Dopo La manutenzione dei sensi, Il guardiano della collina dei ciliegi e Non esistono posti lontani, l'autore ha pubblicato con Fazi, nell'ottobre del 2021, Tutto il cielo che serve, un romanzo che affonda le basi nel tragico evento del terremoto di Amatrice del 2016.
Tutto il cielo che serve incatena il lettore con la consueta magia delle descrizioni cui Franco Faggiani lo ha abituato: la prosa limpida, garbata e precisa fa scorrere elegantemente il racconto fra Roma e gli Appennini e dipinge scenari mozzafiato, provocando un'immersione nella natura evocata. Quello che lo rende meno pregnante rispetto ai romanzi precedenti, in particolare i primi due (probabilmente insuperabili), è l'evoluzione della protagonista attraverso le esperienze che affronta. Ne La manutenzione dei sensi l'approfondimento caratteriale di Leonardo e Martino si realizzava nel confronto fra i due o fra loro, la montagna piemontese e i personaggi minori; ne Il guardiano della collina dei ciliegi era reso possibile da un intenso dialogo spirituale di Shizo Kanakuri con se stesso, con i kami del bosco, con il vissuto familiare, con l'energia liberata nella corsa. Qui manca un aggancio che permetta di svolgere il filo dell'interiorità di Francesca, che si avverte solo se lei spiega se stessa direttamente: Francesca si racconta ma non si mostra, dipendiamo troppo dalle sue parole per conoscerla e questo mi ha reso lei e la sua storia meno vicine rispetto alle precedenti; forse sarebbe servito qualche capitolo in più o qualche stacco temporale in meno per sviluppare qualche particolare che rimane forse implicito o, perlomeno, non così evidente quanto risulta dalla sinossi di copertina.
In ogni caso Tutto il cielo che serve si è rivelata una lettura piacevole, un'escursione leggera fra le montagne, sulla roccia e in mezzo ai boschi. La natura, la montagna e il suo respiro dominano su tutto, ricordando quanto piccolo e fragile sia l'essere umano di fronte alla sua bellezza ma anche alla sua forza e si presenta come un gigante spaventoso ma anche, ancora una volta, come un rifugio dell'anima.
C.M.Rimasi lì a lungo, fin quando le folate aumentarono ancora di intensità e poi cessarono di colpo, come se avessero cambiato improvvisamente rotta. Mi infilai nel sacco a pelo e lasciai il telo d'ingresso della tenda aperto, così potevo continuare a guardare fuori. Spesso, in quei frangenti, avvertivo la solitudine, ma il più delle volte, come pure in quel caso, ero contenta di affrontarla, di possederla o almeno di comprenderla, visto che nessuno o quasi la ama. In cima alla montagna c'eravamo io, un pezzetto di terra su cui sdraiarsi e tutto il cielo immenso, dove veleggiavano nuvole e stormi di uccelli, minuscoli semi e foglie leggere, pensieri lievi come piume. Potevo essere ovunque nel mondo o in nessuna parte, e questo mi dava una profonda sensazione di libertà. Quella intima, tutta mia, da non condividere mai con nessuno.
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