Segnalibri #10

Sperando in una più regolare successione fra le mie letture e i post ad essi dedicati, riassumo oggi nel decimo appuntamento con i Segnalibri le impressioni su alcuni libri che mi hanno lasciato impressioni positive, ma non abbastanza da coinvolgermi nella produzione di post molto articolati. Il gradimento è stato, per così dire, tiepido, in un paio di casi forse per le elevate aspettative che avevo riposto nella scelta. Sono curiosa, però, di sapere se qualcuno abbia avuto con gli stessi testi delle impressioni diverse.
 

Campo di pietra di Tove Joansson racconta la storia di Jonas, un giornalista alle prese con la scrittura della biografia di Y, alla quale si dedica durante una vacanza nelle isole Åland con le figlie, che diventa anche un'occasione per rivangare il passato, esaminando i rapporti avuti con loro e con la moglie. Jonas si è sempre impuntato sulla selezione delle parole giuste, più efficaci e corrette, a suo modo dividendo le esperienze fra quelle comunicate correttamente e quelle comunicate in modo inadeguato; questo lo ha reso sempre distaccato, pronto a rimproverare gli altri per una scelta lessicale sbagliata. Il libro che sta cercando si scrivere spinge Jonas all'ossessione, all'impossibilità di scavare nel suo personale campo di pietra per trovare materia e voce per la sua storia, mentre viene alla luce, invece, l'insieme dei suoi errori passati. La vicenda scorre in modo abbastanza fluido, ma la brevità con cui è trattata, che comporta qualche sottinteso di troppo, non mi ha permesso di lasciarmi coinvolgere; di Jansson ho preferito Il libro dell'estate, ma, se in quel testo la brevità era sorretta del carattere episodico della narrazione (quasi un'antologia), in quest'altro ha operato per elisioni e sintesi che non hanno avuto presa.

La sovrana lettrice di Alan Bennett mi metterà sicuramente in una posizione opposta a quella di molti lettori. Avvicinatami a questo racconto con la curiosità nutrita dalle molte recensioni entusiaste (ma anche, lo ammetto, dal recente viaggio a Londra), non ne sono rimasta particolarmente colpita. Interessante è il ritratto della regina Elisabetta che, inaspettatamente, si lascia affascinare dai libri, al punto da farsi procurare di nascosto delle letture e da sacrificare l'etichetta ai propri interessi letterari; curioso come l'improvvisa passione di un capo di Stato sia osteggiata dai suoi collaboratori, che fanno sparire i volumi che tiene in carrozza per leggere durante il tragitto e che sperano che la sua infatuazione svanisca in fretta; pungente il registro, che corre fino al colpo di scena finale, ad una riflessione estremamente pregnante e al tempo stesso quasi dissacrante. Eppure l'effetto sorpresa è mancato, ma forse anche qui si fa sentire il mio grande difetto di prediligere i romanzi ai racconti.
 
L'ultima magia. Dante 1321 di Marco Santagata mi ha messa invece in contatto con il Sommo, promettendo di raccontarne un'avventura a metà fra il thriller e il surreale. A poche settimane dalla morte Dante rievoca gli avvenimenti di alcuni anni prima: la partenza dalla Verona di Canrande, l'ospitalità di Moroello Malaspina, signore della Lunigiana, e soprattutto della sua sposa, Alagia Fieschi, una successiva missione ad Avignone proprio su richiesta di costei, a tutela degli interessi del figlio minore. Dante Alighieri, che già gode della stima di alcuni personaggi di spicco e in misura maggiore dell'ostilità di altri per effetto dei versi delle prime due cantiche della Commedia, si trova suo malgrado coinvolto negli intrighi della curia avignonese, nella scomoda posizione di un nemico di Giovanni XXII e nell'aura del pregiudizio comune, che ne fa un negromante capace di evocare gli spiriti infernali. Anche in questo caso mi sembra che la brevità del romanzo sia ciò che ne smorza la capacità di coinvolgimento: i capitoli brevissimi, i cenni rapidi a personaggi e vicende centrali nell'Europa del XIV secolo, lo scarso approfondimento psicologico dei personaggi principali rende la vicenda poco fluida, frammentata e del tutto priva di tensione; peccato, perché sullo sfondo di tutti gli avvenimenti c'è quello stesso conflitto fra l'Impero e la Chiesa secolarizzata che alimenta anche il grande disegno de Il nome della rosa e che avrebbe potuto espandersi attraverso l'uso magistrale della Commedia (del Paradiso in particolare) che l'autore avrebbe saputo fare.
 
Avete letto questi testi? Cosa ne pensate?

C.M.

Commenti

  1. Fra questi solo La sovrana lettrice, che mi ha lasciato più o meno le stesse impressioni. Certo ho apprezzato la scrittura arguta di Bennet, nella quale ho visto una certa teatralità piacevole, un paradosso velato.

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    1. Il registro ironico è proprio quello che sorregge il tutto, per il resto non così incisivo. Peccato. Magari leggerò altro dello stesso autore.

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