Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra - Giovanna Procacci

Negli anni 2014-2018 si sono susseguiti numerosi eventi e celebrazioni per ricordare la Grande Guerra e commemorarne le vittime, ma un aspetto del conflitto non è stato adeguatamente messo in luce né in queste occasioni né è adeguatamente trattato nei resoconti della storiografia scolastica. Si è sempre parlato molto delle terribili condizioni dei soldati in trincea, degli effetti devastanti delle armi perfezionate per la guerra del XX secolo, della pessima gestione della disciplina militare, spesso affidata al terrorismo degli alti gradi sulla massa di fanti, si è rivangata l'importanza della prima Guerra mondiale come atto conclusivo del cammino per l'indipendenza italiana, ma, come sempre, non si è descritto il lato oscuro della vittoria, ammesso che di vittoria, in un simile frangente, si possa parlare.
Per esempio, perché ancora non si affronta il problema di quelle comunità di confine che non avrebbero voluto far parte del Regno d'Italia? Perché ancora non si considera con lucidità il fatto che gli Italiani siano stati fatti (per citare Cavour) forzatamente, facendo loro indossare una divisa nella quale molti non si riconoscevano? Perché non si mettono sotto il riflettore la grottesca propaganda del Regno per costringere centinaia di migliaia di uomini ad arruolarsi e affrontare un nemico che nemmeno conoscevano, il continuo sospetto, la minaccia costante della punizione, le privazioni di cibo e contatti con le famiglie e le facili accuse di diserzione spiccate contro chiunque avesse la sfortuna di cadere prigioniero?

Prigionieri di un campo nei Carpazi

Di quest'ultimo problema, non del tutto sconnesso dai precedenti (il problema di fondo è quello del rapporto fra istituzioni del Regno e cittadini), discute diffusamente Giovanna Procacci nel suo saggio Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, edito da Bollati Boringhieri e citato da Alessandro Barbero in una puntata della trasmissione di Paolo Mieli Passato e Presente, intitolata L'Odissea dei prigionieri italiani.
Il volume è suddiviso in due parti. Nella prima, La guerra al fronte, si descrivono le condizioni dei soldati nelle trincee e soprattutto le inefficienze dello Stato Maggiore, l'imporsi da parte di questo sulle autorità civili nell'esercizio di molte funzioni, le procedure della giustizia militare, le pratiche di controllo sulle lettere e i pacchi postali, la censura e gli ostacoli posti alla circolazione di comunicazioni e, con esse, al recapito di beni di prima necessità da parte dei familiari dei combattenti. 
Fu del resto il principale teorico della psicologia del soldato durante la prima guerra mondiale, padre Agostino Gemelli, a teorizzare la necessità della perdita di identità come condizione per costituire il prototipo del "buon soldato"; per essere adatto ad affrontare la guerra di massa, e rispondere in modo automatico agli ordini, questi doveva subire un processo di spersonalizzazione, che doveva allontanarlo dai ricordi familiari, dai legami, in una parola dalla vita.
Nella seconda parte, La prigionia, si tratta del sistema di internamento dei militi catturati in territorio tedesco e austro-ungarico, dei sospetti di tradimento che tanto facilmente li colpirono, del disinteresse e dell'astio del governo nei confronti di coloro che, oltre al danno del dramma della guerra, subirono anche l'umiliazione della detenzione e dell'abbandono da parte della patria, finendo per essere definiti da d'Annunzio e da una non trascurabile parte dell'opinione pubblica "Imboscati d'Oltralpe".
Segue una corposa sezione di lettere sfuggite alla censura o recuperate dagli archivi, che permettono di cogliere la fondatezza della ricostruzione storica e di ascoltare, seppur da lontano, le voci delle vittime della guerra e della prigionia.
Conosciamo tutti le drammatiche condizioni dei combattenti al fronte e l'esistenza di un forte controllo sulle lettere da loro inviate e ricevute; meno noto è che bastava il minimo sospetto di una intenzione di diserzione (molto spesso individuato in semplici sfoghi di chi, comprensibilmente, esternava le proprie sofferenze ai cari lontani) per dare avvio a punizioni, processi e alla sospensione del sussidio per le famiglie, che, in mancanza dei loro lavoratori, non avevano più di che sostentarsi e dovevano al contempo soffrire l'umiliazione di essere additati come nemici della patria.
Pochi sanno, invece, che i campi di concentramento nazisti erano strutture di prigionia organizzate proprio in occasione del primo conflitto mondiale. Era in questi campi, oltre che in molti altri disseminati in tutto il territorio occupato dagli Imperi Centrali, che vennero stipati i combattenti Italiani, Francesi e Inglesi catturati da Tedeschi e Austro-ungarici. C'erano campi riservati agli ufficiali, in cui le condizioni di vita erano accettabili o comunque preferibili a quelle del fronte, e campi per i soldati semplici, nei quali, invece, si lottava quotidianamente contro la fame, il freddo, le malattie e le sofferenze dei lavori forzati, spesso soccombendo.
Il fenomeno degli internamenti di Italiani si accentuò dopo la rotta di Caporetto (ottobre 1917) e con esso si indurì ancora di più l'atteggiamento di un governo italiano per nulla disposto ad ammettere responsabilità ed errori di valutazione. Per il Regno, i detenuti erano tutti dei disertori: spendersi per loro, organizzare rimpatri, scambi di prigionieri o invii di derrate alimentari, velocizzare il ritorno in Italia alla fine della guerra non era una priorità; non farlo era invece la legittima sanzione della colpa di cui gli internati si erano volontariamente macchiati.
Leggendo Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra si colgono i segni del disinteresse da parte delle istituzioni di uno Stato ancora neonato nei confronti del suo popolo, ridotto a massa informe senza dignità, strumento di un'azione che non è mai stato invitato a condividere, ma solo a subire. Non che le trincee del fronte occidentale o di quello orientale fossero meno pericolose, non che i soldati degli altri eserciti corressero rischi minori, non che i comandi militari fossero meno inflessibili, ma ciò che emerge dalle pagine della Procacci è proprio la particolarità del comportamento del governo italiano (in primis del ministro degli esteri Sidney Sonnino), che si rivelò succube dello Stato Maggiore, per nulla risoluto, più incline a punire che a risolvere i problemi strutturali, ma, soprattutto, impietoso con i suoi prigionieri, che, anche qualora si fossero macchiati di diserzione, sarebbero dovuti rimanere, prima di tutto, esseri umani. Mentre infatti nei campi di concentramento gli Inglesi e i Francesi ricevevano cibo e vestiario dai loro compatrioti grazie all'impegno al rispetto delle convenzioni internazionali e di accordi intergovernativi siglati dai singoli Stati, il Regno d'Italia si distinse per l'abbandono dei suoi sudditi, dei quali non fu minimamente disposto a ripagare i sacrifici, almeno fino a quando il governo Orlando, il terzo succedutosi nel quadriennio di guerra, non comprese che l'intransigenza nei confronti dei compatrioti prigionieri avrebbe potuto tradursi in un malcontento pericoloso e nel rischio di fermenti di ribellione.
Nel clima di esaltazione nazionalistica del dopoguerra, la figura del prigioniero si presentava già di per sé ambigua: egli non era il combattente, che la propaganda patriottica esaltava, e che proseguirà a considerare come prototipo di virilità e di dedizione al sacrificio; il prigioniero era rimasto inattivo - e se aveva rischiato di morire di fame, la sua morte non aveva nulla di eroico.
Emerge da questo saggio una ricostruzione della guerra più simile a quella dei testimoni e autori che l'hanno raccontata in libri quali Niente di nuovo sul fronte occidentale, Un anno sull'Altipiano, Uomini in guerra e meno ai gelidi resoconti di alcune trattazioni sommarie, che, nel sorvolare il problema degli esuli e del dramma del loro ritorno, corrobora la lapidaria conclusione del libro, secondo cui la memoria della prigionia fu cancellata da amnistie generalizzate e poco convinte, cosicché dei prigionieri non si è più parlato. E ancora oggi se ne parla troppo poco. Ma non è sufficiente erigere dei monumenti per rendere giustizia ai caduti, ai mutilati e a coloro che, pur ritornati integri nel fisico, sono stati segnati in modo indelebile dal conflitto nello spirito. La giustizia è ben altra cosa e si accompagna ad altre forme di memoria, che spesso cozzano con fanfare, proclami e bandiere.
«Morire! Morire non conta: si sa che una volta o l’altra la pelle bisognerò rimettercela, no? – annotava Salsa – Ma quello che avvilisce, che demoralizza, che abbatte è di veder morire così, inutilmente, senza scopo. Oh, non si muore per la patria, così; si muore per l’imbecillità di certi ordini e la vigliaccheria di certi comandanti».
C.M.

Commenti

  1. Verissimo, il nostro comando e Cadorna in particolare, erano rimasti molto indietro nella scienza militare per certi aspetti. Comunque c'è da dire che la prima guerra mondiale mise in campo aspetti prima mai sperimentati in un conflitto, tipo lo stress causato dai combattimenti. Problema che dai noi si comincerà a trattare solo dopo Caporetto.

    Sarà in un certo senso la prima guerra mondiale a forgiare l'identità italiana nelle masse, facendo incontrare e dialogare realtà altrimenti lontanissime (calabresi e milanesi per fare un esempio).

    Lo ricordo, per anni il governo italiano ha rifiutato qualsiasi forma di aiuto ai propri soldati caduti nelle mani del nemico, per paura che una propensione positiva verso di loro portasse alla diserzione nella truppa combattente. Un comportamento che mandò a morte certa migliaia di combattenti in un paese che già non aveva risorse alimentari sufficienti per il proprio esercito.

    P.S. Io a casa conservo con orgoglio una ristampa della "tradotta", il giornale settimanale della 3 Armata, comprata per me da mio nonna.

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    1. All'enorme dramma vissuto dai soldati si aggiunge poi l'odiosa strumentalizzazione della propaganda: i toni roboanti e trionfali di chi inneggiava all'irredentismo e all'indipendenza nazionale prima, l'esaltazione della vittoria senza alcuna considerazione per prigionieri e reduci mai riabilitati, la doppia faccia di coloro che passarono dal chiedere attenzione ai detenuti dei campi di prigionia al cancellarne la memoria quando l'elogio dell'eroismo italico di ispirazione fascista divenne la priorità. Direi che ancora oggi c'è scarsa attenzione alla questione della diserzione (vera o presunta) dei soldati, soprattutto dopo Caporetto: di questo fenomeno di massa, parte di un ancor più grande fenomeno di massa, il maggiore fino ad allora sperimentato, non si sono ancora messe in luce a dovere le ragioni (paura, motivi ideologici, reazioni di protesta di una comunità costretta all'arruolamento).

      P.S. Che fortuna avere in casa delle fonti dirette e che importanza enorme potrebbero avere se più integrate con i manuali di storia!

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