Il piacere - Gabriele D'Annunzio

Quale romanzo più de Il piacere rappresenta il proprio autore, il proprio tempo, nonché la sensibilità dalla quale scaturisce? Perfetta sintesi della cultura decadente europea, il romanzo di Gabriele D'Annunzio è anche il luogo letterario in cui ne viene immortalato l'autore, anche se è solo una delle strade attraverso le quali lo scrittore abruzzese ha manifestato il proprio vivere inimitabile. Il piacere non è solo il romanzo dell'estetismo italiano o, come spesso si scrive, il prodotto della crisi dell'estetismo, ma una rappresentazione di uno stato d'animo profondo, oltre che delle contraddizioni che alimentano l'agire umano, ancorché quello di un particolare tipo di uomo.
D'Annunzio è forse l'autore che dagli studi scolastici esce nella maniera peggiore: si tende ad avere di lui l'immagine di un megalomane, di un esaltato, di un essere umano scostante e stravagante, vizioso, addirittura perverso. E di certo un approfondimento della sua vita e delle sue opere non può contraddire questa impressione generale. Ma c'è molto di più. C'è una dimensione più profonda che, se non cancella certamente il classismo, il nazionalismo, l'anti-egalitarismo e l'eccentricità del vate, le conferisce quantomeno uno spessore che può e deve sottrarre Gabriele D'Annunzio allo stereotipo di Gabriele D'Annunzio.
 
Giovanni Boldini, Natura morta con fiori

Il piacere (1889) documenta in modo profondo, articolato e drammatico l'intensità del sogno dannunziano, il desiderio vitalistico di un edonismo che rincorre la bellezza e, lungi dal negarne la caducità e dall'affermarlo come un valore universalmente condivisibile, si strugge nel godimento di quello stesso slancio fino all'autodistruzione.
Andrea Sperelli, comunemente considerato l'alter ego letterario di Gabriele D'Annunzio, è una figura eccezionale, sfrenata, insofferente ai limiti e, anzi, provocatoriamente pronta a sfidarli in nome di un ideale superiore, quello del vivere inimitabile, riassunto nella celebre espressione «Fare la propria vita come si fa un'opera d'arte». E, in osservanza di quelle norme dell'estetismo di cui si farà portavoce, pochi mesi dopo, Oscar Wilde con Il ritratto di Dorian Gray, l'arte non deve essere subordinata a giudizi di moralità o immoralità, è una manifestazione soggettiva e soggettiva ne è la ricezione e guarda unicamente alla bellezza, fondamento di una vera e propria religione di cui l'esteta è il sacerdote. Per Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, giovane conte romano, questo vivere inimitabile si traduce nella frequentazione delle feste dell'alta società, nelle numerose relazione adulterine, spesso più soddisfacenti come provocazione e ripicca che sul fronte sentimentale, nella contesa frenetica e aggressiva delle corse dei cavalli e in quella raffinata ed erudita delle aste antiquarie. Qualsiasi ambiente frequenti, qualsiasi gesto compia, qualsiasi dama seduca, Andrea Sperelli coltiva comportamenti artificiosi, elaborati e costruiti con la perizia dell'artista. Questa simbiosi fra arte e vita è totale e si realizza anche nella forma: Andrea Sperelli trasfigura negli oggetti preziosi della propria casa, quel Palazzo Zuccari in Trinità dei Monti in cui D'Annunzio ha realmente abitato, l'essenza del proprio spirito e la passione delle donne che hanno occupato il suo letto, come se attraverso il maeriale si rivelasse la sua personalità; allo stesso modo, Andrea parla il linguaggio delle pagine e dei versi della letteratura classica, italiana, europea, ma la sua non è pura erudizione, bensì scaturisce dalla convinzione che la sua vita si collochi senza soluzione di continuità nella grandiosità delle figure degli scultori e dei componimenti dei poeti. 
 
Andrea è però fatalmente legato ad una delle sue creazioni edonistiche: l'amore per l'affascinante Elena Muti, di cui, all'inizio del romanzo, attende fremente il ritorno. Dopo settimane di intensa passione, Elena ha improvvisamente lasciato Roma e il pettegolezzo ha ben presto informato Andrea che ella si è risposata con un nobile inglese, Lord Humphrey Hatefield, con il quale è poi rientrata in città. La speranza di Andrea di riallacciare l'antico rapporto viene spezzata dal fermo rifiuto di lei, che lo conduce a cercare altri amori, in un turbine autodistruttivo che si conclude con un duello quasi mortale con un rivale. Mentre si trova nella villa di Schifanoja, ospite dell'adorata cugina, Andrea sembra riconciliarsi con un sentimento vitale più tranquillo, genuino, capace di trovare soddisfazione in una bellezza pura e confortante, ma l'arrivo di una nuova ospite, la senese Maria Ferres, turba profondamente questa illusione paradisiaca. Maria è sposata e ha una figlia che sembra assorbire totalmente la sua capacità di amare; Andrea sente rinascere il trasporto passionale e crede che Maria possa finalmente rappresentare un sentimento puro, ideale e quasi romantico. Ben presto, però, il conte si rende conto di non avere la capacità di essere morale e la sua seduzione verso Maria diventa pressante, tanto che solo la ripartenza di lei può porvi fine. I due, però, si incontrano nuovamente pochi mesi dopo a Roma e lo spazio dell'Urbe diventa lo scenario comune in cui si muovono Elena, rappresentazione dell'amore passionale, di una carnalità tormentata e di una bellezza fatale, e Maria, la creatura della purezza che rappresenta il desiderio di Andrea di un amore ideale, quasi sacrale. Ma far convivere queste due tensioni opposte è difficile, se non impossibile, e Andrea si ritrova a fondere le due donne nell'immagine di una terza amante ideale, creando un sommo artificio fra i tanti di cui è abituato a circondarsi.
Quello di Andrea Sperelli è uno dei personaggi più tronfi e contradittori consegnatici dalla letteratura, ma ha anche l'originalità e la franchezza di una figura (e di un autore) che ammette senza alcun imbarazzo di essere schiavo e al contempo artefice della finzione, anche se questa artificiosità è destinata al fallimento e indica strade impercorribili. Andrea Sperelli rappresenta il sogno, condiviso dal suo autore, di una vita che travalichi i limiti comuni, la mediocrità della società borghese che proclama tutti gli esseri umani uguali, che sappia diventare indimenticabile come l'arte e come l'arte attiri l'attenzione, anche un'attenzione in negativo. L'esteta è lo stadio di incubazione del Superuomo, l'altra figura che, insieme a quella dell'eroe di guerra, ispira il vivere inimitabile dannunziano, le sue idee politiche, il suo eroismo spettacolare in divisa.
Il piacere non è, in fondo, che un'originale espressione del desiderio di immortalità e gloria dell'essere umano, ma anche della paura di non poterlo realizzare e di soccombere nel cammino tortuoso che occorre affrontare. Il desiderio di un personaggio, ma anche il desiderio del suo autore, che, per quanti giudizi e pregiudizi possa attrarre su di sé, per quanto discutibili possano apparire le sue scelte, ha sempre messo sotto i riflettori tutto se stesso, creando il proprio mito ma mostrandone inevitabilmente anche la fragilità.
Leggere Il piacere, così come entrare nel Vittoriale degli Italiani, dove D'Annunzio ha vissuto gli ultimi anni, e esplorare la Prioria nella penombra indotta dai tendaggi spessi e dalle lampade schermate significa entrare nel Decadentismo, scardinarne le definizioni sfuggenti e inefficaci che grondano termini come "languore" e comprendere davvero quale sia stato il sogno dell'esteta, del Superuomo e dell'eroe dell'impresa fiumana.
 

La sua legge era dunque la mutabilità; il suo spirito aveva l’inconsistenza d’un fluido; tutto in lui si trasformava e si difformava, senza tregua; la forza morale gli mancava intieramente; il suo essere morale si componeva di contraddizioni; l’unità, la semplicità, la spontaneità gli sfuggivano; a traverso il tumulto, la voce del dovere non gli giungeva più; la voce del volere veniva soverchiata da quella degli istinti; la conscienza, come un astro senza luce propria, ad ogni tratto si eclissava. Tale era stato sempre; tale sarebbe stato sempre. Perchè, dunque, combattere contro sè medesimo? Cui bono?

C.M.

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