Sul sapere umanistico: un "dialogo" con Ordine e Serianni

Nella società odierna, dominata dalla dimensione del tutto e subito e orientata alla percezione di un'utilità tangibile, la domanda sul senso, sullo scopo del sapere umanistico diventa sempre più pressante, pervasiva e urgente. Il problema di fondo che inibisce la percezione della necessità di coltivare discipline quali la letteratura, la filosofia, la storia, l'arte è che vengono identificate con temi e situazioni che ciascuno colloca nel proprio vissuto scolastico e non riconosce altrove. Non si sa individuare l'intrinseca capacità di queste forme di sapere di renderci liberi, autonomi, consapevoli del contesto nel quale viviamo e in possesso degli strumenti per analizzare anche scenari nuovi, inediti, inaspettati. Si aggiunga poi che si pensa sempre a queste discipline come concentrati di contenuti, di conoscenze, di nozioni, quasi mai come strumenti, mezzi per accedere all'interpretazione e al dominio della realtà.
 
Chi, come me, insegna proprio discipline umanistiche, soprattutto il latino e il greco, è destinato a essere sottoposto, quasi fatalmente, a questa domanda e in molti casi anche ad assistere a reazioni che vanno dallo sbotto diffidente al disgusto. 
Bisogna tenere presente che lo studio umanistico comincia a produrre i suoi effetti non nell'immediato, come potrebbe fare, ad esempio, un esperimento di scienze affrontato in laboratorio, ma sul lungo periodo, che non è sempre immediatamente rapportabile ad una situazione reale, che alla luce di esso si spieghi. Infatti ciò che io chiedo ai miei studenti è un insieme di pazienza e di fiducia. Il sapere umanistico, al di là di un nozionismo che comunque fonda, insieme a quello scientifico, un irrinunciabile bagaglio di cultura generale, richiede tempo, ma, una volta acquisito, fornisce strumenti critici importanti tanto quelli affidati alla preparazione tecnico-scientifica. Strumenti che diventano trasversali, pervasivi, duttili.
Per approfondire da un lato la riflessione sull'utilità delle discipline umanistiche, dall'altro quella sul loro insegnamento, consiglio due brevi saggi scritti da due accademici recentemente scomparsi: L'utilità dell'inutile di Nuccio Ordine e L'ora d'italiano. Scuola e metarie umanistiche di Luca Serianni.

Se lasceremo morire il gratuito, se rinunceremo alla forza generatrice dell'inutile, se ascolteremo unicamente questo mortifero canto delle sirene che ci spinge a rincorrere il guadagno, saremo solo in grado di produrre una collettività malata e smemorata che, smarrita, finirà per perdere il senso di se stessa e della vita. E allora, quando la desertificazione dello spirito ci avrà ormai inariditi, sarà veramente difficile immaginare che l'insipiente homo sapiens potrà avere ancora un ruolo nel rendere più umana l'umanità...

Il testo di Ordine, di cui si è appena citata l'introduzione, si basa su una fondamentale opposizione fra ciò che è possesso, cioè una dimensione legata all'utile, al quantificabile, al monetizzabile, e che costringe, lega a qualcosa di circoscritto del quale diventiamo schiavi, e ciò che è amore, che si identifica con la qualità, con il disinteresse, con la gratuità e con l'annessa idea di libertà. Ordine sottolinea come la stessa scienza abbia partorito i suoi frutti migliori laddove non è stata asservita ad una utilità immediata, ma abbia trovato la possibilità di svilupparsi seguendo quella dote tipicamente umana che è la curiositas, principio sacrosanto, del resto, sia nella cultura filosofica (pensiamo  a Platone) e a quella tecnico-scientifica (mi viene in mente la favola dei suoni di Galilei). La dimensione della ricerca, dell'inseguimento di una verità alimentata dal dubbio e continuamente rigenerata da se stessa è la cifra fondante della libertà umana, l'elemento che impedisce di irrigidirsi su preconcetti e barriere e di essere disponibili a rimoderllarsi e a rimodellare il mondo. La gratuità, lo spirito di una ricerca libera, la capacità di effettuarla nel presente come nel passato è ciò che lascia aperte le porte al dialogo, al confronto, alla tolleranza; inoltre è la garanzia che il sapere non ci possa essere sottratto, perché, a differenza di un bene materiale, con la condivisione non si impoverisce ma si accresce.

Solo la consapevolezza di essere destinati a vivere nell'incertezza, solo l'umiltà di considerarsi essere fallibili, solo la coscienza di essere esposti al rischio dell'errore possono permetterci di concepire un autentico incontro con gli altri, con quelli che pensano in maniera diversa da noi. Per questa ragione la pluralità delle opinioni, delle lingue, delle religioni, delle culture, dei popoli, deve essere considerata come una immensa ricchezza dell'umanità e non come un pericoloso ostacolo.
Ecco perché coloro i quali negano la verità assoluta non possono essere considerati nichilisti: situati tra i dogmatici (che credono di possedere la verità assoluta) e nichilisti (che negano l'esistenza della verità), si collocano, in maniera equidistante, coloro che amano la verità dal punto da esserne continuamente alla ricerca. Così - accettare la fallibilità della conoscenza, confrontarsi con il dubbio, convivere con l'errore - non significa abbracciare l'irrazionalismo e l’arbitrio. Ma significa, al contrario, in nome del pluralismo, esercitare il nostro diritto alla critica e sentire il bisogno di dialogare anche con chi si batte per valori diversi dai nostri.

La difesa dell'inutile e del gratuito, che Ordine conduce con argomentazioni rafforzate dal confronto con intellettuali di ogni epoca, non può tralasciare una riflessione sull'insegnamento e su un sistema di istruzione che sempre più viene orientato alla professionalizzazione e che, quindi, rischia di ridursi ad un unico scopo, totalizzante e penalizzante, quello del solo mestiere.

Sarebbe assurdo mettere in discussione l'importanza della preparazione professionale negli obiettivi delle scuole e delle università. Ma il compito dell'insegnamento può essere veramente ridotto a formare medici, ingegneri o avvocati? Privilegiare esclusivamente la professionalizzazione degli studenti significa perdere di vista la dimensione universale della funzione educativa dell'istruzione: nessun mestiere potrebbe essere esercitato in maniera consapevole se le competenze tecniche che richiede non fossero subordinate a una formazione culturale più vasta, in grado di incoraggiare i discenti a coltivare autonomamente il loro spirito e a lasciare libero corso alla loro curiositas. Far coincidere l'essere umano esclusivamente con la sua professione sarebbe un errore gravissimo: in qualsiasi uomo c'è qualcosa di essenziale che va molto al di là del suo stesso mestiere. Senza questa dimensione pedagogica, completamente lontana da ogni forma di utilitarismo, sarebbe ben difficile, per il futuro, continuare a immaginare cittadini responsabili capaci di abbandonare i propri egoismi per abbracciare il bene comune, per esprimere la solidarietà, per difendere la tolleranza, per rivendicare la libertà, per proteggere la natura, per sostenere la giustizia…

In questo terreno di cultura inutile sta il rispetto per le capacità dell'essere umano, che vanno al di là della sua presenza pragmatica: in un momento storico in cui l'individuo è classificato costantemente per la sua risposta all'esigenza del servire (una tendenza terrificante che i recenti sviluppi dei sistemi di intelligenza artificale rischiano di accentuare), ricordare che esso è qualcosa di molto più profondo è fondamentale per l'affermazione della sua dignità. La curiositas e il senso critico sono ciò che il sistema scolastico e universitario dovrebbero incoraggiare, quella cifra di autonomia (che il greco ci insegna essere la capacità di autodeterminarsi, di darsi delle regole di comportamento) e di ricerca generativa (e non replicativa) che sono cifra fondante dell'umano.
 
Subentra qui il contributo di Serianni, incentrato sull'insegnamento delle discipline umanistiche. Ne L'ora d'italiano emerge la natura pervasiva dell'insegnamento della materia, soprattutto nella sua dimensione di educazione linguistica, che serve a perseguire l'obiettivo trasversale (cioè comune a tutte le discipline scolastiche, di ogni percorso) della competenza comunicativa. Serianni esamina le potenzialità dello studio della letteratura, della lingua, del contributo degli studi classici, invitando a riflettere sulla funzionalità degli approcci, a superare la dimensione strettamente teorico-normativa in favore dello sviluppo delle abilità coinvolte nella lettura, nella comprensione, nell'analisi e nella comunicazione. Leggere, comprendere, scrivere e argomentare sono abilità necessarie a ciascuno di noi in ogni momento della vita, qualsiasi sia la strada personale e professionale che deciciamo di percorrere; ciò nonostante Serianni non si limita a perseguire l'utilità, ma sottolinea come tali competenze siano arricchite da esperienze strettamente culturali che possono passare solo o quasi solo attraverso la scuola, prima fra tutte quella dell'incontro con la letteratura.

Parlare di letteratura comporta notevoli responsabilità per l'insegnante: si tratta, nientemeno, di scommettere sulla scoperta dell'universo letterario, del piacere di avventurarsi in mondi distanti, per temi o per epoche, eppure in grado di coinvolgere, di esaltare; di avviare al gusto della lettura disinteressata, fatta non perché se ne debba render conto a qualcuno ma solo perché ci va di farlo; di persuadere - ma con discrezione, direi quasi con pudore, senza moralismi - che la lettura affina la capacità di riflessione e naturalmente è la palestra più indicata per esprimersi meglio, a tutti i livelli, includendo anche una più nitida e articolata organizzazione delle idee.

Il rischio di una sacralizzazione fine a se stessa della lingua e della letteratura è ben presente a Serianni, che mette i guardia dalle etichette della grammatica e dal ridurre il testo a un insieme di funzioni narratologiche o di artifici retorici, una dimensione dell'analisi importante ma non esclusiva. L'autore è consapevole anche del carico di responsabilità che spesso viene posto sulle spalle del docente di italiano, che, accanto alla lingua e alla letteratura, è chiamato ad affrontare compiti non strettamente legati ai propri studi, come il dibattito sull'attualità, che gli richiede di intervenire su fronti disparati e su tematiche non necessariamente dominate con la dovuta competenza. L'introduzione dell'insegnamento dell'educazione civica - aggiungo io - avrebbe forse dovuto portare ad una condivisione di questo peso, ma la progettazione di percorsi ben integrati nella didattica è ancora in divenire. Conscio di questa enorme responsabilità, Serianni ricorda che una solida motivazione deve sostenere chi, a fronte di tutti gli utilitaristi che lo assediano, si pone l'insegnamento come professione e missione.

Quel che è certo è che il buon maestro non si costruisce a tavolino. Più importanti delle indicazioni ministeriali, dei corsi di aggiornamento, dei libri di testo sono la solida formazione ricevuta negli studi universitari e - soprattutto - un requisito strettamente soggettivo, anzi psicologico: la fiducia nella possibilità d’incidere sulla massa di adolescenti inerti o distratti, valorizzando i talenti dei singoli individui e assicurando loro la necessaria preparazione disciplinare. Ciò vuol dire che l'insegnante deve, più di quel che valga per altre professioni, credere al lavoro che fa e scommettere su sé stesso, proponendosi agli allievi come un esempio positivo, non usurato dalla routine e non rassegnato alle tante cose che non vanno. Come tutte le scommesse, si può vincere o perdere; ma se si vince, ogni docente - dalle elementari in avanti - resterà un riferimento nitido e costante per l'allievo, anche quando il ragazzo sarà diventato adulto, e la sua lezione non andrà dispersa.

In questi giorni di Esami di Stato, mentre infuriano le solite, trite polemiche sulle tracce della prima prova, sul senso dell'Esame di Stato, su una scuola che non si adegua al mondo delle professioni o che non conclude abbastanza in fretta rispetto alle prove di accesso all'Università (ci sarebbe però da chiedersi se non sia l'Università a dover rispettare una buona volta gli obiettivi e i tempi della scuola, che le fornisce le basi) i moniti di Ordine e Serianni sembrano più che necessari, il secondo per gli addetti ai lavori, il primo davvero per tutti.

Chi è sicuro di possedere la verità non ha più bisogno di cercarla, non sente più la necessità di dialogare, di ascoltare l'altro, di confrontarsi in maniera autentica con la varietà del molteplice. Solo chi ama la verità può cercarla continuamente. Ecco perché il dubbio non è nemico della verità ma è stimolo continua la ricerca di essa. Solo quando si crede veramente nella verità, si sa che l'unico modo per mantenerla sempre viva è proprio quello di metterla continuamente in dubbio. E senza la negazione di una verità assoluta non ci può essere spazio per la tolleranza.

C.M.

Commenti

  1. Grazie, Cristina. Un articolo prezioso.

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    1. Temevo che i fili fra i due libri potessero risultare poco evidenti, ma mi fido del tuo giudizio. Grazie, Luz!

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