Quaderni di Serafino Gubbio operatore - Luigi Pirandello

Nel 1925, a distanza di un decennio dall'uscita in rivista e dopo la significativa esperienza dei Sei personaggi in cerca d'autore, Luigi Pirandello pubblica il romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, inizialmente intitolato Si gira, dal soprannome che nelle operazioni di regia identifica il protagonista e, pertanto, maschera che ne sintetizza l'identità agli occhi della troupe.
Con questo libro Pirandello traporta la sua riflessione sulla Vita e sulla Forma nel neonato mondo del cinema, allargandola all'espressione di una polemica pervasiva contro la macchina, che elimina il sentimento e asseconda le perversioni della Forma, riproducendo scene sempre uguali e infinitamente ripetibili.
 

Non dica! Non dica! Lei è uno che sa il fatto suo, a preferenza di tutti gli altri; sa, vede e non parla... Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti... che so! Ma perché si dev’essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l’uno di fronte all’altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch’io, anch’io; mi ci metto anch’io; tutti! Mascherati! Questo, un’aria così; quello, un’aria cosà... E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come... come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna! Sissignore, creda: il cuore si vergogna! Io smanio, smanio, signor Gubbio, per un poco di sincerità... d’essere con gli altri come sono tante volte con me stesso, dentro di me; una creatura, glielo giuro, una creaturina che piagnucola perché la mamma santa, sgridandola, le ha detto che non le vuole più bene! Sempre io, sempre, quando mi sento salire il sangue agli occhi, penso a quella mia vecchierella, laggiù in Sicilia, sa? Ma guaj se mi metto a piangere! Quelle che sono lagrime per i miei occhi, se qualcuno non le capisce e crede che siano per paura, possono diventar subito sangue nelle mie mani; io lo so, e perciò ho una gran paura, quando mi sento pungere il pianto negli occhi! Le dita, guardi, mi diventano così!

La filosofia di Pirandello esce così dal terreno della finzione scenica teatrale per interrogarsi sulle implicazioni di un nuovo strumento artistico che lega la risucita di un'immagine (una riproduzione e una finzione, per forza di cose) a schemi rigidamente definiti e ad una camera da presa rispetto alla quale l'artefice è sostituito da un manovale. A Serafino Gubbio si richiede la totale sospensione di qualsiasi capacità critica e di girare silenziosamente la manovella della macchina, pertanto egli diventa l'osservatore straniato di un'umanità che appare ridicola, disorientata, capricciosa e superficiale.
In questa sua veste di operatore cinematografico (alla quale è arrivato per caso), Serafino assiste al consumarsi dell'atto finale di una di quelle storiacce da romanzo d'appendice alle quali gli autori attingono a piene mani per intrattenere il pubblico della nuova arte. Al centro di tutto c'è la tipica donna fatale, l'attrice russa Varia Nestoroff, ovviamente impegnata in una relazione con il collega primo attore, Carlo Ferro; l'arrivo a Roma di Aldo Nuti, a lei legato da un rapporto tormentato di amore-odio, fa dilatare la vicenda al passato, in un tempo in cui la Nestoroff era fidanzata con un amico di Serafino, Giorgio Mirelli, artista che ne aveva fatto la sua musa, suicidatosi alla notizia di un tradimento a cui l'amata sarebbe stata provocata proprio dal Nuti. Serafino osserva la grottesca commedia delle passioni del triangolo Nuti-Nestoroff-Ferro e di tutti i personaggi che a vario titolo partecipano alla produzione di un film che sembra sempre più assomigliare, nei suoi stereotipi e nelle sue assurdità, alle schermaglie degli attori.

Chi è lui? Ah, se ognuno di noi potesse per un momento staccar da sé quella metafora di se stesso, che inevitabilmente dalle nostre finzioni innumerevoli, coscienti e incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci; si accorgerebbe subito che questo lui è un altro, un altro che non ha nulla o ben poco da vedere con lui; e che il vero lui è quello che grida, dentro, la colpa: l’intimo essere, condannato spesso per tutta intera la vita a restarci ignoto!
Vogliamo a ogni costo salvare, tener ritta in piedi quella metafora di noi stessi, nostro orgoglio e nostro amore. E per questa metafora soffriamo il martirio e ci perdiamo, quando sarebbe così dolce abbandonarci vinti, arrenderci al nostro intimo essere, che è un dio terribile, se ci opponiamo ad esso; ma che diventa subito pietoso d’ogni nostra colpa, appena riconosciuta, e prodigo di tenerezze insperate. Ma questo sembra un negarsi, e cosa indegna d’un uomo; e sarà sempre così, finché crederemo che la nostra umanità consista in quella metafora di noi stessi.

Dalla sua prospettiva, Serafino si interroga sulla mutevolezza dei sentimenti e dei propositi degli esseri umani, sulle infinite maschere che riescono ad assumere, consapevolmente o inconsapevolmente, al punto che nessuno di essi saprebbe forse riconoscere la propria autenticità e smascherare i propri inganni. Non riesce così a comprendere se Varia Nestoroff immagini le intenzioni di Aldo Nuti, se sappia riconoscervi un amante o un cercatore di vendetta, ma nemmeno quest'ultimo saprebbe forse definire il proprio ruolo. Preso atto della fallacia di qualsiasi ipotesi, che si lascia smentire quando l'attenzione, come una macchina da presa, si avvicina o si allontana dai diversi soggetti o cambia prospettiva, Serafino non può fare altro che accettare di essere l'impassibile testimone dei fatti, diventando totalmente muto dopo il tragico finale del film da lui ripreso.
Meno noto e meno coinvolgente de Il fu Mattia Pascal e di Uno, nessuno e centomila, questo romanzo ne riprende temi e suggestioni, approfondendo la riflessione sul ruolo dell'arte, nuovo strumento capace di creare e moltiplicare forme, con l'aggravante che la meccanizzazione permette anche la serializzazione della finzione. L'attore è, nel racconto, colui che recita - come tutti - nella vita e che continua a farlo, in modo perverso, per appagare con la finzione il bisogno di falsità del pubblico; lontano dalla solennità del palcoscenico teatrale, che può offrire quasi una proiezione dei drammi reali pur non potendo mai coincidere con l'autentico, il mondo del cinema appare gravato dalla massificazione, che obbliga a dare in pasto alla macchina e agli spettatori la Vita, tradendola senza alcun rimorso e, anzi, con grottesca fierezza, per il puro gusto di riempire e sovraccaricare l'esistenza, così da impedire che negli spazi vuoti si infili qualcosa della Vita stessa e delle inquietudini che essa, nella sua fluida metamorfosi, porta con sé.
La serialità, l'automatismo, la velocità che la macchina imprimono alla Forma sono il bersaglio della critica corrosiva di Gubbio/Pirandello ad un'arte che, oltre a soffocare il sentimento, ostenta la falsità come un vanto. Il pubblico, tuttavia, non ne esce migliore dei produttori, dato che il successo dell'industria dello svago risulta dovuta proprio alla ricerca di riempitivi da parte di un'umanità che pare preda di una follia generalizzata, sempre più movimentata, accelerata, frenetica. Le pagine dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ricordano così la riflessione di Seneca sugli occupati, affidata dal filosofo antico a tanti suoi scritti, e diventa un amaro compianto dell'horror vacui in presenza del quale si manifesta un profondo disagio esistenziale. La macchina, che velocizza la corsa dell'uomo attraverso le forme, ne accentua la spersonalizzazione, mentre il filtro dell'obiettivo gli richiede sempre più di essere osservatore e sempre meno di vivere e di ascoltare la propria interiorità.

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero o m’aggredirebbero.
No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.
Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là. — No, caro, grazie: non posso! — Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare... — Alle undici, la colazione. — Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola... — Bel tempo, peccato! Ma gli affari... — Chi passa? Ah, un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n’è andato. — La bottega, la fabbrica, il tribunale...
Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi.
— Svaghiamoci! —
Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli su, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che — Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? — non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula ticchettante riproduzione meccanica.
Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare.
Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.

C.M.

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