Trilogia dell'Altipiano - Mario Rigoni Stern

Ho spesso sostenuto che la narrativa riesce, più della saggistica storica, a far pulsare i drammi di cui il nostro passato è costellato e di come sia più incisiva la lettura di testimonianze come quelle di Emilio Lussu, di Eric Maria Remarque o Andreas Latzko di qualsiasi manuale scolastico per comprendere cosa sia stata la Grande Guerra, con tutta la sua propaganda nazionalistica, la spersonalizzazione e la lacerante esperienza delle trincee.
Grazie a Mario Rigoni Stern, che di Emilio Lussu ha letto e amato le pagine (è lui l'autore dell'ultima prefazione a Un anno sull'Altipiano), ho potuto approfondire anche le vicende delle comunità montane stanziate nei pressi del fronte italo-austriaco, sull'altipiano di Asiago. L'autore ha dedicato alla sua terra e alla sua gente tre romanzi che, nel complesso, ripercorrono gli anni compresi fra la fine del XIX secolo e l'era fascista. Se, infatti, la storia del pastore e contadine Tönle si dipana fra la fine della dominazione asburgica e la Strafexpedition, le vicende di Matteo e della sua famiglia, protagonisti de L'anno della vittoria, ricalcano quelle dei molti sfollati che, alla fine del conflitto, hanno dovuto attendere e faticare per ricostruire case e villaggi, mentre Giacomo, che primeggia nell'ultimo racconto, è un giovane che cresce nell'ombra del rigido sistema educativo fascista, che lo seduce con la promessa di glorie sportive, fino a spingerlo ad arruolarsi.

Un sentiero fra i boschi dell'Altipiano di Asiago

Ci sono, nelle storie di questi tre personaggi, i ricordi dell'infanzia e della giovinezza di Mario Rigoni Stern, nato pochi anni dopo la fine del conflitto e profondamente legato ai luoghi che hanno, loro malgrado, fatto da sfondo al primo conflitto mondiale. In quanto soldato nella successiva guerra, di cui lui stesso ha dato testimonianza ne Il sergente nella neve, Rigoni Stern ha dovuto provare anche la durezza della guerra e la condizione del soldato. Il risultato di queste esperienze di militare e di abitante dell'altipiano è una straordinaria capacità di raccontare le difficoltà, le delusioni, le speranze e la solitudine di coloro che la furia bellica ha travolto, lungo il fronte ma anche al di qua delle linee, dove si rifugiava la gente comune.
Con Storia di Tönle, Mario Rigoni Stern ci introduce fra le sue montagne e i suoi boschi assieme a Tönle Bintarn, che, pur essendo un allevatore di pecore, ha una vivace pratica dell'attraversamento clandestino dei confini fra l'Impero asburgico e il Regno d'Italia, tanto più dopo che il ferimento di un soldato austriaco lo costringe a darsi alla macchia, viaggiando per l'Europa e rientrando a casa di soppiatto solo per il Natale, in tempo per mettere al mondo un figlio; ormai vecchio, Tönle è l'unico che si rifiuta di abbandonare l'altipiano e di sfollare a Prà del Giglio, così rimane a pascolare le sue greggi col suo cane fidato, ben consapevole di essere l'unico a conoscere certi anfratti fra le montagne, buoni a nascondersi agli Austriaci.
E se per loro c’erano i confini a che cosa servivano se con gli aeroplani potevano passarci sopra? E se non c’erano confini in aria perché dovevano esserci sulla terra? E in questo «per loro» intendeva tutti quelli che i confini ritenevano una cosa concreta o sacra; ma per lui e per quelli come lui, e non erano poi tanto pochi come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli uomini, i confini non erano mai esistiti se non come guardie da pagare o gendarmi da evitare. Insomma se l’aria era libera e l’acqua era libera doveva essere libera anche la terra. 
L'anno della vittoria, invece, prosegue con le vicende dei profughi che, alla notizia della fine della guerra, aspettano con una timorosa eccitazione di poter risalire sui monti a rivedere i luoghi in cui hanno sempre vissuto, speranzosi di ritrovare le proprie case ma, in realtà, consci di dover ricominciare tutto da capo. Matteo è fra i primi a essere testimone della devastazione dei bombardamenti, del passaggio delle truppe in avanzata o in ritirata e del fuoco incrociato: salva qualche oggetto proveniente dalle sue sortite nelle trincee, sebbene esista un divieto da parte delle autorità a saccheggiare le proprietà militari, perché anche i pezzi di latta e lamiere possono tornare utili alla ricostruzione. Ma riappropriarsi dell'altipiano, per le comunità di Asiago, non è così facile, perché devono fare i conti con i ritardi della burocrazia dei risarcimenti, le manovre per il disarmo e la bonifica dei pendii e delle vallate, operazioni che non di rado costano la vita a qualche ingenuo recuperante. Nel frattempo l'influenza spagnola si abbatte sugli sfollati, infliggendo un altro durissimo colpo a chi ha già provato la guerra, e ai proclami nazionalistici vanno sostituendosi le voci delle rivendicazioni socialiste, ma anche la mano violenta dello squadrismo.
Ma quando giunse sulle alture della Klama rimase impietrito: niente più era rimasto di quanto aveva nel ricordo e che aveva conservato per tanti mesi nella nostalgia dell’anima: non erba, non prati, non case, né orti, né il campanile con la chiesa; nemmeno i boschi dietro la sua casa e il monte lassù in alto era tutto nudo giallo e bianco. L’insieme sembrava la nudità della terra dilaniata, lo scheletro frantumato. I gas, le bombe di ogni calibro, le mitragliatrici in tre anni avevano distrutto anche le macerie, ed era questo che i suoi occhi vedevano e che la ragione non voleva ammettere.
Ne Le stagioni di Giacomo assistiamo all'estendersi del controllo del regime dittatoriale sulle comunità di montagna faticosamente rinate: i bambini vengono sottoposti alla pervasiva educazione fascista, che apre loro lo sguardo sul mondo, ma al solo scopo di celebrare il sogno imperialista, e che li inquadra nelle istituzioni giovanili. Giacomo e suo padre si rendono conto che aderire alle iniziative del fascismo è fondamentale anche per poter lavorare e che varcare la frontiera per guadagnarsi il pane dove non sia necessario prestare giuramento al regime è sempre più difficile. E intanto sull'altipiano fervono i lavori per l'esumazione dei resti dei soldati nei piccoli cimiteri disseminati fra le vallate e per la costruzione del grande memoriale destinato ad ospitarli e a celebrare il loro sacrificio con toni trionfalistici che mal si adattano al dolore provato da chi ha vissuto la guerra sulla propria pelle.
«Guardi, signore, osservi. In guerra sbagliano tutti. Anche gli austriaci. Sulle trincee italiane troviamo pezzi di granate italiane, sulle trincee austriache pezzi di granate austriache, sulle trincee inglesi pezzi di granate inglesi. E sui fianchi del Colombara, dove si fatica a restare su due piedi abbiamo trovato le bicilette dei bersaglieri. Per sapere come sono andate le cose i comandanti dovrebbero venire a scuola dai recuperanti e non leggere le storie sui libri!»
Come tutti i racconti di guerra, come tutti i libri che raccolgono testimonianze di grandi tragedie storiche direttamente vissute o efficacemente modellate sulla base della realtà, anche questa Trilogia dell'Altipiano ha lasciato un segno particolare, rivelandomi la voce di un autore che, pur già conosciuto, mi è parso fra queste pagine più familiare e vicino, forse proprio perché mi ha condotta a casa sua. Leggendo i tre racconti uno dietro l'altro sembra davvero di percorrere i sentieri fra le montagne vicentine, di sentire il brontolio del cannoni in lontananza e di vedere quelle pietre maciullate dagli esplosivi, segni di un paesaggio irreversibilmente mutato quanto sono mutati gli spiriti di chi ha convissuto col fragore degli attacchi e dei ripiegamenti e, quindi, con la paura e lo strazio di aver perso ogni cosa. 

Il sacrario militare di Asiago
Matteo e suo padre guardavano con il cuore stretto, senza parlare: quelle per loro non erano solamente macerie ma la fine di un mondo, di un paese e di un costume che erano iniziati quando i nostri antenati scelsero per vivere questa terra che nessuno voleva perché isolata, scomoda da raggiungere e selvaggia, ossia coperta da forti selve.
C.M.

Commenti