Moire, Fato e Necessità

Si è soliti usare l'espressione "fatale" in relazione a qualcosa che provoca la morte o comunque una grande sofferenza: le espressioni "colpo fatale", "mossa fatale", "scelta fatale" in qualche modo evocano la rovina. Ma il Fato classico non coincide con questa idea mortifera, anche se di certo non la esclude e spesso nella letteratura viene ad essa associata. Fato è ciò che è inevitabile, prescritto e preordinato, necessario, ineludibile. Il Fato latino (da cui l'espressione che usiamo oggi) è, come evidenzia l'uso della maiuscola, un'entità personificata, una forza agente nella vita dell'essere umano, una presenza intangibile ma innegabile. I Greci lo associavano alla Moira, una e trina, dato che si parla anche delle tre Moire (αἱ Μοῖραι), corrispondenti alle tre Parche dei Romani, che determinano la vita dell'uomo, cioè Cloto ("la filatrice"), che svolge il filo della vita, Lachesi ("la distributrice"), che lo misura e Atropo ("l'inflessibile"), che lo recide.
La più celebre menzione di questa forza superiore si ha nel libro VI dell'Iliade (vv. 486-489); Ettore si sta congedando da Andromaca presso le porte Scee e le ricorda che ciascun essere umano è subordinato al disegno che gli è toccato in sorte (dal verbo μείρομαι, "ricevere la propria parte").
Misera, non t'affliggere troppo nel cuore!
Nessuno contro il destino potrà gettarmi nell'Ade;
ma la Moira, ti dico, non c'è uomo che possa evitarla,
sia valoroso o vile, dal momento ch'è nato. 
(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, ed. Einaudi)
Tutti i personaggi della mitologia greca sono subordinati a questa forza, alla quale non sfuggono nemmeno gli dèi (su questo aspetto si tornerà in seguito). K. Kerényi ricorda che nella pittura vascolare le Moire possono apparire in quattro e che a Delfi se ne veneravano due, una Moira della nascita e una della morte. Quale che fosse il loro numero, le Moire rappresentano il destino degli esseri umani nella percezione greca.
Ma chi sono queste Moire? In termini di genealogia, il punto di riferimento principale è Esiodo, che nella Teogonia riporta due possibili ascendenze di queste figure, che riconosce in numero di tre. La prima volta sono menzionate come figlie della Notte (vv. 217-222) insieme alle Kere, e alle sorelle congiuntamente viene riconosciuta la facoltà di assegnare il bene e il male agli uomini e di perseguirne i delitti; possiamo forse intendere la prima come prerogativa delle Moire e la seconda come funzione delle Kere, che, pertanto, sarebbero assimilate alle Erinni; è interessante notare che nei versi precedenti Notte è indicata anche come madre di Moros (maschile di "Moira"), Ker ("Sventura", singolare di Kere) e Tanathos ("Morte"). Successivamente (vv. 901-906) le Moire sono descritte come figlie di Zeus e Temi (la "Norma secondo natura"), ma anche in questo caso sono dette le responsabili dell'attribuzione del bene e del male ai mortali.
Nel racconto platonico di Er, invece (Repubblica X, 617c-e), invece, le Moire sono figlie della Necessità (Ἀνάγκη); le anime dei morti, in particolare, si soffermano di fronte a Lachesi per ricevere in sorte la nuova esistenza, secondo il principio della metempsicosi; due tratti delle Moire e dell'assegnazione in sorte attirano l'attenzione in questo mito. Innanzitutto a Cloto, Lachesi e Atropo viene attribuito rispettivamente il canto delle cose passate (τὰ γεγονότα), presenti (τὰ ὄντα) e future (τὰ μέλλοντα); in secondo luogo Lachesi, nell'assegnare i beni e i mali procede senza intenzione: getta le sorti davanti alle anime, e ciascuno raccoglie, scegliendola personalmente, la propria (che è poi quella che gli cade più vicino), seppure si tratti, in fondo, di un acquisto a scatola chiusa. In questo modo Lachesi può sentenziare «la responsabilità è di chi sceglie; il dio non responsabile» (la duplice frase nominale dell'originale, αἰτία ἑλομένου: θεὸς ἀναίτιος, appare come una vera e propria sentenza).
Messe insieme, queste informazioni tracciano il ritratto di una forza terribile e ineluttabile, associata in particolare alle sciagure (vista l'ascendenza dalla Notte insieme alla Morte e alla Sventura) ma in realtà dispensatrice anche delle cose buone. Il contributo di Platone ci permette di indagare il principio di irrepsonsabilità del dio, che da un lato presiede al destino dei mortali (in quanto Moira), ma dall'altro non agisce mosso da una passione personale, da una disposizione buona o cattiva verso gli uomini, ma come conseguenza di una loro scelta. Si può parlare, in un certo senso, di una responsabilità assunta inconsapevolemente dall'uomo, a cui poi il dio si attiene con coerenza. Non è però detto che questa stessa visione si possa trasferire a tutti gli altri contesti, in primis a quello iliadico citato in apertura.
Moira e Necessità, due idee che si sovrappongono nel Fato latino, determinano la sorte dell'uomo, che ad esse è subordinato. Ce lo mostra con chiarezza la tragedia attica dei secoli V e IV a.C., i cui protagonisti sono quasi esclusivamente quelli del mito. Nessuno di loro è nelle condizioni di autodeterminarsi e si incammina necessariamente e fatalmente verso un destino già definito; l'eroe tragico può talvolta operare delle scelte, ma, quali che siano, lo conducono allo stesso punto, all'ineluttabile conclusione. Oreste, figlio di Agamennone, sceglie di vendicare la morte del padre con l'uccisione della madre Clitemnestra, macchiandosi così di un nuovo delitto, ma, se si astenesse dal farlo, incorrerebbe comunque in una violazione del sacro legame fra padre e figlio; Antigone decide di dare sepoltura al fratello traditore Polinice in onore alle leggi sacre degli dèi, ma in questo modo viola la legge di Creonte, re di Tebe; Laio cerca di stornare da sé la maledizione fatale che lo condanna ad essere ucciso dal figlio spedendo Edipo a Corinto, ma questi lo ucciderà senza riconoscerlo come padre, per una banale lite (si rimanda per questo a La morte della Pizia di F. Dürrenmatt). In ogni caso su questi personaggi incombe un destino già tracciato, che li conduce alla morte o ad altro tipo di sventura. La progressiva apertura ai tratti psicologici dei personaggi, che si affacca con il dramma euripideo ma sarà effettiva a partire dalle riscritture latine, attenuerà i tratti del fatalismo e della necessità in favore di un movente delle azioni interno ai protagonisti (ma questa è una trasformazione che non tratteremo).

Giorgio De Chirico, Edipo e Sfinge (1968)

È rimasto in sospeso un interrogativo: quale potere hanno gli dèi sul Fato? Se diamo credito a Eschilo, a determinare la necessità è la Moira triforme e anche Zeus è ad essa subordinato (Prometeo incatenato, vv. 507-518).
PROMETEO: La Quota Fatale decide la fine. [...] Fragile cosa l'ingegno, contro il destino che ci stringe.
CORO: Chi drizza la barra del Fato?
PROMETEO: Quota trina, e le Erinni, memoria di ferro.
CORO: Vuoi dire che Zeus è fragile contro di loro?
PROMETEO: Il suo futuro è obbligato, non può svincolarsi. 
(traduzione di Ezio Savino - ed. Garzanti)
La visione del Fato latino, così come emerge nell'Eneide, sottolinea la condizione della divinità subordinata al Destino: lo sa bene Giunone, che non può in alcun modo opporsi alla glora dei discendenti di Enea. Questa posizione del dio, del resto, avvalora la tesi della sua irresponsabilità, infatti nessuna forma di amorevolezza o odio nei confronti di un certo personaggio può variare la sua sorte. Tuttavia troviamo prove di possibili intromissioni degli dèi nelle vicende umane: è il caso di Apollo, che nelle Eumenidi di Eschilo (l'atto conclusivo della tragedia di Oreste già citata) è accusato di aver sottratto alla morte Admeto, re di Fere, facendo ubriacare le Moire (vv. 723-730). 
Anche il concilio degli dèi che apre l'Odissea ci spinge a pensare che le divinità abbiano il potere di determinare l'esito delle vicende degli uomini, dal momento che è per decisione di Zeus, convinto da Atena, che Odisseo può lasciare l'isola di Ogigia e riprendere il viaggio verso Itaca, delibera di cui Poseidone, nemico dell'eroe, dovrà farsi una ragione. Va però detto che già nella catabasi (narrata nel libro XI), un fatto che precede di circa otto anni il rilascio di Odisseo dalla sua prigione edenica, al protagonista del poema è già stato prospettato che sarà per lui possibile, pur pagando il prezzo di tante sventure e della perdita dei compagni, rientrare in patria. L'indovino Tiresia vede il futuro e può vederlo perché già scritto; pone però un'interessante condizione, che fa pensare più ad un margine per l'azione dell'uomo che per quella divinità: la sorte dei compagni dipenderà dal loro comportamento, in particolare dalla capacità di lasciare illese le Vacche del Sole. Odisseo, insomma, è destinato a tornare ad Itaca, ma sembra poter agire su qualche variabile, così come gli dèi possono rendere più facile o più difficile il raggiungimento del suo scopo.
Gli interrogativi più interessanti a proposito del conflitto di poteri fra Zeus e le Moire viene però dall'Iliade. Se Esiodo ci dice, come abbiamo visto, che sono le Moire a distribuire i beni e i mali agli uomini, diverso è il racconto di Achille a Priamo, quando il vecchio re, al fine di convincere l'eroe a restituirgli il corpo di Ettore, lamenta le sue sventure (XXIV, 525-533).
Gli dèi filarono questo per i mortali infelici:
vivere nell’amarezza: essi invece son senza pene.
Due vasi son piantati sulla soglia di Zeus,
dei doni che dà, dei cattivi uno e l’altro dei buoni.
A chi mescolando ne dia Zeus che getta le folgori,
incontra a volte un male e altre volte un bene;
ma a chi dà solo dei tristi, lo fa disprezzato,
e mala fame lo insegue per la terra divina,
va errando senza onore né dagli dèi né dagli uomini.
(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, ed. Einaudi)
Zeus appare dunque il responsabile della felicità e della infelicità degli uomini: è lui a prelevare dall'una e dall'altra giara gioie e sofferenze e la speranza è che le mani del dio vi attingano in modo equilibrato, che la manciata delle sventure non sia più nutrita dell'altra. Che a prevalere possa essere la buona sorte non è un dibbio che sfiora Achille, che ha chiarito da subito che l'infelicità è la nota costante dell'esistenza degli uomini, assegnata loro dagli dei capricciosi e invidiosi.
L'altra prerogativa che sembra avere Zeus rispetto alle vicende della guerra di Troia emerge nei passi in cui si fa cenno alla bilancia d'oro su cui il dio pone le Kere dei Troiani e degli Achei (VIII, 60-74):
Finché fu mattino e il giorno saliva,
sempre i dardi dalle due parti colpivano, cadeva la gente;
ma quando il sole raggiunse il mezzo del cielo,
allora il padre agganciò la bilancia d’oro:
e due Chere vi pose di morte lungo strazio,
dei Teucri domatori di cavalli e degli Argivi chitoni di bronzo;
la tenne sospesa pel mezzo; precipitò il giorno fatale degli Achei.
Le Chere degli Achei verso la terra nutrice di molti
piombarono, quelle dei Teucri salirono al cielo vasto. 
(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, ed. Einaudi)
Lo stesso strumento compare nel duello fra Ettore e Achille (libro XXII, 208-2013). Atena sta combattendo con la protezione di Atena, invece al fianco di Ettore sta Apollo; la situazione sarebbe impossibile da risolvere senza l'intervento di Zeus.
Ma quando arrivarono la quarta volta alle fonti,
allora Zeus agganciò la bilancia d'oro,
le due Chere di morte lunghi strazi vi pose,
quella d'Achille e quella d'Ettore domatore di cavalli,
la tenne sospesa nel mezzo: d'Ettore precipitò il giorno fatale
e finì giù nell'Ade; l'abbandonò allora Apollo. 
(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, ed. Einaudi)
Non si può però dire che sia Zeus a determinare il destino di Ettore: la bilancia fatale compare sì nelle sue mani, ma il dio si limita ad osservare quanto le Kere - sorelle delle Moire, ricordiamo - pesino sulla sorte dei due eroi. In qualche modo il gesto di Zeus serve a rendere noto a tutti, compresi gli dèi che parteggiano per l'una o l'altra parte, che l'esito degli scontri è già prescritto e che nulla possono fare per cambiarlo, che il loro momento di gloria è giunto al termine.
Anche Zeus, del resto, sa bene di doversi rassegnare a quanto preordinato. Lo si vede al momento della morte di Serpedone, quando il re degli dèi è tentato di abbattere Patroclo per risparmiare suo figlio, il semidio Sarpedone (XVI, 433-438); confidatosi con Era, è da lei dissuaso con l'argomento che gli altri dèi, che hanno a loro volta dei figli impegnati nella guerra, rimarrebbero sdegnati e pretenderebbero di salvare anche la loro prole. Zeus, dunque, potrebbe agire o lo stesso pericolo della perdita della propria autorevolezza, la minaccia di una sorta di anarchia costituisce la garanzia del compimento del Fato?
Analogamente, sembra avere una scelta Achille, che nel libro IX riferisce a Odisseo, inviato da Agamennone affinché lo convinca a tornare in battaglia, la profezia di sua madre Teti (vv. 411-416):
La madre Teti, la dea dai piedi d'argento, mi disse
che due sorti mi portano al termine di morte;
se, rimanendo, combatto intorno a Troia,
perirà il mio ritorno, la gloria perà sarà eterna;
se invece torno a casa, alla mia patria terra,
perirà la nobile gloria, ma a lungo la vita
godrò, non verrà subito a me destino di morte. 
(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, ed. Einaudi)
Ma Achille ha davvero una scelta? Il bisogno di gloria (κλέος) potrebbe cedere alla seduzione di una lunga e serena esistenza? Anche a lui, come a Zeus, sembra sia posta una condizione impossibile da considerare, che la fama e l'immortalità che ne conseguiranno siano per l'eroe ciò che l'esigenza di ordine è per Zeus: una necessità. E la Moira di Necessità potrebbe essere la figlia.

C.M.

Commenti

  1. Veramente interessante l'argomento. Io ahimè sono immersa da lungo tempo nelle tematiche archeoastronomiche e, quando leggo di bilance d'oro appese, e di chi drizza la barra del fato, non riesco a non pensare alla complessa struttura dell'universo, che gli antichi descrivevano e costruivano per mezzo del mito. Nel momento in cui l'uomo si 'civilizza', il rapporto con la natura si perde progressivamente e irrimediabilmente. L'ineluttabilità (e complessità) delle leggi che reggono i moti del cosmo si trasla nella sfera umana, nella morale... E lì è ancor più difficile trovare il capo di un filo...
    Già Platone fa un po' di casino :) ma nel mito di Er e altrove ci dà un'idea della struttura del cosmo "... e dalle estremità si allungava il fuso di Ananke, per mezzo del quale ruotano tutti i cieli".

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    1. Sarebbe interessante approfondire questo altro terreno di azione di Anke da Platone all'idea medievale dei cieli mossi dall'intelligenza divina (naturalmente penso a Dante), con tutte le influenze sugli astri e sulle cose umane che comporta.

      P.S. Ci conosciamo già o sei una nuova lettrice? Purtroppo il commento è anonimo ed è un peccato, visto che è molto significativo. :)

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    2. Sono Lucia Chiocchetti. Dopo aver letto ho ripreso in mano Fato antico e fato moderno di Giorgio De Santillana approfittando del treno che mi dà un po' di tempo... Il capitolo sul fato antico è sempre per me illuminante. Non dà risposte alla domanda su senso del destino dell'uomo, ma dà una Visione!

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    3. È proprio uno dei libri che ho messo in lista, spero proprio di trovare questa Visione quando lo leggerò!

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    4. Ovviamente ognuno ha le proprie esperienze, ma il Mulino di Amleto mi ha cambiato la vita in molti modi.

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    5. Buono a sapersi, è nella mia lista anche quello, perché ho letto che "Fato antico e fato moderno" è il risultato dei lavori per "Il mulino di Amleto". Poi mi sono messa a scorrere altri titoli dello stesso autore e ho individuato "Le origini del pensiero scientifico".

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    6. I brevi saggi sul Fato vanno dritti al punto. Nel Mulino c'è il mondo! 😁

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  2. Magnifico post, Cristina. Di tanta cultura greca, in cui si mescolano miti e necessità della Storia, trovo da sempre affascinante e straordinario che i greci abbiano realizzato questa immensa cattedrale di principi. Un aspetto molto intrigante questo del fato già assegnato a uomini, dei, semidei. La volontà umana assoggettata alla necessità, pur con quella sfumatura di arbitrio che rende alla fin fine tutto possibile (o quasi) è oltretutto uno dei grandi snodi del discorso sull'esistenza, sulla possibilità di autodeterminazione dell'uomo.
    Oggi mi sono imbattuta in un titolo che intendo procurarmi, pubblicato da Adelphi: Il codice dell'anima, di James Hillman. Un saggio molto interessante sul destino e la scelta. Se cerchi in rete ce n'è un estratto che ti mostra, nella parte introduttiva, delle "epigrafi a mo' di prefazione" in cui troverai delle citazioni illuminanti a riguardo, che oltretutto mostrano parte delle fonti cui Hillman ha attinto per la costruzione del suo scritto.

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    1. Grazie del suggerimento e di aver apprezzato questo post, Luz. I saggi Adelphi di solito sono una garanzia, per lo stesso motivo ho in lista "Fato antico e fato moderno" di Giorgio de Santillana, che sembra allacciarsi a quello che scriviamo. Sarà interessante confrontarci ancora si questo temi antichi e sempre attuali. Come dici tu è straordinario come i Greci abbiamo elaborato un sistema mitico ed etico in cui tutto si tiene, del quale poi la filosofia ha fatto tesoro.

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