o di stupore nei confronti della "prima volta", ma dall'atteggiamento caratteristico insito nello sguardo e nella mente di chi fa letteratura. Forse l'affermazione di Calvino ha a che fare più con la "prima scelta" che preclude tutte le altre scelte, con l'atto stesso della volontà sottesa a quell'atto. Ci sono scrittori che riescono ad avere altri sguardi nei loro libri successivi al primo.
RispondiElimina