I libri IV-VI delle Metamorfosi

Nell'ultimo post dedicato alle Metamorfosi ci siamo fermati alla conclusione del libro III, incentrato sulla figura di Bacco e su alcuni miti collegati alla famiglia di sua madre, Semele. Il IV libro prosegue con il racconto della negazione della divinità di Bacco ad opera delle Miniadi, che, non convinte dalla terribile sorte di Penteo, che strenuamente si era opposto ai culti in onore del figlio di Giove, si rintanano in casa per non unirsi alle Baccanti; durante il loro ritiro, le tre sorelle trascorrono il tempo dedicandosi alla tessitura e scambiandosi racconti.
Fra il IV e il V libro Ovidio esibisce il virtuosismo della tecnica del racconto a incastro, raccontando alcuni dei miti più celebri dell'antichità non direttamente, ma affidandosi a dei narratori di secondo o terzo grado che cantano per lui.
Inizia Arsinoe, con la storia degli sfortunati innamorati babilonesi Piramo e Tisbe, alla cui relazione si oppongono i genitori; il mito, antesignano della tragica vicenda di Romeo e Giulietta, racconta di due che si scambiano segretamente promesse d'amore comunicando attraverso una feritoia nella parete che divide le loro stanze, fino ad arrivare a pianificare un incontro notturno nei pressi del sepolcro del re Nino (marito della famosa Semiramide), sotto un albero di gelso. Mentre Tisbe attende l'amato, tuttavia, le si avvicina una leonessa e, spaventata, la giovane abbandona il luogo dell'appuntamento, perdendo il velo nella foga della corsa; la fiera lo riduce a brandelli, macchiandolo con il sangue della caccia che ancora le cola dalle fauci. Quando raggiunge il gelso e trova il velo di Tisbe insaguinato, Piramo pensa che la ragazza sia stata uccisa e si trafigge con la spada: il suo sangue sprizza in alto, fino ai rami dell'albero, i cui frutti si tingono di rosso cupo. Superata la paura, Tisbe abbandona il nascondiglio e torna presso il sepolcro e il gelso, scorge il corpo esanime di Piramo e si dà la morte con la sua stessa spada.
John William Waterhouse, Tisbe (1909)
La scena tragica è stata immortalata nel suo momento culminante da diversi artisti, ma, nell'ambito della rappresentazioni del mito, spicca quella di John William Waterhouse, che si concentra su Tisbe, protesa ad ascoltare le parole dell'amato oltre la feritoia che divide le loro case. La scelta gli dà l'occasione per concentrarsi sulla descrizione pittorica dell'ambiente e della veste di Tisbe, entrambi decorati in modo raffinato, e di sottolineare l'aspettativa dell'incontro: la giovane babilonese ha abbandonato i suoi strumenti di lavoro (il fuso si intravvede alle sue spalle, mentre un gomitolo è abbandonato sullo sgabello davanti a lei), interessata solo al contatto con Piramo, mentre solo la finestra sullo sfondo suggerisce che il proseguimento della vicenda avverrà altrove.
«Parete maligna, perché ti opponi al nostro amore? Che cosa ti costava permetterci di unirci con tutto il corpo o, se questo era troppo, aprirti almeno quel tanto che ci consentisse di scambiarci dei baci? Ma non dobbiamo essere ingrati. Riconosciamo di doverti la possibilità di inviare messaggi alle orecchie amate.»
[Traduzione dei vv. 73-77 di Giovanna Faranda Villa]
La seconda storia è narrata da Leuconoe ed è incentrata sulla passione del Sole Iperione per Leucotoe, scatenata da Venere, desiderosa di vendicarsi dell'umiliazione subita a causa del Titano, che l'aveva sorpresa insieme a Marte, e sulla trasformazione di Clizia, gelosa di Leucotoe, in girasole. La terza sorella, Alcitoe, narra le vicende di Ermafrodito, figlio, come dice il suo nome, di Venere e Mercurio, aggredito da Salmaci, divinità di una fonte presso la quale il giovane si concede un bagno. La parte artisticamente più celebrata di questo mito è proprio quella relativa agli amori di Venere e Marte, oggetto di numerose tele fra il XVI e il XIX secolo.
Conclusa la sezione dedicata alle Miniadi, trasformate infine da Bacco in pipistrelli, si torna alla saga tebana di Cadmo, con la narrazione della trasformazione del re e della sua sposa, Armonia (figlia di Venere e Marte), in serpenti.
A segnare il passaggio fra il IV e il V libro sono le avventure di Perseo, figlio di Danae e di Giove, delle quali si dà per conosciuto lo scontro con Medusa (di cui Ovidio propone un breve cenno in chiusura, mettendolo in bocca allo stesso Perseo), che, infatti, è già ridotta ad una testa che l'eroe porta con sé per sbaragliare i nemici. Aggredito da Atlante, timoroso che il figlio di Giove distrugga il giardino delle Esperidi, Perseo usa la testa della Gorgone per pietrificarlo, dando così origine alla catena montuosa africana che porta il suo nome; successivamente l'eroe salva Andromeda dal mostro al quale è destinata ad essere sacrificata e, al termine dello scontro, deposita il capo di Medusa su alcuni giunchi che, al contatto con il midollo, si pietrificano, generando così il corallo; in seguito, Perseo è costretto a ricorrere allo sguardo di Medusa per sconfiggere Fineo, il pretendente di Andromeda che, furioso per aver perso la promessa sposa, scatena contro di lui una feroce aggressione, aiutato dai suoi compagni, e, infine, per consumare la sua vendetta contro Preto, che aveva usurpato il trono di suo nonno Acrisio, e Polidecte, che, fingendo di voler accogliere sua madre Danae dopo che era stata cacciata da Acrisio perché incinta, aveva tentato di usarle violenza.
La vicenda di Perseo e Andromeda ha ispirato numerose opere d'arte, sia direttamente sia attraverso la mediazione delle avventure di Orlando che hanno un'evidente derivazione ovidiana. Particolarmente interessante è invece il trattamento della figura di Medusa, ampiamente rappresentata nella scultura, nella pittura e nelle architetture (pavimenti mosaicati, stucchi, apparati decorativi come fregi o antefisse) sia in unione a Perseo, in scene di ispirazione narrativa, sia come elemento autonomo. Fra le teste di Medusa più famose, oltre al busto marmoreo del Bernini, conservato ai Musei Capitolini, che si distingue per la plasticità del marmo nella resa della chioma di serpenti che si avvolgono intorno al capo e si intrecciano gli uni con gli altri, ricordiamo i dipinti di Caravaggio, Rubens e Franz von Stuck, tappe imprescindibili di un percorso iconografico per il quale rimando all'accurato post di Didatticarte.

Gian Lorenzo Bernini, Medusa (1640)
L'eroe si deterge con l'acqua le mani vittoriose e per evitare che la ruvidezza della sabbia rovini il capo anguicrinito di Medusa, figlia di Forco, appresta uno strato di morbide foglie e di giunchi nati sott'acqua e ve lo deposita sopra. Le canne fresche, col midollo ancor vivo e permeabile all'interno, subiscono l'effetto del contatto col mostro e si induriscono, trasmettendo l'inconsueta rigidità alle ramificazioni e alle fronde. Le ninfe del mare cercano di ripetere l'esperimento con altre canne e, vedendolo verificarsi, ne godono e ne favoriscono la riproduzione, gettando i semi nelle onde. Anche adesso la natura dei coralli conserva questa caratteristica, cioè di acquistare rigidità al contatto dell'aria, cosicché quello che era giunco sott'acqua, sopra diventi pietra.
[Traduzione dei vv. 740-752 di Giovanna Faranda Villa]
Si passa poi ad uno dei passi più affascinanti dell'intero poema: la sfida delle Pieridi alle Muse; il racconto della contesa canora fra le tre sorelle e le figlie di Giove è inserito in una cornice nella quale Atena colloquia con le divinità delle arti, che la mettono a parte delle diverse fasi della sfida e della punizione finale delle giovani superbe, tramutate in gazze per non aver riconosciuto la sconfitta. Se il canto delle Pieridi è trattato sommariamente in pochi versi, la risposta di Calliope ne occupa oltre trecento e si caratterizza per un ammirevole incastro di tanti racconti intorno a quello principale del rapimento di Proserpina ad opera di Plutone, dio degli Inferi. Il mito, che si riconduce all'origine della stagioni, tocca infatti diversi nucelo narrativi: per contestualizzare la vicenda, che si verifica in Sicilia, Calliope ricorda che l'isola è la prigione del gigante Tifeo, che, schiacciato sotto la terra, tenta di liberarsi scatenando terremoti ed eruzioni dell'Etna; nel descrivere le peregrinazioni di Cerere, alla disperata ricerca della figlia, vengono toccati miti minori, quali la trasformazione di Abante, reo di averla derisa, in un ramarro, e la violenza di Alfeo su Aretusa.

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina (1621-1622)
C'è, non lontano dalle mura di Enna, un lago d'acqua profonda il cui nome è Pergo. Vi si odono canti di cigni non meno numerosi di quelli che provengono dal Caistro, tra il fluire delle onde. Un bosco lo cinge da tutte le parti come una corona e con le sue fronde, a guisa di velo, attutisce la forza dei raggi di Febo. La frescura scende dai rami e la terra irrorata produce fiori porporini. È un'eterna primavera. Proserpina era lì nel bosco che giocava e raccoglieva viole e candidi gigli e con fanciullesco impegno ne riempiva canestri e il grembo della veste, sforzandosi di raccoglierne più delle compagne. Quand'ecco fu vista e in un sol colpo amata e rapita da Dite: tanto fulminea fu l'azione dell'amore.
[Traduzione dei vv. 385-396 di Giovanna Faranda Villa]
Anche per questo passo delle metamorfosi Gian Lorenzo Bernini si rivela l'interprete più significativo: il gruppo scultoreo della Galleria Borghese, strettamente collegato a quello di Apollo e Dafne per tematica, ispirazione e realizzazione, è caratterizzato da un forte dinamismo e da un trattamento straordinario del marmo, che l'artista riesce a piegare alla rappresentazione di muscoli ed espressioni ma anche alla descrizione delle dita di Plutone che affondano nelle carni della sua futura sposa.
La sfida delle Pieridi alle Muse anticipa il tema del libro VI, interamente dedicato ad exempla di hybris o empietà punita, cioè a narrazioni che hanno come fulcro dei comportamenti superbi di mortali che osano porsi in competizione con gli dèi, violando alcuni principi sacri come l'accettazione dell'inferiorità alle divinità, il rispetto incondizionato nei loro confronti, l'accoglienza di supplici e stranieri, in quanto protetti da Giove. I tre grandi miti che si snodano in questa parte delle Metamorfosi sono quelli di Aracne, di Niobe e di Procne e Filomena: nei primi due la hybris si configura come una sfida esplicita agli dèi, mentre nel terzo caso si traduce nell'offesa di un sovrano nei confronti di una donna che si era impegnato a proteggere.
Aracne è una giovane fanciulla ammirata da tutti per il suo talento nella tessitura, al punto che Minerva decide di metterla in guardia sul pericolo di lasciarsi paragonare a lei: la dea si presenta come una vecchia e lancia il suo avvertimento, ma Aracne si rivela sprezzante e lancia a Minerva una vera e propria sfida, che, una volta rivelatasi, ella accetta senza esitazione. Le due prendono posto al telaio e tessono arazzi ricchi di decorazioni particolareggiate, nelle quali personaggi, ambienti e vicende sono chiaramente distinguibili; alla fine Minerva, irritata dalla bravura di Aracne, straccia la sua tela e la colpisce in frone con la spola di legno, spingendo la ragazza ad impiccarsi per l'umiliazione. La dea, però, non è soddisfatta e scaglia su Aracne una maledizione, trasformandola in ragno e condannandola per sempre a perpetuare l'arte con la quale ha tentato di superarla.

Diego Velázquez, Le filatrici (1656)

Il mito di Aracne compare sullo sfondo de Le filatrici di Diego Velázquez (esposto al Prado), in un raffinato gioco di rimandi: se in primo piano sono rappresentate cinque ragazze intente alla lavorazione della lana dalla cardatura alla filatura, in profondità si scorgono le figure di Atena e Aracne, entrambe davanti ad un arazzo che, con la scena raffigurata, amplia ulteriormente il gioco dei piani. L'artista non rappresenta la punizione di Aracne, ma propone un'enigmatica lettura del mito, tanto più scegliendo come rappresentazione del ratto di Europa (uno dei soggetti che Ovidio immagina sulla tela della ragazza) l'immagine realizzata fra il 1560 e il 1562 da Tiziano e già riprodotta da Rubens nel 1628: Velázquez propone, con la scansione dei tre piani prospettici, una sorta di processo che conduce dalla filatura alla realizzazione dell'arazzo ma, al tempo stesso, sembra riflettere sull'evoluzione dell'arte e sul significato della competizione artistica per il raggiungimento dei traguardi più alti.
«Vivi pure, ma continua a restare sospesa, scellerata! E perché tu non speri in un futuro esonero dalla pena, sappi che essa persisterà come una legge nei confronti della tua stirpe e dei più lontani discendenti!». Dopo questa sentenza, all'atto di andarsene, cosparge la donna con succhi spremuti da un'erba infernale. Subito, al contatto del veleno, all'infelice cadono tutti i capelli e contemporaneamente le si rimpiccioliscono il naso, le orecchie e la testa: anche tutto il resto del corpo si riduce. Questo corpo reca attaccate ai lati dita sottilissime con funzione di gambe e tutto il resto è ventre, da cui ella emette un filo: così continua come ragno a tessere tele come prima.
[Traduzione dei vv.136-145 di Giovanna Faranda Villa]
Gustave Doré, Aracne (Pg. XII, vv. 42-44)

Pur ispirata a Ovidio solo di riflesso, in quanto le Metamorfosi sono fra le fonti cui attinge Dante nella Commedia, va ricordata la rappresentazione di Gustave Doré di Aracne per il canto XII del Purgatorio, ambientato nella cornice dei superbi: qui Dante, camminando a testa bassa come impone il contrappasso delle anime, si sofferma sulla decorazione pavimentale, che presenta degli exempla di superbia punita; fra questi c'è anche Aracne, colta nel mezzo della sua trasformazione, mentre è già mezza ragna (v. 43), ma Doré non la relega ad elemento decorativo, bensì la pone di fronte a Dante come un personaggio a tutti gli effetti, conferendole la forza e il pathos delle figure infernali.
Il secondo mito incentrato sulla hybris verso gli dèi (anch'esso presente nella galleria del canto XII del Purgatorio) ha per protagonista Niobe, regina frigia che scredita Latona, rifiutandosi di venerarla, perché, pur avendo generato con Giove Apollo e Diana, non può vantare una prole numerosa come la sua; vantandosi di essere figlia di una delle Pleiadi e di avere lei stessa Giove come suocero, si ritiene superiore a Latona per aver messo al mondo sette figli e sette figlie. All'indignazione di Latona segue l'intervento di Apollo e Diana, che fanno strage prima di tutti i maschi generati da Niobe e poi, dato il permanere della superbia della donna, che ancora testardamente esibisce le sette figlie sperstiti, anche delle femmine.
Cratere dei Niobidi (460 a.C. ca.)
La più interessante rappresentazione di questo mito, precedente al racconto di Ovidio (che, come quasi tutti i miti riuniti nelle Metamorfosi, è di origine greca), è quella riportata sul lato A di un cratere a figure rosse prodotto intorno al 460 a.C., rinvenuto in una tomba a Orvieto e oggi conservato al Louvre. Al centro del vaso troneggiano i due arcieri divini, attorniati dai Niobidi in fuga o morenti; ciò che rende speciale questa immagine è che per la prima volta, attraverso la distribuzione delle figure in movimento su piani diversi, si tenta di rendere su una superficie bidimensionale la profondità di una rudimentale prospettiva, che si rivela anche un utile strumento per distribuire numerosi elementi in uno spazio vincolante per dimensioni e forma.
Priva ormai di tutti, Niobe si accasciò tra i corpi senza vita dei figli, delle figlie e del marito, e divenne pietra sotto quel cumulo di dolore. La brezza non faceva più ondeggiare i capelli, il volto era esangue, gli occhi restarono sgranati e fissi sopra le guance meste. Nel suo aspetto non c'era più nulla di vivo. Perfino dentro di lei la lingua diventò di ghiaccio nel palato impietrito e le vene si irrigidirono. Il collo non poteva più piegarsi, le braccia non potevano abbozzare un gesto, i piedi muovere un passo; anche le sue viscere erano di pietra. Malgrado ciò, piangeva.
[Traduzione dei vv. 301-310 di Giovanna Faranda Villa]
Segue un altro esempio di vendetta scatenata da Apollo, poco sviluppato in estensione ma fortunato nelle arti, in particolare grazie a Tiziano. Si tratta del mito di Apollo e Marsia, del quale Ovidio focalizza solo il momento finale, mentre Marsia viene scuoiato e grida di dolore, pentito di aver osato sfidare il dio in una gara col flauto. Tiziano dipinge l'episodio fra il 1572 e il 1576, veicolando un pensiero fortemente pessimista in cui l'arte sembra aver abbandonato gli alti ideali dell'Umanesimo di conciliazione con il potere; fra le figure che attorniano il satiro, appeso a testa in giù, si distinguono un musicista che intrattiene i presenti, in contrasto col dramma che si sta consumando, e Mida, sulla destra, in atteggiamento pensoso, nel quale alcuni critici hanno riconosciuto il volto dell'artista stesso.

Tiziano, Apollo e Marsia (1572-1576)
«Perché mi strappi fuori di me? Sono pentito! Il flauto non vale un prezzo così alto!». Ma mentre urlava la pelle gli venne strappata via dalle membra, lasciandolo tutto una ferita. Colava sangue da ogni parte, apparivano a nudo i muscoli, e le vene, senza più a protezione della pelle, guizzavano e pulsavano; i visceri erano in risalto tanto da poterli contare e così le fibre traslucide del pettto. Lo piansero i Fauni, divinità delle campagne e delle selve, i satiri suoi fratelli, l'Olimpo che gli era pur sempre caro, le ninfe e tutti i pastori di lanose pecore e i bovari che abitavano quei monti. La fertile terra fu bagnata dal loro pianto, assorbì tutte le lacrime che cadevano su di lei e se ne imbevve profondamente, per poi ramutarle in acqua che fece scaturire all'aperto.
[Traduzione dei vv. 385-398 di Giovanna Faranda Villa]
L'ultimo mito è quello delle sorelle Procne e Filomena, la prima andata in sposa a Tereo, la seconda vittima della passione del re, che, pur avendo promesso a Procne di condurre da lei in visita Filomena e al padre di mantenerla al sicuro, all'arrivo in Tracia la rinchiude in una baracca nel bosco e le usa ripetutamente violenza e le taglia la lingua, finché la giovane, grazie all'abilità nella tessitura, riesce a far sapere la verità a Procne, che se la vede raccontare attraverso un arazzo. Umiliata e adirata, Procne, con un atto che ricorda quello di Medea, decide di punire l'affronto del marito privandolo di ciò che ha di più caro: le due sorelle uccidono e fanno a pezzi Iti, il figlio nato dal matrimonio di Procne e Tereo, e imbandiscono per la cena le sue membra, lasciando all'esibizione della testa del bambino la dichiarazione del delitto, in seguito al quale le tre anime tormentate si trasformano: Procne diventa una rondine, filomena un usignolo e Tereo un'upupa.
L'acme della vicenda è oggetto del dipinto di Rubens Il banchetto di Tereo (1637 ca.), anch'esso esposto al Prado, e simile nello schema alla versione di Artemisia Gentileschi, che ha trovato nel mito un tema pittorico simile a quello di Giuditta. Tereo è rappresentato sulla sinistra, in preda allo sgomento, mentre Procne tende verso di lui la testa di Iti; le due donne indossano abiti da Baccanti e Filomena impugna il tirso, bastone rituale dei riti dionisiaci, in riferimento allo stratagemma adottato da Procne di fingersi in preda al furore bacchico per mascherare il proprio dolore e di far vestire la sorella come una menade per non farla identificare.
Il Tracio allontanò da sé il pasto con un urlo terribile, evocando dalla valle dello Stige le sorelle anguicrinite: in un primo momento avrebbe voluto, se gli fosse stato possibile, aprirsi il petto per buttar fuori il cibo e vomitare quelle viscere che aveva ingerito; poi si mise a piangere, chiamando se stesso sepolcro miserando del figlio; infine si lanciò a inseguire le figlie di Pandione con la spada sguainata. Ed ecco si sarebbe detto che i corpi delle due Ateniesi avessero ali e su di esse si librassero: era proprio così e l'una si diresse verso i boschi, l'altra si nascose sotto il tetto. Dal suo petto non si sono cancellate le tracce della strage, ma sulle piume resta ancora un marchio di sangue.
[Traduzione dei vv. 661-670 di Giovanna Faranda Villa]
Pieter Paul Rubens, Il banchetto di Tereo (1637 ca.)

Sintesi dei contenuti del libro IV delle Metamorfosi:
vv. 1-415: Tracotanza delle Miniadi verso Bacco e loro trasformazione in pipistrelli
    vv. 53-166: Piramo e Tisbe (racconto di Arsinoe)
    vv. 169-270: Amori di Venere e Marte, Amori di Iperione e Leucotoe, gelosia e trasformazione di     Clizia in girasole (racconti concatenati di Leuconoe)
    vv. 271-388: Salmaci ed Ermafrodito (racconto di Alcitoe)
vv. 416-563: Ira di Giunone verso Bacco e la stirpe di Cadmo
    vv. 525-542: Deificazione di Ino e Melicerta
    vv. 543-562: Metamorfosi delle compagne di Ino
vv. 563-603: Cadmo e Armonia mutati in serpenti
vv. 607-803: Avventure di Perseo
    vv. 627-662: Perseo e Atlante
    vv. 663-764: Perseo e Andromeda
    vv. 740-752: Origine del corallo
    vv. 765-803: Perseo e Medusa (racconto di Perseo)

Sintesi dei contenuti del libro V delle Metamorfosi:
vv. 1-235: Massacro in casa di Cefeo, scatenato da Fineo, pretendente di Adromeda
vv. 236-249: Vendetta di Perseo su Preto e Polidecte
vv. 250-678: Atena ascolta i racconti delle Muse
    vv. 269-293: Le Muse e Pireneo
    vv. 294-678: Sfida delle Pieridi alle Muse
        vv. 332-661: Il ratto di Proserpina (canto di Calliope)
            vv. 346-358: Condanna di Tifeo
            vv. 409-437: La fonte di Ciane
            vv. 446-461: Cerere e Abante
            vv. 471-508: Dolore di Cerere
            vv. 509-532: Cerere chiede aiuto a Giove
            vv. 533-550: Ascalafo mutato in gufo
            vv. 551-563: Le Sirene
             vv. 572-641: Aretusa e Alfeo
            vv. 641-661: Trittolemo mutato in lince

Sintesi dei contenuti del libro VI delle Metamorfosi:
vv. 1-145: Aracne
     vv. 70-102: La tela di Minerva
         vv. 87-102: Metamorfosi operate da Giunone
     vv. 103-128: La tela di Aracne: Metamorfosi degli dèi Olimpi
vv. 146-312: Niobe e i suoi figli
vv. 313-381: Peregrinazioni di Latona, nascita delle rane
vv. 382-400: Apollo e Marsia
vv. 401-412: Dolore di Pelope per la sorella Niobe
vv. 413-674: Procne, Filomena e Tereo
vv. 675-721: Borea e Oritia

C.M.

Commenti