Segnalibri #2

Questo secondo appuntamento con le recensioni brevi dei Segnalibri mi porta ad affiancare due libri molto diversi non solo nell'ambientazione e nelle tematiche, ma anche per il rapporto che ho instaurato con le loro storie: da un lato un romanzo attraverso il quale mi sono trascinata stancamente e perdendo via via la motivazione, dall'altro una vicenda appassionante percorsa con agilità; da una parte una narrazione labirintica, priva di centro, dispersiva e troppo lunga, dall'altra un racconto fluente, semplice nella sua durezza, che si sarebbe potuto protrarre senza farmi perdere il gusto della lettura.
 

Il primo testo è Una persona sensibile (edito da Keller), opera dello scrittore ceco Jáchym Topol, un romanzo che non a torto è stato definito picaresco, ma che ho rimaneggiato per quasi un mese, ritornando più e più volte su alcune sequenze, presa dal bisogno di trovare un senso in un disegno narrativo che programmaticamente non lo aveva o non voleva lasciarlo intendere troppo facilmente. Il risvolto di copertina promette la storia di una famiglia di attori seminomadi che, dopo essersi lasciata alle spalle un festival di Bristol, si mette in strada per tornare in Repubblica Ceca, ma, fra un tuffo in piscina, la sosta in un campeggio dominato dal caos, sorsate di alcol, attentati, furti e omicidi, finisce per percorrere una strada costellata di imprevisti che ben presto fanno dimenticare lo scopo originario del viaggio, in un Est europeo attanagliato dalla xenofobia, dalla transizione socio-economica di fine millennio e da rapporti altalenanti con l'influenza russa. Micio (un soprannome che viene ad un certo punto associato al protagonista, a lungo chiamato soltanto il papà) sballotta i due figli, noti solo come il ragazzo e il bambino, per accampamenti, bordelli, capanne, paludi, monasteri assediati da gruppi paramilitari autocostituiti, in un percorso a ostacoli negli ambienti più sudici, pericolosi e diseducativi che si possano immaginare, nei quali emergono, succedendosi come in un carosello inarrestabile, ladri, prostitute, gang, lupi solitari, ribelli, alcuni dei quali con un proprio romanzo nel romanzo. 
Una persona sensibile presenta alcune sequenze magnetiche, che da sole forniscono quell'impulso a continuare la lettura che può facilmente spegnersi in chi si aspetti di approdare a momenti epifanici, spiegazioni, soluzioni. Il racconto è carente di tutti questi aspetti, perché molto rimane non detto, non approfondito, non collegato a tutto il resto, generando confusione e frustrazione, specialmente laddove emergono questioni socio-politiche di un Paese di cui il lettore medio non conosce molto e che difficilmente può connettere in autonomia alle scelte di Topol. Anche la cifra fondante del testo, un'ironia corrosiva che si può talvolta cogliere, diventa inefficace con il lettore cui manchi tutta una serie di informazioni di contesto che si potevano integrare con una prefazione, un nutrito apparato di note a pié di pagina o una nota conclusiva.
 
Ben diverso è stato l'impatto con Accabadora (Einaudi), acclamato romanzo di Michela Murgia, che attinge al folklore della sua Sardegna per creare il personaggio atavico di Bonaria Urrai, l'anziana sarta dell'immaginario paesino di Soreni, una donna che da anni vive sola e che talvolta, la notte, lascia la propria casa per assolvere ad un incarico misterioso. Bonaria Urrai, però, merita di far parte di un romanzo soprattutto per la scelta di fare della giovane Maria Listru la propria fill'e anima, prendendola con sé per sollevare la famiglia d'origine della necessità di sfamare una bocca in più e per confortare la propria solitudine. Per Maria la vecchia Bonaria diventa la vera madre, anche se la bambina non recide completamente i rapporti con la famiglia biologica; da Bonaria impara il mestiere della sarta, viene mandata a scuola, riceve un'educazione rigorosa, ma anche una casa in cui non deve sentirsi estranea. Nonostante la profondità di questo legame, nemmeno a Maria è lecito chiedere dove si rechi Bonaria la notte e perché al sorgere dell'alba successiva a Soreni si pianga sempre la dipartita di un infermo.
Il racconto intessuto da Michela Murgia scorre con piacevolezza, illuminando un mondo rurale, intriso di superstizioni, di difficoltà e di paure e reso rabbioso dalla lotta per la sopravvivenza, che spesso si fa feroce per qualche metro di terreno conteso. La piccola comunità della Soreni degli anni Cinquanta è un microcosmo verista, in cui si dipana un'esistenza dura, fatta di sacrifici e di rituali che si tramandano di generazione in generazione, in un susseguirsi di giornate in cui la realtà più cruda e mordente si intreccia con credenze sospese fra la religiosità cristiana e tradizioni paganeggianti. La storia di Maria e Bonaria è accarezzata con delicatezza, con compostezza e senza giudizi, con uno sguardo disincantato che restituisce dignità e pienezza ad ogni personaggio, anche a quelli che, come la madre e le sorelle di Maria, potrebbero essere quasi antagonisti. La piacevolezza del racconto è tale che la rapida sortita di Maria nel continente e alcuni risvolti della sua maturazione lasciano il desiderio di saperne di più, ma forse è proprio l'estrema concisione della narrazione a renderla così affascinante.

C.M.

Commenti